I rifiuti di Gianfranco Ferroni: l'altra faccia della Pop Art


Il 12 maggio del 2001, vent'anni fa, ci lasciava Gianfranco Ferroni, uno degli artisti più complessi e versatili dell'Italia del secondo Novecento. Lo ricordiamo con un'opera degli anni Sessanta particolarmente significativa.

Nell’arte di Gianfranco Ferroni c’è un prima e c’è un dopo. E lo spartiacque è la Biennale di Venezia del 1968. È il 18 giugno, il giorno in cui s’apre l’anteprima della grande mostra internazionale: in piazza San Marco, che non è ancora un pascolo per turisti in ciabatte ma è abituale luogo di ritrovo e di socialità dei veneziani, si raduna qualche decina di studenti per manifestare contro l’arte dei padroni, contro quella che viene vista come la massima espressione dello sfruttamento capitalista dell’arte e della mercificazione dell’arte, contro lo statuto della Biennale che risale ancora al Ventennio fascista, contro la polizia. L’obiettivo è estendere l’azione di boicottaggio della Biennale. A un certo punto scoppia una rissa che vede coinvolti un fotografo (la stampa, prevedendo incidenti, s’era subito fiondata in piazza) e un paio di ragazzi che tirano fuori una bandiera: tanto basta alla celere per caricare e manganellare gli studenti. L’Unità, alcuni giorni dopo, riferirà che alcuni fermati sono stati portati nelle Procuratie Nuove e bastonati tra due ali di poliziotti. E il 23 i neofascisti lanceranno bombe molotov contro l’Accademia di Belle Arti occupata dagli studenti. Il clima, dunque, è pesante: e la Biennale apre ben guardata dalle forze dell’ordine.

Per molti artisti manca tuttavia la libertà culturale necessaria per poter prender parte alla Biennale: dei ventidue italiani invitati alla mostra internazionale, diciannove mettono in atto una protesta e impediscono la vista delle opere ai critici e ai giornalisti giunti per l’anteprima. Alcuni le tolgono, altri le nascondono, c’è chi le rivolta contro la parete. La protesta però dura molto poco: già il giorno successivo quasi tutti gli artisti rientrano nei ranghi. Solo in tre continuano: Gastone Novelli, Carlo Mattioli e Gianfranco Ferroni. Novelli e Mattioli ritirano le opere, “visto il clima anticulturale creatosi, viste le assurde esibizioni di forza della polizia di Venezia e di quella chiamata da Padova e da Trieste, vista la vostra completa mancanza di sensibilità politica per i problemi del momento”, scriverà Novelli ai vertici della Biennale e alla stampa. Ferroni, invece, le fa rimanere girate verso il muro per tutta la durata della mostra.

La Biennale del ‘68 rappresenta, per stessa ammissione di Ferroni, la fine delle illusioni, l’emblema delle speranze disattese, la frustrazione della sua arte di denuncia: la conseguenza è un periodo di crisi, l’isolamento, il disgusto verso il sistema, un periodo di scarsa attività, la fuga in Versilia. Ferroni troverà pace solo in un’arte totalmente rinnovata, e rivolta verso se stesso: un’arte intimista, riposta, rarefatta, un’arte d’esplorazione interiore, segreta, ascetica e atea allo stesso tempo. Un’arte che saprà produrre esiti sorprendenti, un’arte che, ha scritto Vittorio Sgarbi, “non deve denunciare nulla, vuole soltanto confidare il suo cuore segreto, delimitare i confini della sua coscienza”. Prima del ‘68 c’è però un altro Ferroni: c’è un primo Ferroni espressionista che scandalizza la critica, c’è il Ferroni che s’accende delle pulsioni eversive della Neue Sachlichkeit, c’è un Ferroni profondamente politico, un Ferroni che guarda anche alla Pop Art, ma per rovesciarne gli entusiasmi. Si prenda, dunque, un’opera come Rifiuti.

Gianfranco Ferroni, Rifiuti (1964; olio su tela, 52 x 47 cm; Collezione privata)
Gianfranco Ferroni, Rifiuti (1964; olio su tela, 52 x 47 cm; Collezione privata)

È un olio su tela del 1964: in apparenza, non presenta al riguardante niente più di ciò che comunica il titolo. Rifiuti: ossa spolpate, cartacce, una lattina di pomodoro scoperchiata, piatti vuoti, avanzi di frutta, fili e involucri, tutto su di un piano scorciato in prospettiva laterale, forse un tavolo, forse il pavimento. Sotto, nel registro inferiore, colori che colano e l’immagine d’una bizzarra vespa ancipite che pare annaspare, esalare gli ultimi respiri. Un soggetto sporco, ma una pittura curata e pulita, come il suono del jazz di cui Ferroni era grande appassionato (suonava il sassofono). Una pittura controllata, lenta, da artista-artigiano: l’esatto contrario della pratica della Pop Art, e un metodo più congeniale a lui, artista colto e stanziale, artista che detestava viaggiare, artista secondo il quale la poesia non può nascere nel vuoto, ma deve germogliare per forza dov’esiste una tradizione.

La sua principale preoccupazione estetica, in questa fase della sua carriera, è trovare un equilibrio che risulti dal bilanciamento d’una rigorosa analisi spaziale con cumuli disordinati d’oggetti schiacciati sulla tela dal linguaggio bidimensionale della Pop Art, e che però acquistano una vigorosa solidità attraverso forti contrasti di luce e ombra, sempre presenti nell’arte di Ferroni di questi anni. Oggetti che, ha scritto il critico Giacomo Giossi, si fanno anche “psicanalitici”, elementi d’una confusione che “diventa l’ordine chiarificatore di una realtà impossibile da ridurre o incorniciare nel suo continuo dialogo con l’Io”. Una versione meditata, e già intima e interiorizzata, delle suggestioni che arrivavano da oltre oceano, si potrebbe dire. Rifiuti che a loro volta rimandano a una realtà disordinata: “non mi astraggo dalla società”, diceva l’artista. “Ho voluto riempire la mia visione di natura”, avrebbe poi detto d’alcune vedute del lago di Massaciuccoli dipinte proprio nel periodo di Rifiuti, “di sottintesi, di presenze, come l’insetto morto, schiacciato, che compare in molti dei miei dipinti e delle incisioni su questo argomento, e se lo si guarda bene, questo insetto, ha due teste ed una urla, un urlo che non si sente, ma che c’è”. Sono dipinti dove “la morte si manifesta nell’apparente calma, e anche lì tutto è di nuovo sopraffazione”.

L’origine dei Rifiuti è da cercare più indietro nel tempo, forse già all’epoca del viaggio di studio in Sicilia del 1956, dal quale Ferroni torna con le idee chiare, con la volontà d’allontanarsi tanto dall’astrattismo e dall’informale, che mai lo interessarono, quanto dal realismo sociale, per trovare un’altra via: “mettere la ‘cosa’ davanti e dipingerla senza secondi fini né mitizzazioni”,come ha riassunto Giorgio Mascherpa. Una nuova poetica dell’oggetto che avrebbe portato la pittura onnivora di Ferroni agli esiti degli anni Sessanta, fortemente radicati nella sua attitudine intellettuale di quegli anni. E questa lettura disincantata dei barattoli di Andy Warhol, che precedono i Rifiuti d’appena un paio d’anni e che da totem della scintillante società dei consumi si tramutano, nella pittura di Ferroni, in ammassi di latta inservibili, da gettare, è radicata nel suo atteggiamento nei confronti della società. “La natura di Ferroni, il suo istinto, le sue tendenze”, scriveva Roberto Tassi nel 1997, “sono sempre stati rivolti verso una partecipazione alla vita e alla realtà degli altri, dell’uomo e delle sue vicende. C’è in lui questa apertura, che possiamo porre nel segno della generosità e della vittoria sull’egoismo; e che lo porta, come egli riconosce, ad essere sempre in rapporto, molto legato, a tutto ciò che avviene intorno a lui sul piano politico e umano”.

Tassi ricordava che, fin dagli anni Quaranta, la mente di Ferroni era occupata dall’idea della liberazione dell’uomo dallo sfruttamento, forse l’unica che non ha mai abbandonato la sua visione del mondo. E forse sembra quasi d’intravederla anche dietro quel cumulo di rifiuti.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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