San Pietro al Monte a Civate, un'antica abbazia nella solitudine della foresta


A Civate, nei pressi di Lecco, esiste un’antica abbazia immersa nel silenzio di una foresta: è San Pietro al Monte, un luogo dalle lunghe e singolari vicende storiche, un complesso di sommo pregio artistico, le cui origini si perdono nella leggenda.

Uno. Due. Tre. Quattro. Iniziano così, con un piede davanti all’altro, tutte le scoperte in montagna. Iniziano contando i battiti del proprio cuore, i respiri, i passi che si susseguono e i minuti o le ore che scorrono da quando si è partiti. Chissà in quanti sono veramente preparati, dopo una ripida salita su una mulattiera di origine longobarda, a scoprire l’abbazia di San Pietro al Monte a Civate. Non si erge solitaria su una vetta inospitale, ma è arroccata in un luogo piuttosto basso, a 622 metri di altitudine, abbracciata dalla foresta e sorretta dalla massiccia dolomia grigia in quella che è chiamata la Valle dell’Oro. Ci si potrebbe tornare infinite volte, in momenti differenti della propria intricata esistenza, per scoprire a ogni salita, a ogni passo, qualcosa di nuovo che cattura lo sguardo. 

Mentre si cammina e la terra scivola svelta da sotto i piedi, potrebbe sembrare di scambiare lo zufolio del vento, ovattato dagli alberi secolari del bosco, per il suono di voci lontane che sussurrano leggende come quella della costruzione della stessa abbazia. Come narrava il cronista milanese Galvano Fiamma, Adelchi, il figlio del re longobardo Desiderio, affaticato dal difficile cammino della valle, si adagiò sotto le fitte fronde degli alberi del bosco per trovare refrigerio. Fu in quell’istante che vide un maestosissimo cinghiale bianco dalle zanne acuminate e il ragazzo, mosso da quell’ardore tipicamente giovanile, lo inseguì per ucciderlo. Il povero animale, per quanto possente, si trovò indifeso e scappò terrorizzato dinanzi a tale ferocia trovando rifugio sotto l’altare di una piccola chiesa che sorgeva in cima al monte. Quando il figlio del re lo trovò, sfoderò la spada per togliere la vita alla bestia indifesa e in quell’esatto istante il suo mondo si fece completamente buio. Adelchi divenne cieco e solamente dei monaci benedettini, facendo cadere sui suoi occhi l’acqua di una fonte lì vicino, riuscirono a curarlo. Fu allora che il re Desiderio, commosso dal miracolo per cui aveva tanto pregato, decise di costruire una chiesa più grande proprio dove il cinghiale si rifugiò a chiedere aiuto.

Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Wikimedia/Laurom
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Wikimedia/Laurom
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Francesca Gigli/Likeitalians
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Francesca Gigli/Likeitalians
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Francesca Gigli/Likeitalians
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Francesca Gigli/Likeitalians
Il complesso dall'alto
Il complesso dall’alto
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Abbazia di San Pietro al Monte. Foto: Amici di San Pietro al Monte

L’origine del complesso si perde nella leggenda cui è strettamente aggrovigliato, ma secondo la tradizione San Pietro al Monte deve la sua fondazione agli ultimi decenni del regno longobardo. Potremo avere delle solide certezze, però, solamente dalla metà del IX secolo, quando l’arcivescovo di Milano Angilberto II vi fece trasportare, da Albenga, le reliquie di san Calocero. Per l’abbazia questi furono gli anni di massimo splendore, tra il numero sempre crescente di monaci e la fiorente attività culturale. La vecchia torre e le cappelle della chiesa, delle quali oggi non restano altro che timide tracce, furono abbattute e l’edificio fu progettato dall’inizio con una navata unica e tetto a capriate scoperte, il ciborio che richiama le forme di quello milanese della basilica di sant’Ambrogio e due nuove absidi. Un documento datato 845 racconta della presenza di trentacinque monaci benedettini, mentre dall’anno Mille l’abbazia di Civate inizia a vivere un periodo florido e fortunatissimo non solo diventando protagonista nel tormentato periodo in cui Milano è attraversata dall’eresia patarina, ma soprattutto conoscendo la fama attraverso un rilancio di culto, passando nel 1018 al titolo di san Calocero. È in questi anni che, molto probabilmente fu costruito il nucleo centrale dell’attuale abbazia, mentre nel 1097 l’arcivescovo di milano Arnolfo III vi fu sepolto. 

Oggi, salendo gli alti gradoni, si potrebbe rimanere stupiti e meravigliati di come ogni luogo creato dall’uomo si plasmi nel tempo, adattandosi alle persone che lo abitano: la doppia abside è dovuta alle modifiche successive. Nel corso del X secolo, infatti, le alte scale non esistevano e si entrava da quella che oggi è l’abside, mentre quella originaria era rivolta a est, come di norma, e quindi guardando verso la vallata. Con gli anni però, per questioni più pratiche che religiose, i monaci decisero di cambiare l’ingresso murando la vecchia facciata della quale purtroppo attualmente non resta alcuna traccia. 

L’attuale struttura accoglie un ambiente apparentemente spoglio, ma non appena si varca la soglia e si volge lo sguardo alle proprie spalle, guardando verso il vasto pronao semicircolare, si potrà scoprire un particolarissimo ciclo pittorico. Qui l’occhio si perde seguendo le trame dell’affresco che narra del  capitolo XII del libro biblico dell’Apocalisse: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle.  Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni”. Nel lunettone che chiude l’abside orientale è delineato un drago color porpora dalle sette teste e dieci corna mentre minaccia ferocemente una giovane partoriente vestita di sole e con la luna ai suoi piedi. Appena sopra l’arcangelo Michele, affiancato da una schiera di angeli, trafigge il demonio uccidendolo. Nelle piccole absidi laterali vi sono due vani sulle cui pareti sono rappresentati ora il papa Marcello, ora il papa Gregorio Magno che invitano i fedeli alla penitenza, mentre sulla volta la Gerusalemme celeste, con le sue dodici porte, dodici gemme e dodici lettere legate a Israele. All’interno della volta della seconda campata vi sono i quattro fiumi del Paradiso, affiancati dai simboli degli Evangelisti e dai sette angeli che suonano le trombe.

Il nartece con la scena dell'Apocalisse. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Il nartece con la scena dell’Apocalisse. Foto: Amici di San Pietro al Monte
La scena dell'Apocalisse
La scena dell’Apocalisse
Il ciborio
Il ciborio. Foto: Wikimedia/Laurom
Dettaglio del ciborio. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Dettaglio del ciborio. Foto: Amici di San Pietro al Monte

Secondo le analisi di alcuni studiosi, questi affreschi risalirebbero al XII secolo, ed è possibile stabilire una connessione tra il ciclo pittorico presente nella chiesa di San Pietro e il ciclo a tema apocalittico che adorna il battistero di Novara, risalente al primo quarto dell’XI secolo. Questa relazione intrinseca si svela ulteriormente attraverso evidenti somiglianze con lo stile artistico caratteristico della scuola del monastero di Reichenau e non va trascurato il fatto che questa stessa scuola fu responsabile della creazione del manoscritto dell’Apocalisse di Bamberga commissionato da Ottone III. Ulteriori elementi di vicinanza stilistica potrebbero esistere anche con il Sacramentario di Warmondo di Ivrea dell’inizio del XI secolo, oppure ancora con il ciclo di affreschi della chiesa di San Michele a Oleggio, nel Novarese e tutto ciò dimostrerebbe quanto fossero comuni e diffusi determinati modelli stilistici, iconografici e ideologici appartenenti alla corte germanica. Tuttavia, gli affreschi di Civate rivelano un’interessante affinità stilistica anche con le miniature presenti nei Commentari all’Apocalisse di Beato di Liébana ed è probabile che queste influenze siano giunte a Civate attraverso Milano, grazie a libri di modelli che circolavano nell’Europa centro-settentrionale dell’epoca. Anche se gli autori rimangono sconosciuti, è evidente che più di una mente creativa ha contribuito a questo lavoro, come suggerisce appunto la distinta variazione nella rappresentazione della Gerusalemme celeste, ispirata da modelli ottoniani del nord, e nella Visione apocalittica, che riflette la familiarità con il linguaggio figurativo bizantino della seconda metà dell’XI secolo.

Guardando sempre verso l’antica abside, si dovrà trovare qualche minuto per ammirare i due plutei in stucco che raffigurano due simboli del male mentre fuggono terrorizzati dalle preghiere dei fedeli. L’uno, il grifone, proviene dall’immaginario orientale, mentre la chimera che sputa fuoco era descritta anche da Omero come uno strano ibrido terrificante con la testa di leone, il corpo di capra e la coda di serpente. I due collegano alla base le quattro colonne, simbolo della terra. Risulta interessante notare come delle quattro colonne tortili, tre salgono verso destra e solo una verso sinistra rappresentando quindi: il numero 4, che come il tetragono è simbolo di terra; il numero 3 che rappresenta la trinità; e il numero 1 per l’unicità di Dio. La cappella di destra è invece dedicata  alla chiesa terrena e rappresenta il Cristo con santi, mentre quella di sinistra, dedicata alla chiesa celeste, raffigura il Cristo adorato da schiere di angeli.

Tuttavia, uno dei tesori nascosti all’interno della basilica si manifesta nel ciborio che sovrasta l’altare di fronte all’abside occidentale. Le quattro colonne reggono con grazia i loro capitelli, ciascuno ornato con i simboli del Tetramorfo, mentre sulle fronti cuspidate emergono scene quali la Crocifissione, la Visita delle Marie al sepolcro, l’Ascensione e la Traditio Legis et Clavis. Nel delicato spazio del cupolino, un delicato affresco cattura lo sguardo degli osservatori. Qui, l’Agnello mistico è affiancato da diciotto figure nimbate, dieci uomini e otto donne, che compongono un tableau di suggestiva maestosità. L’interpretazione di tale affresco può risultare complessa, ma emerge la probabile presenza di un collegamento simbolico con il testo apocalittico, aggiungendo ulteriore profondità al mistero di questa rappresentazione d’arte sacra.

Il ricco programma iconografico della basilica rivela quindi una profonda e studiata conoscenza delle tradizioni esegetiche apocalittiche, in particolare quelle di Ambrogio Autperto. Questo itinerario sembra svilupparsi lungo due direzioni distintive: una principale che si snoda da est a ovest, riservata ai fedeli, e un’altra che procede in direzione opposta, destinata al clero e ai monaci. Questa interpretazione trova ulteriori riscontri non solo nelle sequenze di immagini precedentemente descritte, che mirano ad associare l’edificio sacro alla Gerusalemme celeste, ma anche nella particolare disposizione liturgica. Quest’ultima prevedeva il coro nell’abside occidentale e l’accesso alle scale della cripta rivolto verso l’altare. Queste scelte architettoniche delineano all’interno dell’abbazia un percorso analogo a quello adottato nella basilica di San Pietro in Vaticano. Ciò potrebbe essere legato alla presenza a Civate di alcune reliquie dell’apostolo Pietro, che conferiscono a questo luogo sacro un legame ancora più profondo con la tradizione religiosa.

La cripta. Foto: Wikimedia/Laurom
La cripta. Foto: Wikimedia/Laurom
Il rilievo della Dormitio Virginis. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Il rilievo della Dormitio Virginis. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Il pluteo con la chimera. Foto: Wikimedia/Laurom
Il pluteo con la chimera. Foto: Wikimedia/Laurom
Dettaglio della chimera. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Dettaglio della chimera. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Dettaglio del grifone. Foto: Amici di San Pietro al Monte
Dettaglio del grifone. Foto: Amici di San Pietro al Monte

Ai lati della navata si snodano due scale simmetriche che conducono alla cripta, sviluppata sotto l’originaria abside orientale e quindi l’attuale pronao. Prima di addentrarsi al piano sotterraneo, nel parapetto che protegge la scala, si noteranno tre bassorilievi in cui è narrata la storia dell’umanità dalla prospettiva cristiana. Nel primo bassorilievo, emerge la raffigurazione di un grifone, custode di forze arcane, e un possente leone, emblema dell’umanità. Queste due figure si cibano delle foglie che germogliano da un calice rituale, una sorgente primordiale di vita stessa. Questo simbolismo si radica profondamente nella nozione di radice, evocando l’origine della vita, parallela all’etimologia latina della “patera,” che si lega a “pater,” il donatore di vita. Ciò si traduce in un’immagine intricata, rappresentante il caos primordiale in cui uomo e grifone alato coesistono in una forma di vita indistinta e inconscia, in un’unione fertile di essenza e simboli, ancora inespressa e priva di coscienza produttiva. Nel secondo bassorilievo, l’esistenza subisce una metamorfosi attraverso la maschera; qui la vita assume tratti umani e i leoni, simbolo dell’umanità, si nutrono dei frutti generati da questa trasformazione. La maschera sottolinea la figura di Cristo incarnato, unendosi in sembianze di persona-maschera per redimere l’umanità, guidando così la vita verso la produttività, la fecondità e il bene. Tuttavia, anche questa profonda umanizzazione non risulta sufficiente all’uomo per superare l’ostacolo primordiale della sua condizione. Ostacolo, questo, rappresentato dal peccato originale qui figurato sulla sinistra del quadro stesso: un serpente avvolto attorno a un albero e che tiene tra le fauci una mela. Tale immagine visiva richiama il concetto del peccato originario, sottolineando come, nonostante l’umanizzazione e l’azione redentrice di Cristo, l’umanità debba ancora confrontarsi con il peso dell’errore ancestrale. Nel terzo bassorilievo, i leoni non si nutrono più del frutto della vite, bensì abbracciano il simbolo di Cristo, il pesce e mentre si nutrono di Cristo, ricevono in dono le ali, emblema di spiritualità, e iniziano la metamorfosi (evidente nella parte terminale del loro corpo), trasformandosi dapprima in pesci e quindi in “alter Christus”, ovvero in figure cristiane destinate alla dimensione eterna.

Scendendo ora le scale si giunge nella parte più antica della basilica dove sarà svelata una decorazione scultorea di doppia natura, ornamentale e narrativa. Tali opere raffigurano episodi salienti della vita di Gesù e Maria e sono datate alla fine XI secolo e l’inizio del secolo successivo. Riflettono il coinvolgimento di diversi artisti, ancorati alla tradizione ottoniana. Le soluzioni stilistiche e iconografiche impiegate si intrecciano in una complessità di influssi, delineando l’essenza del romanico lombardo: tradizioni che spaziano dalla tardoantica, a quella bizantina e carolingia. Le decorazioni costituiscono una testimonianza tangibile dell’alto livello raggiunto dall’arte medioevale ottoniana, contribuendo in modo significativo alla formazione del linguaggio pittorico romanico in Lombardia.

Dietro l’altare della cripta, si dipanano due scene di importanza rilevante: la Dormitio Virginis che si presenta come uno stucco raffigurante al suo centro la Vergine Maria, placidamente addormentata alla cui destra è rappresentata la figura di Gesù che sorge insieme a una schiera di santi, mentre a sinistra si erge la presenza solenne degli Apostoli e in alto, gli angeli che simboleggiano il passaggio spirituale. Sulla sinistra la Crocifissione: Maria si erge al fianco di san Longino, il soldato romano che, con ferma devozione, perforò il costato di Gesù con la lancia per confermare la sua morte, mentre a destra san Giovanni Evangelista è accompagnato da Stefaton, il soldato che offrì a Gesù morente una spugna intrisa di vino e aceto, un gesto di compassione e conforto. In queste rappresentazioni, il sacro si fonde con l’umano, evocando momenti di profonda importanza e devozione. 

Nell’anno 1162, l’abbazia restò ancorata nel vortice di complesse trame politico-militari che avvinghiavano l’Italia settentrionale, mossa dal fragore dei passi di Barbarossa. Tra i secoli XIII e XIV, l’abbazia s’inoltrò in una stagione di languore, una sinfonia in smorzato che la guidò con una lentezza quasi sospesa al varco del 1484, quando diventò una commenda. Un fievole rintocco di rinascita si udì nel 1555, con il trasferimento di alcuni monaci Olivetani, ma furono scacciati nel 1798, spazzati via dalla morsa della Repubblica Cisalpina, un triste capitolo che scolpì nell’aria l’abbandono di questo luogo. Nonostante il triste destino cui fu destinata, l’abbazia di San Pietro al Monte riesce a donare a chiunque si addentri in questi dolci monti ai piedi delle Alpi un senso di rarefatta solitudine e pace. E, nonostante appena si esce dall’edificio sembri di aver perso qualcosa, una parte di sé, lasciata tra quelle gradinate, per fare spazio a qualcos’altro dopo tanti racconti, basterà guardare il paesaggio che si apre all’orizzonte e iniziare nuovamente a contare.


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