Crollo di San Giuseppe dei Falegnami: perché non ha senso dire “ci pensi il Vaticano” (e dare la colpa... ai migranti!)


Sui social e sui siti di quotidiani il livello dei commenti sul crollo di San Giuseppe dei Falegnami ha toccato spesso abissi estremi, con alcuni che hanno addirittura addossato le colpe ai migranti.

Sconforta dover constatare che l’acredine populista non ha risparmiato commenti fuori luogo neppure sul crollo del prezioso soffitto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami a Roma. Come se un fatto così grave fosse un evento che non ci riguardi, molti, sui social e sui siti online di diversi quotidiani, non hanno perso tempo per farneticare buttando la questione sul mero piano economico, auspicando che sia il Vaticano a mettere a disposizione i fondi per i dovuti restauri, e arrivando financo a dare la colpa del crollo ai migranti (dacché, ardisce pensare il gentista livoroso, se si spende per l’accoglienza si tolgono risorse alla manutenzione dei beni culturali). Del resto, si sa: la propaganda più becera ormai addossa ai migranti le colpe d’ogni male italiano, e poco importa se crolli e cedimenti si verificano anche in chiese da poco restaurate (come nel caso di San Giuseppe dei Falegnami: era stato condotto un restauro terminato nel 2015, che sarà inevitabilmente oggetto d’indagine della Procura), o se addirittura i problemi si verificano anche mentre i restauri sono in corso, com’è accaduto alcuni mesi fa a Napoli. L’importante è sostituirsi ai tecnici competenti, al personale del ministero, e anche alla magistratura, e a poche ore dall’evento emettere la propria sentenza, stando comodamente seduti di fronte a uno schermo: crollo per incuria, causata dal fatto che il denaro per i restauri verrebbe destinato all’accoglienza. Un assunto talmente grossolano che risulta frustrante anche solo doverlo commentare. E cosa dovrebbero poi essere le chiese, se non luoghi in cui s’accoglie chi ha bisogno? Una chiesa, per quanto bella possa essere, che dimentica la sua più importante funzione, altro non diventa che un muto surrogato d’un museo o d’una pinacoteca.

Alcuni commenti sul crollo di San Giuseppe dei Falegnami reperiti su social e siti di quotidiani
Alcuni commenti sul crollo di San Giuseppe dei Falegnami reperiti su social e siti di quotidiani

Non meno insensibili sono poi coloro che si preoccupano soltanto dell’eventualità che il Vaticano si faccia carico dei restauri. Occorre dar loro una notizia: la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami è di proprietà del Vicariato di Roma, soggetto che presumibilmente finanzierà i restauri, come del resto già avvenuto per i lavori eseguiti tra il 2012 e il 2015, che sono stati condotti in parte con finanziamenti della Cei, e in parte con finanziamenti pubblici italiani (in questo caso per oltre 550.000 euro, a fronte di una spesa di quasi 750.000) stanziati grazie alla Legge Regionale del Lazio numero 27 del 1990. Per ciò che riguarda gli edificî di proprietà della Chiesa, infatti, ogni anno vengono messi a disposizione dalla Cei delle quote prelevate dall’otto per mille, al fine di condurre interventi di salvaguardia e valorizzazione di beni pertinenti alle Diocesi (cattedrali, parrocchie, abbazie, santuari, seminarî). La LR 27/90 garantisce anch’essa contributi per interventi volti al recupero di edificî di culto che abbiano importanza storica, artistica o archeologica.

Quindi, non c’è di che preoccuparsi: il Vaticano farà sicuramente la sua parte. Ma è tuttavia molto sensato che anche una legge italiana garantisca contributi per il restauro d’edificî di culto di proprietà ecclesiastica che abbiano un significativo interesse storico, artistico o archeologico. E non soltanto perché questi ultimi insistono sul territorio italiano (e sono dunque soggetti alle leggi italiane sulla tutela). Ma anche e soprattutto perché questi edificî fanno parte della nostra storia e costituiscono preziosissime testimonianze del nostro passato e delle vicende storiche che si sono sedimentate nel corso dei secoli. Si prenda proprio il caso della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami: non è solo “la chiesa dei matrimonî”, come molti giornali l’hanno definita nei titoli, in maniera oltremodo sbrigativa e riduttiva, quasi al limite dell’umiliante. La chiesa di San Giuseppe dei Falegnami ha un’importanza storica altissima perché testimone vivo di quel processo di cristianizzazione e di appropriazione dei luoghi dei romani pagani (in questo caso del Foro Romano) da parte dei cristiani, cui le vestigia dell’antica Roma andarono incontro. La chiesa si trova infatti ai margini del Foro Romano e insiste direttamente sopra il Carcere Mamertino, dove secondo la tradizione furono reclusi i santi Pietro e Paolo, con tutto ciò che ne consegue a livello storico e simbolico: e la rilevanza di questi aspetti acquisisce valore ulteriore se si pensa che San Giuseppe dei Falegnami si chiama così in quanto era la chiesa della Confraternita dei Falegnami di Roma, che la fece edificare a fine Cinquecento. Dunque, questo luogo di culto racconta anche uno spaccato della storia delle corporazioni, della storia del lavoro, dei tempi in cui i lavoratori avevano l’esigenza di ritrovarsi in una chiesa che ricopriva anche la funzione di luogo d’aggregazione e di dimostrazione vivente del tipo d’ambiente (tanto più sontuoso e magnifico quanto più erano alte le risorse a disposizione delle corporazioni) che i lavoratori volevano mostrare a chiunque vi transitasse (si pensi allo straordinario caso della chiesa di Santa Maria dell’Orto).

Ecco quindi perché il crollo del soffitto della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami (un’opera pregevolissima) non è solo una pura questione di competenze e risorse. E sotto a quelle macerie non sono rimasti soltanto i resti del soffitto di Giovan Battista Montano. Forse, c’è rimasta anche una parte della nostra attenzione e della nostra cura nei confronti del patrimonio, e una parte della nostra apertura verso il prossimo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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