12 giugno 2025. Mi sveglio, alle 3 del mattino, con il suono di una sirena. A Tel Aviv, dove vivo, ci siamo abituati. Ormai dal 2007: da quando Hamas ha imposto il proprio regime sulla popolazione civile a Gaza e ha fatto delle città israeliane bersaglio sistematico del loro tentativo di distruzione dello Stato ebraico. Fortunatamente, l’edificio in cui vivo è stato costruito dopo il 2000, quindi, grazie alla legge edilizia varata allora a causa degli incessanti attacchi missilistici da parte dell’Iraq, nel corso della Guerra del Golfo, la mia camera da letto è, di fatto, un rifugio antimissili, cosa non affatto scontata per la maggior parte degli israeliani, che spesso vivono in appartamenti costruiti prima del 2000. Specie a Tel Aviv, nota anche come Città Bianca, per la grande presenza di edifici in stile Bauhaus.
Quindi al suono della sirena, come da abitudine, sveglio mio figlio, sigillo la finestra del rifugio mentre mio marito sigilla la porta e, terminato l’allarme ognuno se ne torna a letto. Se non fosse che il mio telefono comincia a suonare all’impazzata: chi il rifugio in casa non ce l’ha ed è costretto ad andare negli shelter pubblici, mentre sfoglia le news, aspettando i dieci minuti necessari, da protocollo, prima di uscire dal rifugio, viene a sapere che si è trattato di una sirena anomala. La prima, nella storia di Israele, ad annunciare che bisogna prepararsi a trasferirsi negli shelter a tempo indeterminato, poiché l’IDF sta attaccando le infrastrutture nucleari della Repubblica Islamica dell’Iran.
Rimango paralizzata per qualche secondo all’idea di come questa nuova guerra potrebbe avere esiti catastrofici non solo per chi vive in Israele, ma anche per la popolazione iraniana. Oltre alle possibili conseguenze su tutta la regione, già fortemente provata da un conflitto sempre più esteso, causato dall’efferato attacco compiuto da Hamas sabato 7 ottobre 2023. E così passo la notte insonne, come mi è accaduto spesso negli ultimi sedici anni, da quando vivo in Israele, chiedendomi: “che ci faccio qui?”.
Poi, improvvisamente, mi ricordo le ragioni che mi hanno spinto, nel 2009, a decidere di trasferirmi in uno dei luoghi più pericolosi, ma al tempo stesso più affascinanti, al mondo: una tesi di dottorato sulla storia dell’arte israeliana, al fine di indagare la complessità di questo paese unico al mondo, culla della civiltà e delle tre religioni monoteiste che, proprio qui, fin dalla fondazione dello Stato, nel 1948, hanno imparato a convivere pacificamente, come mi insegna mio figlio Enrico, che frequenta una scuola multi-religiosa e multi linguistica, e parla perfettamente ebraico, arabo e inglese, e il cui migliore amico si chiama Mohammed. Grazie a Enrico ho scoperto il fascino della calligrafia araba che mi ha spinto, nel 2022, a curare, presso il Museo Ebraico di Lecce, una mostra collettiva volta a raccontare la bellezza e la complessità di Israele attraverso l’uso artistico della parola nelle diverse lingue che caratterizzano il paese: ebraico, arabo, aramaico e yiddish.
Kol Ha’Olam Kulo – “Tutto il mondo intero” – è il titolo di una poesia in lingua ebraica scritta da Nachman di Breslov che recita: “Il mondo intero è un ponte molto stretto e l’importante è non avere paura”. Secondo il celebre rabbino, “ogni persona, nel corso della propria vita deve attraversare, inevitabilmente, diverse difficoltà. Per questo è essenziale non avere paura”. Ispirati dalle sue parole abbiamo chiamato la mostra Un ponte molto stretto e abbiamo invitato 15 artisti (di differente etnia, religione e appartenenza linguistica) che, attraverso la propria lingua e il media artistico da loro scelto, hanno provato ad esprimere le proprie paure, ma anche il loro senso di appartenenza nei confronti di un paese così ricco e complesso.
Ciascuno di questi artisti, infatti, nel corso della propria vita ha dovuto affrontare numerose difficoltà, spesso dovute alle proprie origini: ebrei figli di sopravvissuti alla Shoah; palestinesi nati a Gaza che hanno dovuto abbandonare la propria terra e trovare asilo politico in Israele; ebrei di origine mediorientale cresciuti in uno Stato fondato da ashkenaziti; ebree ortodosse e musulmane che, come donne, cercano disperatamente di emanciparsi in un “mondo di uomini”.
Tutti questi artisti, nel loro insieme (ebrei e musulmani, uomini e donne, gay e straight, religiosi e agnostici) attraverso la propria espressione artistica hanno cercato di rappresentare i numerosi volti di Israele, troppo spesso rappresentato nei media in modo stereotipato e omogeno.
L’esperienza di questa mostra, sia per il pubblico, sia per alcuni degli artisti che hanno avuto la possibilità di essere ospitati presso il Museo Ebraico di Lecce nel corso di una residenza artistica, ha quindi dimostrato quanto l’arte sia un veicolo fondamentale per permettere sia all’artista che allo spettatore di superare le proprie paure e creare un ponte tra culture, religioni e identità altre.
Questo ha fatto sì che nel 2023 la Regione Puglia, grazie alla preziosa collaborazione tra il Museo Ebraico di Lecce e l’ente del turismo Pugliapromozione, allargasse la sua accoglienza all’arte israeliana, su tutto il territorio, grazie al progetto itinerante Shades of Israel: dodici artisti israeliani incontrano tre musei pugliesi.
Il percorso espositivo, pensato per coprire il tacco dello Stivale da nord a sud, ha inaugurato a Lecce (sempre presso il Museo Ebraico) con la mostra collettiva My Altneuland che ha ospitato nuovamente dieci artisti rappresentanti le diverse voci, spesso moto critiche nei confronti di Israele e del futuro del suo Stato. La rassegna è poi proseguita a Trani, presso il Castello Svevo, con l’impressionante opera Ludmilla (11 metri di lunghezza per 4 di altezza) eseguita da Maria Saleh, artista arabo israeliana-ucraina, che esplora il tema della guerra come dilemma universale e presente non solo in Medio Oriente.
La manifestazione si poi è conclusa a Polignano, presso la Fondazione Pino Pascali, con Terra Infirma: mostra personale di Tsibi Geva, tra i più importanti artisti israeliani sulla scena internazionale, che ha rappresentato Israele nel corso della Biennale di Venezia del 2015. Mentre scrivevo questo articolo la casa di Geva, che si trova in uno dei quartieri di Tel Aviv colpiti dai missili balistici nel corso del conflitto con l’Iran, è stata completamente rasa al suolo e, con essa, gran parte delle sue opere. Tranne una, sopravvissuta alle macerie, che l’artista ha postato sulla propria pagina di Facebook, condividendo con il suo pubblico uno dei più gravi momenti della vita ma, al tempo stesso, lasciando un segno di speranza. Geva, infatti, ha dedicato tutta la sua vita all’insegnamento, promuovendo il dialogo tra israeliani e palestinesi, proprio attraverso l’arte.
E così, mentre guardavo le immagini della sua casa distrutta (salvo quel quadro sopravvissuto alle macerie) mi sono ricordata del perché ho scelto di vivere proprio in questo paese, sedici anni fa, e perché oggi, più che mai, credo nel ruolo cruciale dell’arte, e degli artisti, nel costruire ponti fra culture.
Così non ho perso un istante. Non appena è stato siglato il cessate il fuoco tra Tel Aviv e Teheran ho cominciato a contattare artisti iraniani per discutere con loro della loro arte e del conflitto che ci divide ma, al tempo stesso, e per assurdo, anche ci unisce. Con mio grande stupore mi hanno risposto in molti, ringraziandomi per averli contattati e confidando di provare lo stesso desiderio comune. Ovvero che, in un giorno non troppo lontano (come era stato fino al 1979, prima della presa al potere del Regime islamico) possa riaprire il volo diretto Tel Aviv – Teheran e artisti iraniani possano venire a studiare e visitare Israele, e viceversa.
Scritto oggi, nel 2025, sembra un’utopia. Ma se era possibile allora, potrebbe esserselo ancora. Basta solo volerlo. E l’arte, da sempre, è il laboratorio privilegiato per trasformare i sogni in realtà.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 27 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper, erroneamente in forma ridotta. Clicca qui per abbonarti.
L'autrice di questo articolo: Fiammetta Martegani
Fiammetta Martegani è curatrice presso il Museo Ebraico di Lecce (Italia) e giornalista collaboratrice per diversi quotidiani italiani, tra cui Avvenire e Il Foglio. Nata a Milano nel 1981, si è trasferita in Israele nel 2012 dopo aver completato un dottorato in Antropologia. Ha svolto poi un post-dottorato in Cinema e Letteratura Comparata presso l’Università di Tel Aviv. Dal 2009 scrive di Israele per alcuni giornali italiani e porta avanti progetti che uniscono Antropologia e Arte in Italia e in Israele. Nel 2015 ha pubblicato il suo primo romanzo, Life on Mars. Nel 2017 ha pubblicato la sua ricerca di dottorato The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema. Nel 2021 ha pubblicato la sua prima guida su Tel Aviv attraverso i cinque sensi. Nel 2023 ha scritto una seconda guida, sempre attraverso i cinque sensi, dedicata a Venezia.Per inviare il commento devi
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