Qualche giorno fa, sul Financial Times, Bendor Grosvenor si produceva in quel frivolo esercizio di stile per sfaccendati che è immaginare il futuro d’una professione, oltretutto alla luce delle conquiste, vere o presunte, dell’intelligenza artificiale, e l’idea è che tra i mestieri che verranno sostituiti dalle macchine c’è anche quello del connoisseur (che, incidentalmente, sarà anche uno di quelli di cui meno sentiremo la mancanza, dice Grosvenor): ciò nondimeno i conoscitori, dice, dovrebbero cercare di tardare il più possibile l’arrivo dell’IA, non foss’altro per il fatto che consegnare nelle mani d’una macchina la propria competenza e la propria capacità di discernimento significherebbe rinunciare all’aspetto più piacevole della storia dell’arte, ovvero il guardare.
Vero: possiamo immaginare un futuro più o meno lontano in cui l’intelligenza artificiale andrà a sostituire il connoisseur. Ad ogni modo, per adesso sembra un futuro piuttosto remoto: per consentire a una macchina di giungere a un livello di profondità paragonabile a quella d’un essere umano, occorrerebbe darle in pasto tutto il catalogo d’un artista, preferibilmente con immagini ad alta risoluzione (sia in bianco e nero, sia a colori) e tutte nelle stesse condizioni di luce (il che significherebbe far convenire tutte le opere in un unico luogo, cosa probabilmente impossibile), un numero sufficiente d’immagini di artisti di contorno per consentirle d’operare dei confronti per esclusione, e magari anche immagini che riproducano i contesti (dato che per un connoisseur è fondamentale vedere le opere dal vivo e dove si trovano prima ancora che vederle riprodotte in foto). Naturalmente, potrebbe obiettare un sostenitore dell’intelligenza artificiale, non esiste né esisterà mai un essere umano che sia capace di vedere tutto il catalogo di un artista alle condizioni che andrebbero richieste alla macchina, e che per giunta abbia facoltà mnemoniche paragonabili a quelle di un computer: il partito delle macchine avrebbe ragione, ma all’essere umano rimarrebbero l’esperienza, le conoscenze pregresse, la comprensione dei contesti, delle dinamiche di bottega, dei rapporti tra gli artisti, dei rapporti tra originali, repliche, varianti, copie e falsi, delle provenienze, dei documenti e via dicendo. Ancora, tutti elementi che in futuro le macchine potranno padroneggiare con disinvoltura pari a quella d’un essere senziente. Serviranno però investimenti onerosi: allora i connoisseur, quei pochi che ancora esistono, possono tranquillamente tirare fuori il fazzoletto dalla tasca e asciugarsi il sudore, dacché i signori dell’intelligenza artificiale probabilmente hanno di meglio a cui pensare, e le opere d’arte antiche forse per loro non rappresentano ancora una priorità. E quando avremo la macchina-connoisseur in grado di garantire attribuzioni a prova di tutto, i conoscitori probabilmente si saranno già ammazzati da soli, o saranno morti per cause naturali.
E saranno morti di cause naturali perché il punto veramente interessante di tutta la faccenda non è tanto la sostituibilità del connoisseur: è semmai la trasformazione che sta subendo questo mestiere. Dice Grosvenor: “La competenza artistica è già quasi del tutto estinta. Fino agli anni Ottanta, la storia dell’arte ruotava in gran parte attorno all’identificazione di chi avesse dipinto cosa. Gli storici dell’arte hanno trascorso la loro carriera a costruire database mentali di dipinti di determinati artisti, consentendo loro di riconoscere tratti simili in altri dipinti. Il riconoscimento è l’essenza della competenza [...]. Ma queste vecchie generazioni di intenditori stanno scomparendo. Un numero sorprendente di artisti storicamente importanti non ha più un esperto universalmente riconosciuto, tra cui figure come George Stubbs e Thomas Lawrence”. Ora, Grosvenor scrive dall’Inghilterra, e io non conosco lo stato di salute degli Old Masters albionici, ma in Italia la situazione non è così pessima, solo che rispetto agli anni Ottanta, la materia, come del resto è normale che sia, è profondamente cambiata. Forse esageriamo a dire che in futuro ci troveremo a celebrare il funerale del connoisseur. Ma di sicuro assisteremo alla sua metamorfosi. Anzi: la stiamo già constatando.
Primo: non esiste più il principio d’autorità. Sono finiti i tempi della Santissima Trinità (Berenson, Longhi, Zeri). E per fortuna. C’è che adesso un’opera antica non si compra più sulla base di un singolo parere autorevole. I collezionisti, oggi, sono un po’ più sgamati rispetto a quelli di quaranta, cinquanta, sessant’anni fa. A nessuno fa piacere tirar fuori dei soldi per comprare un pezzo il cui valore, magari, nel giro di pochi anni si riduce a un decimo di quel ch’era stato pagato perché si scopre che non era quel capolavoro che si credeva, ma era un più modesto lavoro di bottega. E allora i collezionisti, possibilmente, vogliono delle pezze d’appoggio. Ovvero: pareri di altri studiosi, documenti storici, ricostruzioni di provenienze, passaggi precedenti. L’incertezza è nemica del mercato, e questo spiega anche perché le opere degli artisti del Quattro, Cinque, Seicento non raggiungono mai sul mercato le quotazioni, mettiamo, di un Picasso o di un Matisse. Di conseguenza, secondo punto: oggi probabilmente non esiste più il connoisseur come siamo stati abituati a conoscerlo sui libri di storia, quel genio solitario che stava immerso tra le fotografie, non aveva contatti con l’accademia (o se ce li aveva, erano minimi: Zeri, per dire, non ha mai insegnato), e il cui lavoro si fermava alla formulazione del suo parere dopo aver visto il dipinto. Oggi il connoisseur secondo l’accezione storica viene progressivamente sostituito da una figura che forse qualche anno fa avremmo detto ibrida, ma che in realtà ibrida non è: semplicemente padroneggia più competenze. Lo storico dell’arte oggi non è riducibile a una funzione anatomica, ammesso che lo sia mai stato (motivo, tra l’altro, per il quale preferisco non usare il termine “occhio”, come tanti fanno, in luogo di connoisseur): dopo aver riconosciuto l’autore d’un dipinto, lo storico dell’arte contemporaneo deve saper rovistare in mezzo alla bibliografia, deve sapere come si fa una ricerca in archivio, deve essere in grado di ricucire dei contesti, deve avere conoscenze di carattere tecnico-scientifico, deve capire qualcosa di iconografia e iconologia, e magari in futuro dovrà anche saper maneggiare l’intelligenza artificiale. Si prenda la scoperta più interessante dell’ultimo anno, la Natività di Mathias Stomer ch’è stata presentata l’altro ieri al Museo Diocesano di Genova e ch’è stata ritrovata fortuitamente un anno fa da Giacomo Montanari: Montanari prima s’è fidato delle sue capacità visive e a colpo d’occhio ha intuito la forza dell’opera immaginando già di trovarsi di fronte a un’opera di Stomer, dopodiché s’è confrontato con altri colleghi, dopodiché s’è messo a cercare qualcosa che potesse dire di più su quell’opera, ha trovato dei documenti ch’erano in grado di suggerire un legame con uno storico committente di Stomer d’area siciliana, e ha poi firmato lo studio pubblicato in sede scientifica. Il connoisseur degli anni Ottanta probabilmente si sarebbe fermato, almeno in buona parte dei casi, al primo passaggio. Poi, è vero che oggi tanti, troppi hanno ridotto il mestiere di storico dell’arte a quello del grigio cercatore di atti notarili, del burocrate dei registri di pagamento, dello scandagliatore dei diari altrui, ma è anche vero che il mestiere, nel terzo millennio, è molto meno romantico rispetto a una volta.
Chiunque nutra un interesse professionale anche minimo per la storia dell’arte avrà letto di sicuro le Avventure di un occhio di Philippe Costamagna: per rendersi conto di come sia cambiata la professione (in peggio per chi fa lo storico dell’arte di mestiere, in meglio per gli assessori comunali), si potrebbe indugiare sull’aneddoto di Costamagna che, per vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, doveva trovare il modo per entrare nella cappelletta cimiteriale che la custodiva, mentre oggi chiunque la può ammirare in un comodissimo e ben illuminato museo, basta soltanto pagare un biglietto (se non si rientra nelle categorie che hanno diritto alla gratuità). Certo, non che oggi la visione di certe cose sia meno pratica: ci sono chiese in borghi frequentati solo dagli abitanti e dai lupi e che però conservano ricchi cicli affrescati, e se vuoi vederli devi trovare qualcuno che ti apra la porta o devi informarti sugli orari delle messe (chi scrive è passato da entrambe le situazioni: catene di contatti per trovare il sacrestano che ti facesse il favore di aprirti quella chiesa dove c’è quella pala o quell’affresco che vuoi vedere, oppure domeniche mattina d’inverno passate su di una panca gelida a scaldarsi le mani mentre ti toccava sentire quell’unico prete sudamericano o filippino disposto a salire fino in cima a un borgo sperduto sull’Appennino per dire la messa alle cinque o sei anziane del paese). E non parliamo poi dei collezionisti privati. Il fatto è che però si tratta per lo più di cose percepite come marginali: il grosso di quello che devi vedere per avere quanto meno una base oggi è accessibile con modalità piuttosto pratiche. E poi, diciamoci la verità: i social e Whatsapp hanno accorciato notevolmente le distanze tra lo specialista e il collezionista privato o il prete di montagna, ci sono fotografie ovunque, la bibliografia di un artista è a portata di clic e spesso non serve neppure andare in biblioteca a cercare un titolo perché si trova già tutto su Academia o su Google Books. Il mestiere, insomma, è molto meno avventuroso rispetto a una volta. E quindi probabilmente anche meno affascinante. Ma è cambiato perché è cambiato il mondo. Non ci si può fare niente.
Terzo: teniamo conto del fatto che la conoscenza non si azzera. Più si va avanti, più le conoscenze aumentano. Più scorre il tempo, più i cataloghi si assestano. E gli storici dell’arte del futuro camperanno sul lavoro che altri hanno fatto prima di loro. Il vantaggio è che dovranno faticare di meno. Lo svantaggio è che non sarà più un mestiere per ambiziosi. Ovvero: i vari Guercino, Guido Reni, Federico Barocci hanno già avuto i loro Mahon, i loro Gnudi, i loro Emiliani che hanno costruito le fondamenta dei relativi cataloghi. La generazioni venute dopo di loro, quella degli storici dell’arte, diciamo, nati tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta, ha messo a posto quello che rimaneva da mettere a posto, ha raddrizzato il tiro su alcune cose, ha sciolto i nodi che c’erano da sciogliere, ha costruito attorno agli artisti delle mura solide, spesso ha fatto scoperte importanti, anche sensazionali. Certo, poi, che attorno agli artisti antichi c’è ancora tanto da scoprire. Lo scorso anno, per dire, Giulia Iseppi ha fatto delle scoperte rocambolesche e importanti per Guido Reni e per l’arte bolognese del Seicento. Ma, verosimilmente, chi esce adesso dall’università dovrà accontentarsi d’arrivare secondo o terzo se non anche quarto o quinto (per inciso, è anche la ragione per cui, quando si scopre un dipinto in odore d’esser attribuito a qualche grande artista, si scatena il parapiglia per intestarsi il primato del ritrovamento, com’è accaduto per la poco decorosa gara a chi è arrivato prima sull’Ecce Homo Ansorena). Prima o poi arriveremo a un punto della storia in cui sarà stato già scoperto tutto quello che c’era da scoprire, con la conseguenza che gli storici dell’arte del futuro (non ho idea di quanto possa essere lontano: accontentiamoci di pensarlo come un futuro indefinito, che mi auguro sia il più lontano possibile) saranno come gli impiegati del catasto, ovvero si limiteranno a cercare in mezzo al materiale ch’è già stato prodotto. Non sarà domani, perché c’è ancora tanto da indagare e da trovare: gli archivi sono zeppi di documenti che nessuno più apre da decenni se non da secoli, le collezioni private sono strapiene di opere sconosciute, potrebbero nascere nuove tecnologie che consentiranno di tornare su problemi che a oggi ci appaiono risolti ma che un domani potrebbero rivelarsi più aperti di quanto credevamo, potrebbero arrivare scoperte che ci costringeranno, che so, a riscrivere la storia di una scuola locale. Ci avviamo però inevitabilmente verso la fine dell’epoca delle grandi scoperte. Per le nuove generazioni, le probabilità di fare il “gran colpo”, per adoperare un termine sportivo, diminuiranno anno dopo anno. Ma non è neppure detto che sia un male: la storia dell’arte probabilmente cambierà i suoi oggetti, diventerà molto più interdisciplinare, riuscirà ad affascinare in modi diversi rispetto al passato. In breve: la conoscenza non finirà, ma si ridurrà lo spazio dell’eccezionalismo. I Mahon e gli Zeri del futuro probabilmente non emergeranno per le loro scoperte su un dato artista, ma per aver magari orientato la disciplina verso orizzonti adesso sconosciuti, per aver cambiato dei paradigmi, per aver trovato dei modi originali per democratizzare seriamente le conoscenze.
Arrivati a questo punto, insomma, lo storico dell’arte avventuriero del primo Novecento sarà già morto e sepolto, e sarà morto, come si diceva, per cause naturali, a prescindere dall’intelligenza artificiale, che semmai potrà accelerare il processo. I primi a diventare impiegati del catasto dell’arte saranno quelli che s’occupano degli artisti più importanti, i loro esperti di riferimento, mentre avranno sicuramente vita più lunga quelli che sceglieranno di concentrarsi sui petit-maîtres, semplicemente perché lavoreranno su meno materiale, col vantaggio di poter ancora sperare di diventare i principali esperti di riferimento di quell’oscuro artista di provincia del quale non conosciamo neppure la data di nascita. Per chi voglia lavorare nella storia dell’arte, sarà (e in parte penso lo sia già tuttora) molto più appagante la prospettiva di lavorare altrove, per esempio come conservatori di musei o collezioni, oppure nella valorizzazione o nelle digital humanities, ambiti in cui lo storico dell’arte del futuro potrà essere ricordato più facilmente, anche in ragione del fatto che la museologia, la museografia, la valorizzazione, lo studio dei contesti locali sono materie che al momento stanno conoscendo evoluzioni maggiori rispetto a quelle della connoisseurship. Lo storico dell’arte del futuro sarà sempre meno investigatore e sempre più organizzatore, gestore di conoscenze. Si restringerà lo spazio della caccia all’attribuzione, ma si apriranno altri terreni. L’occhio, insomma, non sarà più una metonimia: sarà componente di una professionalità magari meno affascinante ma sicuramente più strutturata. E l’intelligenza artificiale c’entra poco. A meno che non ci stupirà, ed è altamente probabile: del resto, solo fino a tre anni fa nessuno poteva immaginarsi a usare l’IA generativa che invece oggi è diventata di dominio comune. Ed è sorprendente la velocità dei cambiamenti. Quindi non è detta una parola di quello che s’è visto fin qui: magari arriverà davvero la macchina-connoisseur in tempi più rapidi del previsto. Ma l’abbiamo detto che immaginare il futuro di una professione è roba da sfaccendati.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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