Ormai nell'arte le star sono i curatori, gli artisti sono spariti: un paradosso grottesco


Nell’arte contemporanea assistiamo a un paradosso grottesco: i curatori sono diventati star e hanno oscurato le opere e gli artisti. Biennali e Documenta vengono ricordate per i curatori, non per gli artisti. Un sistema surreale che rischia di far morire l’arte riducendola a spettacolo mediatico.

È successo di nuovo. Sono state presentate le co-curatrici della prossima Documenta, dopo che nel dicembre scorso era stata annunciata la curatrice responsabile Naomi Beckwith proveniente dal Museo Guggenheim di New York. Ancora una volta, come accade ormai da molti anni, assistiamo ad una situazione grottesca dove i curatori di un’importante progetto d’arte vengono presentati come “super autori”, “super registi” e “super artisti” anche se costoro in realtà non realizzano e non creano nulla. Anche perché diversamente li chiameremmo “artisti”. Sia ben chiaro: il ruolo del curatore potrebbe essere importante e fondamentale per presentare e ottimizzare l’attitudine di un artista, ma a patto che non prenda il suo posto relegando l’artista a un accessorio marginale. Perché in questo caso il risultato sarebbe un grande vuoto.

Cosa ci ricordiamo degli ultimi grandi eventi dell’arte internazionale come Biennali, Documenta e Manifesta? Nessuna opera tra le migliaia presentate, ma ci ricordiamo (a grandi linee) il nome del curatore, che però non è un artista: la Biennale di Bonami, di Gioni, di Alemani, di Pedrosa, la Documenta di quel collettivo indonesiano, ecc.

Le curatrici di Documenta 16. Foto: Nicolas Wefers
Le curatrici di Documenta 16. Foto: Nicolas Wefers

Entrando in questo momento nel sito della Quadriennale di Roma, a poco più di un mese dall’inaugurazione, le prime cinque immagini che vediamo sono le foto dei cinque curatori sorridenti. Come se, entrando sul sito di Wimbledon o dello US Open, non trovassimo le foto di Sinner, Alcaraz o Zverev, ma le foto degli arbitri, dei direttori e degli organizzatori. Con un linguaggio dell’arte contemporanea fortemente indebolito e omologato, questa situazione sta diventando grottesca e per molti versi imbarazzante. Sul sito della Quadriennale non viene neanche comunicata la data di inaugurazione della mostra, mentre da più di 12 mesi assistiamo a conferenze stampa su conferenze stampa per presentare i curatori, i presidenti e le loro idee su come sarà la mostra. Ma la cosa paradossale è che costoro non sono artisti, e non sono nemmeno registi che ordinano diverse maestranze artistiche in un’unica opera unitaria.

Dove sono gli artisti? Nel caso della Quadriennale abbiamo visto, in modo molto significativo, dei video di presentazione su Instagram: anche qui il nome del curatore era presentato con caratteri cubitali e con una foto persistente, a volte anche tramite l’ennesimo video dove il curatore parla, mentre i nomi degli artisti hanno caratteri piccolissimi e le loro foto vengono presentate in modo velocissimo e ogni foto non persiste nemmeno per un secondo. Esattamente come se opere e artisti fossero totalmente secondari e poco rilevanti. Questa grottesca preponderanza del curatore-manager-star è dovuta anche alla presenza di centinaia di artisti omologati, deboli e incapaci di emanciparsi e uscire da posture rigide e nostalgiche. L’artista comunemente inteso è soggiogato dal sistema, impaurito e in attesa della chiamata del curatore, del direttore o del gallerista. Questa totale arrendevolezza, dopo molti anni, si riflette anche nella produzione artistica che già nel 2009 avevo iniziato a definire “Ikea evoluta”, ovvero soluzioni manieriste che elaborano in modo più o bene informato quello che avveniva cinquanta, sessanta, settant’anni fa. Nella società dello spettacolo digitale la debolezza dell’opera e dell’artista porta necessariamente alla personalizzazione “da star” del curatore anche se costui non è un artista e non produce nulla.

Questa dinamica era evidente anche all’ultima Biennale di Venezia 2024 ed è già stata innescata per la Biennale di Venezia 2026 e Documenta 2026. Nel 2024 Adriano Pedrosa, curatore della mostra internazionale della Biennale di Venezia, ossia la mostra più attesa, aveva invitato tutta una serie di artisti “indigeni” e outsider che secondo il curatore non avevano avuto la giusta visibilità negli ultimi 50 anni, ma il risultato è stato di un curatore “Cristoforo Colombo” che portava alle corti e al collezionismo occidentali dei “monili esotici”, ossia opere e artisti poco incidenti che sembravano dei feticci per consolare i presunti sensi di colpa del mondo occidentale. Di quegli artisti oggi nessuno ricorda il nome, ma ci ricordiamo della “Biennale di Pedrosa” come una grande installazione che voleva essere de-colonialista ma che invece ha rinnovato solo una nuova forma di subdolo colonialismo. Ci ricordiamo del “film di Pedrosa” anche se Pedrosa, come i suo colleghi di Quadriennale 2025 e adesso Documenta 2026, non è un regista che unisce e armonizza attori e maestranze in un’opera unica.

Il curatore d’arte seleziona, affianca, scrive testi, ma questo non significa creare un’opera d’arte, una sua grande installazione: altrimenti dovremmo chiamare il curatore “artista” e i veri artisti sarebbero come i colori sulla tavolozza del curatore di turno. Questo processo, attivo già da almeno 16 anni, sta portando alla morte dell’arte contemporanea. Allo stesso tempo il mercato dell’arte contemporanea per resistere deve gonfiare le opere di valore tramite il “doping delle pubbliche relazioni”. Questo avviene perché senza luoghi di semina efficaci (Biennali, Documenta, Manifesta, ecc) il contadino disperato è costretto a mettere anabolizzanti alla semina del giovedì, nella vana speranza di raccogliere qualcosa nel sabato pomeriggio dell’ennesima fiera d’arte sul pianeta. Una follia.


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