Art Basel, Frieze, ARCO. I grandi nomi delle fiere d’arte contemporanea evocano un immaginario di lusso, creatività e connessioni globali. Per molti, rappresentano il cuore pulsante del mercato dell’arte: luoghi dove collezionisti, curatori e appassionati si incontrano per scoprire il meglio che il panorama artistico ha da offrire. Ma dietro la patina scintillante di questi eventi, emerge una domanda cruciale: quanto spazio c’è realmente per gli outsider? Passeggiando tra i padiglioni affollati, la sensazione di un’elegante ripetitività è difficile da ignorare. Gli stessi nomi, le stesse gallerie, le stesse estetiche sembrano dominare la scena anno dopo anno. E se da un lato questa continuità garantisce una certa coerenza e solidità al sistema, dall’altro rischia di creare un circolo vizioso in cui il nuovo fatica a emergere.
Le fiere d’arte non sono solo spazi di esposizione: sono anche macchine economiche che operano secondo logiche precise. Per partecipare, le gallerie devono investire somme considerevoli in affitti di stand, trasporti e allestimenti, il che restringe inevitabilmente il campo ai soggetti con maggiore disponibilità finanziaria. Questo meccanismo esclude molte realtà indipendenti, spesso portatrici di linguaggi e prospettive alternative. Di conseguenza, le fiere finiscono per consolidare le gerarchie esistenti, privilegiando artisti già affermati e gallerie di alto profilo. Anche quando vengono introdotte sezioni dedicate agli emergenti, come la Discoveries di Art Basel o Focus a Frieze, queste appaiono spesso relegate ai margini dell’evento principale. Sono spazi concepiti per offrire una parvenza di diversità, ma difficilmente riescono a spostare gli equilibri del sistema.
Questo modello non è necessariamente una scelta consapevole, ma il risultato di dinamiche di mercato consolidate. I collezionisti, spesso alla ricerca di investimenti sicuri, preferiscono acquistare opere di artisti già riconosciuti. Le gallerie, a loro volta, si trovano costrette a presentare nomi che garantiscano un ritorno economico immediato, limitando le opportunità per voci meno conosciute.
Non mancano, tuttavia, iniziative volte a promuovere la diversità e l’inclusione. Alcune fiere hanno iniziato a collaborare con istituzioni e progetti indipendenti per portare al centro del discorso artisti provenienti da contesti storicamente marginalizzati.
Un esempio interessante è rappresentato da 1-54 Contemporary African Art Fair, una fiera interamente dedicata all’arte africana. Questo modello, concentrato su una specifica area geografica e culturale, ha dimostrato che è possibile creare spazi che valorizzino narrazioni diverse senza sacrificare la qualità o la visibilità. Tuttavia, eventi come questo rimangono l’eccezione piuttosto che la regola.
Nel panorama mainstream, invece, l’inclusività rischia spesso di trasformarsi in una strategia di marketing. La presenza di un artista emergente o di una galleria indipendente in un contesto di alto profilo può essere utilizzata per dimostrare un impegno verso la diversità, ma raramente queste inclusioni si traducono in un cambiamento strutturale. Le narrazioni dominanti rimangono al centro, mentre le voci alternative continuano a occupare una posizione periferica.
Se le fiere d’arte vogliono davvero essere inclusive, devono andare oltre l’estetica della diversità e affrontare le disuguaglianze strutturali che permeano il sistema. Ciò potrebbe significare, ad esempio, offrire supporto economico alle gallerie emergenti o creare piattaforme dedicate non solo all’esposizione, ma anche alla formazione e alla promozione di nuovi talenti.
Un altro aspetto cruciale è la rappresentazione geografica. Mentre l’Europa e il Nord America continuano a dominare il discorso artistico internazionale, molte altre regioni rimangono sottorappresentate. Ampliare lo spettro delle narrazioni significa anche sfidare l’idea che l’arte contemporanea sia un fenomeno esclusivamente occidentale, aprendo spazi per le estetiche e le prospettive di altre culture. Le fiere potrebbero diventare luoghi di dialogo e confronto più che di semplice mercato. Introdurre momenti di riflessione collettiva, come talk, workshop e progetti collaborativi, potrebbe contribuire a scardinare le logiche esclusivamente commerciali che spesso limitano la portata innovativa di questi eventi.
La vera inclusività è comunque un obiettivo complesso, che richiede un ripensamento profondo del sistema dell’arte. Non si tratta solo di ampliare la platea degli artisti rappresentati, ma di creare un contesto in cui le differenze possano emergere e dialogare su un piano di parità. Le fiere d’arte hanno un enorme potenziale trasformativo: con la loro capacità di catalizzare l’attenzione e di mettere in relazione attori diversi, potrebbero diventare spazi per immaginare un sistema più aperto e plurale.
Tuttavia, la domanda rimane: il mercato dell’arte è pronto a rinunciare a parte delle sue certezze per abbracciare una vera diversità? O continuerà a utilizzare l’inclusività come un elemento decorativo, senza mai affrontare le disuguaglianze alla radice?
Forse la risposta sta nelle mani di chi, con coraggio, decide di immaginare alternative. Perché se l’arte ha il potere di trasformare il mondo, anche le sue strutture devono essere disposte a cambiare.
L'autrice di questo articolo: Federica Schneck
Federica Schneck, classe 1996, è curatrice indipendente e social media manager. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Pisa, ha inoltre conseguito numerosi corsi certificati concentrati sul mercato dell’arte, il marketing e le innovazioni digitali in campo culturale ed artistico. Lavora come curatrice, spaziando dalle gallerie e le collezioni private fino ad arrivare alle fiere d’arte, e la sua carriera si concentra sulla scoperta e la promozione di straordinari artisti emergenti e sulla creazione di esperienze artistiche significative per il pubblico, attraverso la narrazione di storie uniche.