Chiunque si trovi a visitare il Palazzo Ducale di Venezia fino al prossimo 29 ottobre, nella Sala dello Scrutinio non troverà le opere del Tintoretto, di Andrea Vicentino, di Pietro Liberi, di Palma il Giovane e degli altri che dipinsero i fasti della Serenissima sui grandi teleri qui sistemati a formare una sorta di fregio in lode alla Repubblica dopo che il disastroso incendio del 1577 distrusse questa sala e il vicino Salone del Maggior Consiglio: da marzo, tutto è coperto da un’enorme installazione di Anselm Kiefer, targata Gagosian, appositamente creata per questa sala, e immaginata per rispondere, si legge nella presentazione, ad alcuni precisi scopi. Primo, “sottolineare il ruolo dell’arte contemporanea nella riflessione su temi universali, che trascende Venezia per aprirsi a visioni filosofiche attuali”. Secondo, “misurare la capacità di questo luogo-simbolo della Repubblica Serenissima d’essere ancora un centro di cultura viva e non solo memoria”. Terzo, stabilire una “narrazione che riporta in superficie la stratificazione di miti millenari, di solitudini e inquietudini a cui l’artista dà forma attraverso una nuova epica, dagli accenti gravi come è l’oscurità del nostro tempo”.
La potenza visionaria dell’opera di Kiefer è alla base d’un’opera sicuramente riuscita, sebbene si possa dire che le fiamme del tedesco siano metaforiche, mentre quelle del 1577 erano reali e il ripensamento dello spazio non scaturiva da una riflessione pacata e a lungo ponderata, ma da una necessità urgentissima: eppure, nonostante la percepibile finzione, ne è emerso, ha scritto Giuseppe Frangi sul Manifesto, un “atto maestoso e potentemente interrogativo, reso possibile grazie a una pittura di straordinaria prodigalità, dove la monumentalità dell’esecuzione è funzionale a restituire l’intensità della visione e la profonda commozione per il destino del mondo”. Un risultato ch’è stato però possibile raggiungere grazie a una doppia invasione: quella d’un artista contemporaneo partito per insinuarsi in uno spazio antico che, da quattro secoli, non ha più conosciuto significative trasformazioni (e forse per alcuni l’idea di vedere una sala così com’era quando Venezia era ancora una repubblica indipendente, è un’esperienza ben più emozionante della vista degli apparati effimeri di Kiefer), e quella d’una galleria privata che ha lautamente sostenuto questa occupazione dello spazio pubblico.
Non si parla, naturalmente, d’una storia recente: il contemporaneo che s’intromette nell’antico non è una novità. Le origini vanno forse rintracciate nelle Sculture nella città, la manifestazione che, nel 1962, riempì il centro storico di Spoleto di opere d’artisti contemporanei (sollevando già allora le perplessità di Giovanni Urbani), parte delle quali rimaste ancor oggi nelle vie e nelle piazze della città umbra. Uno scatto ulteriore s’ebbe, ancora a Spoleto, nel 1968, quando Christo e Jeanne-Claude presentarono il primo impacchettamento su di un monumento antico: per il Festival dei Due Mondi, la coppia decise di coprire interamente il Fortilizio dei Mulini e la fontana di piazza del Mercato. Se invece si volesse evitare di prendere in considerazione un’opera d’arte che non potrebbe esistere senza una precisa azione su di un monumento antico, allora si può fare un balzo di quattro anni al 1972: si teneva allora la quinta edizione di Documenta e l’artista francese Ben Vautier copriva le colonne del settecentesco Fridericianum di Kassel (un’idea che in seguito avrebbe caratterizzato quasi tutte le edizioni della mostra), e issava sopra al frontone un grande striscione con sopra scritto “Kunst ist überflüssig”, “L’arte è superflua”. Non servirà forse specificare come anche la Biennale di Venezia sia stata anch’essa anticipatrice: varrà la pena ricordare le tante volte in cui, a partire dagli anni Ottanta, quindi in pieno clima postmoderno quando queste modalità d’interazione tra antico e contemporaneo cominciarono a conoscere una vasta diffusione in tutta Europa, la chiesa di San Stae è stata assaltata dalle incursioni di artisti contemporanei: da Felice Varini che installava una piattaforma per costruire un preciso punto di vista ad Adrian Schiess che copriva il pavimento con panelli colorati, da Christoph Rütimann che con una grande installazione bianca riduceva drasticamente l’interno della chiesa a Pipilotti Rist che lanciava una videoproiezione sul soffitto. Una gran mole d’interventi di cui oggi s’è in gran parte persa la memoria.
Non si son perse però le occasioni di moltiplicare le invasioni degli artisti contemporanei all’interno di contesti antichi, ridotti vieppiù al mero ruolo di scenari, di fondali coi quali instaurare un “dialogo”, abusatissimo termine con cui i curatori amano condire i loro fraseggi per giustificare presenze che spesso non hanno niente da spartire, o niente su cui poter “dialogare”, con l’antico che le ospita. Non si parla, qui, d’installazioni all’interno di luoghi che hanno perso gran parte della loro fisionomia originaria, e che di conseguenza, divenuti contenitori vuoti o semivuoti, sono andati incontro a interessanti operazioni di rifunzionalizzazione grazie alla presenza d’opere contemporanee. Il caso più famoso, e forse tra quelli meglio riusciti, è la Calamita cosmica di Gino de Dominicis che dal 2011 occupa tutta la navata centrale dell’ex chiesa della Trinità di Foligno, nei secoli spogliata di tutti i suoi arredi e ridotta a sola struttura architettonica.
Abbondano però anche i casi in cui l’arte contemporanea dilaga nei luoghi che hanno conservato una leggibilità buona o addirittura piena. Pescando solo tra gli esempi più recenti, si potrebbe menzionare il progetto Archinto di Georg Baselitz (altra mostra prodotta da Gagosian, peraltro), che ha portato alcuni suoi dipinti nella Sala del Portego di Palazzo Grimani a Venezia, andando a occupare le cornici che un tempo ospitavano i ritratti della famiglia Grimani con opere animate da un linguaggio neoespressionista che poco ha da condividere con il salone che le ospita. Si potrebbe, certo, avanzare un’obiezione: Palazzo Grimani ha perso gran parte dei suoi arredi, dipinti inclusi, e senza arte contemporanea gli stucchi antichi rimarrebbero vuoti. Il che è vero, ma non è detto che una forzatura funzioni meglio rispetto a un ambiente lasciato spoglio. E poi spesso il vuoto ha una funzione precisa. Si prenda il caso della Cappella dei Notai di Verona, diventata sede della mostra dei vincitori del premio “Level 0”, con le opere che vengono esposte, sotto i sontuosi dipinti secenteschi di Louis Dorigny, Alessandro Marchesini, Giambattista Bellotti, e Santo Prunati, nello spazio dove si trovava in antico l’altare, smembrato nell’Ottocento: lo spazio vuoto è un preciso segno di ciò che in un passato lontano occupava quella parete, e per il quale Dorigny immaginò la sua Annunciazione, eseguita anche con l’obiettivo di dar vita a un intenso apparato scenografico e illusionistico. Quel vuoto oggi ospita opere d’arte contemporanea che poco o niente hanno a che vedere con lo spazio che le accoglie, come nel caso dell’astronauta del giovane Andrea Carpita, una presenza stridente, del tutto estranea all’ambiente della Cappella dei Notai, incapace di attivare quelle “riflessioni sul cosmo, l’esistenza umana e il trascendente” che il testo di presentazione intende evocare. Piuttosto, la sua presenza pare quella d’un turista che ha scavalcato il dissuasore che protegge i dipinti di Dorigny.
Ci sono comunque anche casi di riempiture d’ambienti che spogli non sono: valga l’esempio della mostra al Palazzo Reale di Torino dell’ormai onnipresente Fabio Viale, che ha fatto piombare la sua rivisitazione dell’Amore e Psiche di Canova nel Salone delle Guardie Svizzere, per esortare il visitatore “a guardare con occhi nuovi ai capolavori di scultura che popolano i nostri musei e il nostro immaginario” (così la direttrice dei Musei Reali, Enrica Pagella), e per stabilire “un omaggio alle multiformi potenzialità del patrimonio culturale e un invito a conoscerlo e a sfidarlo senza pregiudizi”. Nella presentazione della mostra veniva stabilito un confronto proprio con l’arte di Christo e Jeanne-Claude: la relazione col contesto, recita il testo, “costringe a rileggere il soggetto con occhi nuovi”. Un paragone opinabile: la differenza tra gl’interventi di Christo e Jeanne-Claude e quelli di Kiefer e Viale sta nel fatto che nella poetica nouveau réaliste della coppia franco-bulgara l’opera nuova non può nascere senza la presenza di quella antica, poiché il senso dell’operazione concettuale di Christo e Jeanne-Claude risiede nello stesso nascondimento dell’opera antica. E se Kiefer è artista che ha sempre lavorato senza intervenire direttamente sull’antico (anche Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, l’installazione di Palazzo Ducale, sebbene nata per quel preciso sito, ha origini estrinseche, e probabilmente avrebbe funzionato bene anche in un altro luogo), le sculture che Viale ha portato a Torino sono nate a prescindere da quel contesto, e pertanto l’idea di rifarsi a Christo e Jeanne-Claude suona un poco come una giustificazione ex post. E ben leggibile è anche la chiesa di Sant’Agostino a Pietrasanta, teatro da anni di mostre d’arte contemporanea, che però spesso intralciano gli arredi sacri, oppure risultano del tutto irriguardose del contesto (il caso più recente è la mostra in corso con le terrecotte di Marco Cornini che rappresentano giovani donne in atteggiamenti provocanti, sistemate sotto le pale di Francesco Curradi, di Astolfo Petrazzi e di altri protagonisti del Seicento toscano: altra presenza che niente ha a che fare con l’ambiente che la ospita, che niente aggiunge a una chiesa perfettamente conservata, e che non attiva alcun “dialogo”, e tanto meno fa emergere nuove letture per disaccordo). E converrà poi tacere di tutte le volte che opere moderne sono entrate nelle sale della Galleria Borghese, già poco adatte a ospitare mostre temporanee: basti solo ricordare la mostra che mise a confronto due artisti estremamente distanti tra loro, Bacon e Caravaggio, partendo addirittura dal presupposto dichiarato che la rassegna non muoveva “da un’ipotesi storico-critica di filiazione” o da un “esercizio filologico che derivi l’ispitazione di Bacon da Caravaggio”, ma era motiviata semplicemente dall’“invito a compiere un’esperienza estetica”.
Non è questione di moralismo (un Kiefer non vale meno d’un Andrea Vicentino e non ha necessità d’invadere Palazzo Ducale per affermarsi), né di preclusione nei confronti del contemporaneo, perché spesso il dialogo funziona: si possono citare, sempre tra gli ultimi casi, le nuove vetrate della Cappella dei Priori di Perugia, realizzate da Vittorio Corsini che è intervenuto rispettando l’ambiente e creando due opere capaci d’evocare in maniera efficace la storia dell’edificio, o ancora la mostra di Koen Vanmechelen agli Uffizi di quest’anno, con la presenza d’alcune opere che, attraverso analogie, divergenze e necessarie attualizzazioni, hanno cercato d’affrontare temi e problemi posti dalle opere antiche della galleria, oppure, a dimostrazione che un dialogo corretto è possibile anche in un ambiente difficile, la mostra di Bertozzi&Casoni che si è tenuta nel 2020 proprio nella chiesa di Sant’Agostino a Pietrasanta. I due maestri della ceramica, in quel caso, sono riusciti a vincere una sfida difficile con un intervento minimo, in grado di non cozzare con la chiesa secentesca, e ponendosi (come del resto dovrebbe essere sempre) un problema di natura semantica, con l’idea di stabilire un confronto profondo con l’ambiente circostante partendo anzitutto dal piano del significato: le opere, in quel caso, s’interrogavano sul valore e sul ruolo che la Chiesa, e in generale l’essere umano, attribuiscono al tempo.
Un dialogo tra antico e contemporaneo può e deve esistere. Ed è sano che un museo d’arte antica s’interroghi sulla possibilità d’essere anche un luogo di produzione dei linguaggi del presente, oltre che di conservazione del passato. È frutto di luoghi comuni che ci trasciniamo dietro dall’epoca del futurismo pensare che tra antico e contemporaneo ci siano fratture insanabili, discontinuità, incapacità di dialogo: l’arte contemporanea non può prescindere dal confronto, anche implicito o sotteso, con l’arte antica. Ogni forma d’arte include in maniera più o meno intenzionale una qualche forma di reazione che, ha spiegato Salvatore Settis, “può manifestarsi anche capovolgendo di segno gli echi dell’arte antica, nascondendone le tracce, provando a ignorarne l’esistenza o a denigrarne qualità ed esiti, o perfino propugnandone la distruzione come facevano i futuristi”, e di conseguenza il rapporto tra antico e contemporaneo è animato da una tensione che “continuamente si riarticola nel fluire dei linguaggi critici e del gusto, nei meccanismi del mercato, nel funzionamento delle istituzioni, nella ‘cultura popolare’”.
Come attivare allora una compresenza d’antico e contemporaneo che non sia pretestuosa? Occorrerà, intanto, partire dal presupposto che una funzione non dovrebbe escluderne un’altra (è lecito domandarsi se un luogo di memoria possa anche essere un luogo di produzione, ma se la produzione per un qualche tempo nasconde parte della memoria forse occorre verificare anzitutto fino a che punto i propri desiderata possono essere compatibili con la funzione primaria del luogo), e rimarcare che la mera ripresa dei valori formali (o per affinità, o per contrasto) difficilmente riesce a essere incisiva: la logica dell’intervento contemporaneo che attiva “un’esperienza estetica” a confronto con l’antico (suona un po’ come “le opere contemporanee ci stanno bene”), non prescinde dal considerare quest’ultimo come una semplice scenografia. Sarà poi necessario che il contemporaneo eviti di obliterare l’antico o d’impedirne la lettura: se di dialogo si tratta, il contemporaneo dovrebbe, se non esaltare l’interlocutore, almeno renderlo partecipe, coinvolgerlo sullo stesso livello, altrimenti non sarà più dialogo, ma diventerà prevaricazione. Il cosiddetto “dialogo” dovrebbe poi poggiare su basi solide: un legame con la storia del luogo, un nesso evidente e magari spontaneo e non forzato con l’opera antica, oppure una riflessione che parta dall’antico o che abbia almeno un terreno comune. Il dialogo, ad ogni modo, non è certo l’unica forma d’interazione possibile: la presenza in dissonanza con l’arte antica è un’altra forma d’accostamento altrettanto valida, magari per mettere in discussione un argomento posto dall’antico. Quel che conta è che l’avvicinamento, anche discorde, di antico e contemporaneo finisca per lasciare qualcosa in più, per produrre nuovi significati e nuove letture. Nel 2006, Paolo Portoghesi, intervenendo sul tema degl’inserti contemporanei nei tessuti urbani antichi, delineava con lucida chiarezza che ogn’intervento di questo tipo non dovrebbe ammettere giustificazioni generiche, ma al contrario presupporre “ragioni strettamente legate a un problema specifico affrontato a 360 gradi prima di assumere ogni decisione”: lo stesso principio dovrebbe guidare gl’interventi d’arte contemporanea che si pongono a confronto con l’antico.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).