Come scriveva nel 1975 Andrea Emiliani firmando il catalogo della mostra che ancora oggi è considerata un punto fermo nella ricollocazione critica di Federico Barocci, un artista che non ha mai raggiunto lo status del rivoluzionario che condiziona un’epoca e la ridefinisce secondo i propri parametri: Barocci rimarrà a lungo in quello spazio intermedio di chi si regge sulle due staffe del prosecutore e dell’anticipatore. Con le sue grandi qualità pittoriche e la notevole cultura di formazione egli è l’erede che allunga la traiettoria del raffaellismo “in direzione esistenziale e non umanistica”; ma, d’altro canto, è anche l’ipersensibile innovatore che respira le arie del nascente naturalismo classicista emiliano senza approdarvi mai completamente per via della sua visionaria comprensione del colore: non un rapporto con il naturale, ma la verosimiglianza dell’“impossibile credibile” (prebarocco, in definitiva; non avrebbe potuto aspirare di più). Pur offrendo stimoli nuovi, anche in fatto di classicismo Barocci verrà soverchiato dalla perentoria forza espressiva di Annibale Carracci. Allo stesso tempo, in direzione antimanierista, egli manifesterà languori formali che inclinano già verso il barocco, in particolare con una poetica degli affetti fondata sulle potenzialità veritative del sentimento, che in lui non “giunge mai a fisiologica maturazione”, ma tocca i vertici di quello che potremmo chiamare appunto un luminismo magico.
Con formidabile definizione Emiliani paragona la forma di luce-colore del Barocci all’“emulsione fotografica” (raccogliendo spunti da Mengs) poiché le sue composizioni sono apparizioni evaporate nella chiarezza leggera e gentile delle forme. Momenti di trasparenza inusitati, prontamente rinvenuti da un artista del Seicento, nativo di Pesaro e per questo soprannominato il Pesarese, Simone Cantarini, nella sublime tela della Beata Michelina – “quel colore a velature che sfocano l’immagine, quel lumeggiare inquieto”, reso con precisione da Arcangeli –; e non va dimenticato che il Cantarini era un allievo eretico di Guido Reni, il quale fu molto attento alla pittura di Barocci.
Nonostante questo intreccio di rapporti, l’Urbinate, anche nella critica dei moderni più prossimi alla nostra epoca, non riuscì mai a “sfondare il muro della notorietà di massa”. Anzi, continua Emiliani, “il tempo di Federico Barocci è certamente quello che va dalla dissoluzione del sistema rinascimentale ad una inquieta condizione di incertezza…”; vale a dire, egli fa da ponte alla forma severa rinascimentale che aggetta poi verso la trasparenza trascendente rendendo “naturali le visioni miracolose”, senza tuttavia marcare con uno stile forte e un linguaggio rivoluzionario il proprio tempo. Fu, insomma, un genio ad altissima caratura pittorica, ma non l’artista performatore di un’epoca.
Su Barocci vige ancora la vulgata che lo vuole uomo segnato dalla malattia. E certamente era di costituzione fragile. Il pendant mitografico è nella narrazione di quando – mentre a Roma guadagnava consenso e spazio presso le committenze altolocate – pagò cara la fatale invidia dei suoi colleghi che, raccontano i biografi, il Bellori in primis, gli avvelenarono l’insalata e ne segnarono così per sempre le già precarie condizioni di salute indotte da un helicobacter particolarmente ostile, che gli aveva causato un’ulcera persistente intralciando e limitandone i tempi di lavoro – dalle lettere del suo più fedele sostenitore, il duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere, si avverte l’impazienza verso il pittore ritardatario, che con questa lentezza gli procurava fastidi diplomatici con i grandi committenti di cui si era fatto tramite con Barocci: in una lettera del 1588 il principe arrivò addirittura a chiedersi in piena esasperazione se non fosse meglio che l’artista morisse del suo male piuttosto che continuare a dargli tutti quei problemi. Era ancora un’epoca dove un pittore poteva pesare sulle sorti della politica.
Gli Uffizi conservano del Della Rovere lo splendido ritratto che Barocci gli fece con indosso l’armatura mentre appoggia la mano destra sull’elmo scintillante, tela ora esposta nella retrospettiva che la città natale ora gli dedica, proprio nel palazzo Ducale (fino al 6 ottobre), accanto ad altri ritratti, genere nel quale Barocci fu un maestro indiscusso. Così Urbino salda il suo debito allestendo per la prima volta una retrospettiva sul suo illustre pittore.
Francesco Maria II partecipò nel 1571 alla battaglia di Lepanto guidando un’armata di duemila soldati e uscendone trionfante. È questo che il ritratto di Barocci intende celebrare: l’immagine di un uomo virile, non troppo enfatica, che vuole esibisce la calma certezza dei propri mezzi nello sguardo sicuro di condottiero. Questo orgoglio del futuro regnante (il padre Guidobaldo morì nel 1574) conferma il supremo prestigio e rispetto riservato al pittore nella corte tanto che, come ricorda nel catalogo della mostra – edito da Electa – Raffaella Morselli, era il duca a far visita a Barocci nella sua casa, ribaltando il rapporto cortigiano, come segno dell’unicità della loro relazione (il pittore, nato nel 1533, era di sedici anni più vecchio del duca). Ma Barocci – puntualizza la studiosa – fu assai più che un pittore di corte, lo si può definire piuttosto il soprintendente agli affari artistici del ducato (in piccolo, come le debite proporzioni vogliono, Barocci era per il ducato ciò che Raffaello fu per la Roma papale).
Formatosi alla musica, all’architettura e alle altre arti – attraverso l’esperienza giovanile con Bartolomeo Genga, architetto, e con suo padre Gerolamo, pittore, scultore e architetto dal quale forse prese anche rudimenti di scultura –, rientrando a Urbino da Roma nel 1565, egli diventò quindi il consigliere del nuovo principe per ogni decisione riguardante le arti. Intanto, la sua notorietà in Europa si espandeva grazie anche alla diffusione delle sue invenzioni visive che l’incisione incentivò, così che Barocci scavalcò i confini italiani pur rimanendo fermo nel ducato marchigiano.
Ma sulla storiella che tende a motivare la partenza improvvisa di Barocci da Roma dopo l’episodio dell’avvelenamento, Emiliani era scettico. Troppo aneddotica e poco credibile, secondo lo studioso. Dopotutto, Barocci a Roma era visto come il continuatore della linea raffaellesca, stimato per le sue abilità pittoriche da Taddeo Zuccari e dal vecchio Michelangelo; inoltre, durante il soggiorno romano l’Urbinate stabilì rapporti con san Filippo Neri che dichiarò tutta la sua stima verso il pittore commissionandogli per Santa Maria in Vallicella la grande pala della Visitazione, opera, narrano le cronache, al cui cospetto il fondatore degli Oratoriani raggiunse l’estasi. Nel saggio del 1975 Emiliani non dà mai l’impressione di considerare Barocci un pavido, uno che si arrese alla cattiveria umana; sarebbe stato come ridurre sotto quell’ottica la sua pittura luminosa e la sua forma gentile: una idea edulcorata, oggi diremmo buonista, quando proprio l’ultimo periodo della sua vita artistica traspone sulle tele una pietà cristiana segnata da stigmate sommamente tragiche; una fase “mistica” che non sarebbe improprio, per intensità poetica, porre accanto alla noche obscura di san Giovanni della Croce.
Inoltre, l’eleganza di Barocci non è una psichica riduzione di timbro manierista, anzi; e nemmeno un gioco di equilibri fra naturalismo e classicismo. La sua trasparenza “paradisiaca” è piuttosto una maschera esistenziale. Emiliani parlava del ritorno a Urbino come volontà di recupero delle proprie radici culturali. Barocci sarà in tal senso l’esemplare portabandiera del ducato, mentre le sorti di Urbino sulla scena politica andavano però declinando; e al tempo stesso testimonierà della rifondazione estetica e religiosa voluta dalla Controriforma. La Visitazione incarna in effetti una umanità fedele alla verità cristiana, ma nella rappresentazione anche prossima alla condizione dei semplici (sulla linea della low church, ricordata da Emiliani, che ha i suoi paladini nell’oratoriano e il san Carlo Borromeo): si noti la singolare stretta di mano fra Elisabetta e Maria che si abbracciano, potrebbe essere l’incontro di strada fra due donne comuni divise soltanto dallo scarto di età, ma unite dal sentimento di una nuova fede incarnata. Dalla sinistra del quadro spunta la testa dell’asino, che pare ispirata da pensieri segreti (anche gli asini hanno una mente, “divina” direbbero i cultori di alchimia e cabbala): è, come l’asino di Caravaggio nella Fuga in Egitto, il cui occhio tutt’altro che ebete guarda, per così dire “in macchina”, il sacro convitato di pietra che testimonia la vigile attenzione del garante divino sulla sacra Famiglia.
La mostra di Urbino costituisce una messa a punto fondamentale, anche rispetto a quella di Emiliani, per l’accento che pone su Correggio, di cui Barocci esibisce più di una citazione confermando una sua tappa emiliana e una esperienza de visu; ma anche, per come insiste sull’ultimo periodo creativo, dove lo stato d’animo del pittore si esprime nello “stupore della notte”, come scrive Anna Maria Ambrosini Massari (curatrice con Luigi Gallo, della rassegna). Atmosfera che se, da un lato, fa pensare a una meditazione su Tintoretto, con trasferta a Venezia, affonda però le sue radici nel senso notturno che troviamo già in Raffaello (Liberazione di san Pietro); e nella penombra di luci condensate, splendida sintesi di vari pensieri amalgamati, per esempio, nel tessuto pittorico dell’Annunciazione dei Musei Vaticani, sembra far emergere anche reminiscenze leonardesche. D’altra parte, nella drammaticità chiaroscurale che avvolge la Fuga di Enea da Troia Barocci riassume una esperienza di lunga gittata, da Raffaello a Tintoretto, passando per le atmosfere luministiche di Jacopo Bassano.
L’Istituzione dell’Eucarestia sembra l’opera di un pittore che si sente provocato da un forte sentimento del reale, con effetti di realtà profondamente “umana ma non umanistica”, come scrisse Longhi del Caravaggio; linee di studio che andranno ripensate alla luce di questa mostra, il cui rilancio ha la forza di un nuovo inizio, cioè ripercorrendo le strade battute dal Barocci e seguendo le orme che lo rendono un anticipatore della cultura barocca.
Il contrappunto stabilito da Argan fra Barocci e Caravaggio, non li rende invero lontani nel sentimento della realtà, anche se il metodo li separa: quello dell’Urbinate produce decine di disegni di studio, in ragione dei quali già Bellori parlava di “studio vigilanti”, cui poi segue il coinvolgimento dei collaboratori nello sviluppo delle sue invenzioni attraverso il reimpiego di modelli e strutture; mentre nel Caravaggio l’urgenza della realtà, del vero, muove dalla praxis carica di furor, che lo vede unico protagonista: il pittore lombardo, è ben noto, non delegava a nessuno il completamento dell’opera, supremamente geloso com’era delle proprie invenzioni. E questa differenza formale ed estetica tra vero e verisimile, propriamente metodologica e di poetica, suscitava nel Bellori una “antipatia” caravaggesca. Il tema venne affrontato ancora nel 2000 a Roma, nella mostra dedicata allo scrittore secentesco e intitolata all’Idea del bello.
Invero, anche Barocci è un uomo caratterialmente tormentato; la sua ulcera sembra, come del resto ci ricordano anche le attuali ricerche mediche, l’effetto psicosomatico di un animo esacerbato, di cui scrive nel catalogo Ambrosini Massari. La studiosa, nello specifico, sostiene che più su Barocci agivano le sofferenze fisiche e interiori “tanto più le sue opere esprimevano quel sorriso continuo che fa del pittore un protagonista cristallino della Controriforma, o meglio della Riforma Cattolica”. Tema notevolissimo. Come ci dicono gli psicologi moderni, un sorriso ripetuto, quasi reattivo alle infauste vicende della vita, nasconde spesso un melanconico. L’ulcera fu per Barocci il viatico a una conoscenza profonda dello spirito del mondo, che gli causava tormenti laceranti perché palesemente lontano dal bene evangelico. Un grande teologo italotedesco, che fu amico di molti artisti, parlo di Romano Guardini, scrisse pagine penetranti a proposito della malinconia d’artista, che andrebbero rilette. Per il teologo la radice tedesca del termine malinconia, Schwer-Mut, non significa “umor nero”, come si è soliti dire, ma “umor grave” (gravido, pesante): è qualcosa che incombe sull’anima e produce malessere e autocoscienza. In generale, il malinconico prova un sentimento dell’ineluttabile che lo “espone a tutti i rischi”. La tensione dell’artista al compiersi dell’opera lo grava di una inquietudine e insoddisfazione che possono diventare pericolose, in quanto “più il valore è grande, più esso può avere effetti distruttivi”. In sostanza, la malinconia è la vita che gioca contro se stessa, e “l’istinto di conservazione, la stima di sé, il desiderio di fare il proprio bene possono essere stravolti, resi incerti, sradicati dall’istinto di autodistruzione”. Anche la nostalgia dell’amato si fa sentire come “contraddizione tra tempo e infinito”, un desiderio dell’assoluto, di cui la malinconia incarna “il dolore causato dal parto dell’eterno nell’uomo”. La malinconia sarà anche «relazione con i fondamenti oscuri dell’essere», scrive Guardini, ma questa oscurità non va confusa con la negatività delle tenebre, bensì intesa “come una forma strana di avvicinamento alla luce... La tenebra è cattiva, essendo qualcosa di negativo. L’oscurità, invece, appartiene alla luce». Se nell’ultima parte della vita di Barocci ricorre frequente, come scrive Ambrosini Massari, “l’ambientazione a lume di notte”, ci si può chiedere allora se la luminosa trasparenza del primo periodo e l’oscura proiezione notturna dell’ultimo non siano due facce di un’unica malinconia dell’artista. La risposta a questa domanda può indicare una strada diversa per sottrarre definitivamente Barocci all’equivoco di una pittura “del sorriso”.
L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti
Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).