Jeff Wall e l'invenzione del reale: quando la fotografia diventa teatro


Tra messinscena, citazione pittorica e luce artificiale, Jeff Wall ridefinisce la fotografia come spazio critico e narrativo, trasformando l’immagine in un dispositivo aperto, ambiguo e profondamente concettuale. Ecco cosa si vede nelle due mostre che Torino e Bologna gli dedicano.

La figura di Jeff Wall (Vancouver, 1946) rappresenta uno snodo decisivo nella storia della fotografia contemporanea: l’artista, a partire dalla fine degli anni Settanta, fu tra i primi a problematizzare lo statuto dell’immagine fotografica d’attualità, spostandola dal territorio dell’istantaneità, a cui era di solito associato il genere del reportage, a quello dell’elaborazione concettuale e della costruzione installativa. Wall, forte della sua formazione storico-artistica (fin dagli anni Sessanta, ancora studente all’Università della British Columbia, realizza opere pittoriche concettuali), ha scelto infatti di interpretare la fotografia non come documento ma come dispositivo critico capace di restituire la complessità del reale attraverso strategie, come la messa in scena, la citazione e la stratificazione materica e luminosa, mutuate da altri ambiti. Operando alla convergenza fra letteratura, cinema, pittura e scultura, l’artista concepisce la propria pratica come un laboratorio di possibilità percettive in cui il tableau fotografico (spesso di dimensioni ambientali) assume una consistenza tattile paragonabile a quella di forme d’arte per tradizione considerate più materiche. Mentre la fotografia coeva di reportage tendeva alla registrazione iconica dell’attimo “vero”, la sua nuova versione estende in accezione pittorica a questo genere lo spirito di sperimentazione del concettualismo allora in voga.

Nel corso degli anni, Wall ha lavorato sulla concettualizzazione di scenari e fenomeni della vita quotidiana applicando alla fotografia canoni e procedure tipiche di altre forme espressive, elaborando una modalità sincretica di produzione dell’immagine, da lui definita “cinematographie” (“cinematografia”), articolata in due filoni chiave. Il primo, che l’artista chiama “palese artificio” (“blatant artifice”) comprende immagini che pongono l’accento sulla dimensione teatrale del loro soggetto e della loro stessa produzione, mentre la seconda, il “quasi documentario” (“near documentary”), include scatti che, pur somiglianti per stile e argomento a fotografie d’inchiesta o cronaca, vengono realizzati in collaborazione con le persone che appaiono in esse. In entrambe le tipologie, Wall lavora con un approccio che richiama il neorealismo cinematografico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, invitando modelli non professionali a posare di fronte al suo obiettivo in scenari e situazioni affini a quelli della loro quotidianità, che nella messinscena si caricano di allusioni e significati complessi. Il suo stile distintivo si precisa alla fine degli anni Settanta quando, durante un viaggio in Europa, viene suggestionato dalla visione nell’ambiente urbano dei primi cartelloni pubblicitari dotati di insegne luminose. L’intuizione che lo rese subito famoso fu quella di montare su lightbox retroilluminati le sue fotografie a stampa lucida, sottraendole alla pretesa oggettiva propria dei canoni documentaristici per rivendicarne una dimensione costruita, teatrale e pittorica. In quel momento storico dominato dall’egemonia dell’arte concettuale e minimalista, dove la fotografia veniva in prevalenza utilizzata come strumento di registrazione neutrale al servizio di operazioni concettuali o come documento dell’effimero delle performance, Wall intraprende una strada del tutto controcorrente, scegliendo di riempire la cornice luminosa con elaborati scenari urbani o domestici, densi di dettagli e riferimenti alla storia dell’arte. A questo modo l’artista, al cui attivo si ascrivono, oltre alle sperimentazioni pittoriche giovanili già accennate, anche studi approfonditi sulla pittura e sulla cultura europee del XIX secolo (i suoi riferimenti dichiarati spaziano da Manet a Delacroix, a Velázquez, alla letteratura di Franz Kafka e Ralph Ellison, solo per citare qualche esempio), arriva a sintetizzare la cifra caratteristica dei suoi enigmatici tableaux, ovvero la loro sospensione in una temporalità e in un piano di realtà indecidibili.

Jeff Wall, The Thinker (1986; lightbox, 211 x 229 cm). Su concessione dell'artista
Jeff Wall, The Thinker (1986; lightbox, 211 x 229 cm). Su concessione dell’artista
Jeff Wall, The Drain (1989; lightbox, 229 x 290 cm)
Jeff Wall, The Drain (1989; lightbox, 229 x 290 cm). Su concessione dell’artista e White Cube
Jeff Wall, Morning Cleaning, Mies van der Rohe Foundation, Barcelona (1999; lightbox, 187 x 351 cm). Su concessione dell'artista
Jeff Wall, Morning Cleaning, Mies van der Rohe Foundation, Barcelona (1999; lightbox, 187 x 351 cm). Su concessione dell’artista
Jeff Wall, After 'Invisible Man' by Ralph Ellison, the Prologue (1999-2001; lightbox 174 x 250,5). Su concessione dell'artista
Jeff Wall, After ’Invisible Man’ by Ralph Ellison, the Prologue (1999-2001; lightbox 174 x 250,5). Su concessione dell’artista
Jeff Wall, Boxing (2011; stampa lightjet, 215 x 295 cm). Su concessione dell'artista
Jeff Wall, Boxing (2011; stampa lightjet, 215 x 295 cm). Su concessione dell’artista
Jeff Wall, Woman with a necklace (2021; stampa alla gelatina d'argento, 163,6 x 227,6 cm). Su concessione dell'artista
Jeff Wall, Woman with a necklace (2021; stampa alla gelatina d’argento, 163,6 x 227,6 cm). Su concessione dell’artista
Jeff Wall, Informant. An occurrence not described in chapter 6, part 3 of Últimas tardes con Teresa by Juan Marsé, (2023; stampa a getto d'inchiostro, Inkjet print 136,3 x 141 cm). Su concessione dell'artista
Jeff Wall, Informant. An occurrence not described in chapter 6, part 3 of Últimas tardes con Teresa by Juan Marsé (2023; stampa a getto d’inchiostro, Inkjet print 136,3 x 141 cm). Su concessione dell’artista

Laddove i fotografi di strada si aggirano nelle metropoli in attesa che la realtà offra loro una configurazione visiva significante da catturare in una frazione di secondo, Wall procede in direzione opposta: studia nel dettaglio le scene della realtà ordinaria che lo colpiscono, le immagazzina nella memoria e poi le ricostruisce con metodica artificiosità, chiedendo a persone provenienti dai contesti sociali e ambientali che intende restituire di reiterare azioni a loro familiari fino a far emergere quella particolare conformazione formale ed emotiva atta a rappresentarli. In questo senso, la sua pratica appare paradossalmente più simile a quella di un pittore ottocentesco come Courbet, che costruiva le proprie composizioni realistiche in studio a partire da una paziente progettazione, che a quella di un fotografo documentario à la Cartier-Bresson concentrato nella cattura dell’istante decisivo da assurgere a testimonianza immediata del reale. L’approccio meditativo e processuale di Wall, che può richiedere settimane o mesi per la realizzazione di un singolo scatto, apre inedite possibilità formali e drammatiche per immagini che, nelle sue parole, “contemplano gli effetti e i significati delle fotografie documentarie”. Tale effetto viene amplificato dal grande formato che, all’epoca in cui Wall iniziò ad adottarlo in maniera sistematica, non era affatto scontato nel campo della fotografia artistica, per gran parte del XX secolo ancora intrinsecamente legata alla dimensione tascabile, adatta alla conservazione in album o alla circolazione postale.

L’aspirazione ambientale di Wall, condivisa da altri artisti contemporanei quali Andreas Gursky, Thomas Struth o Candida Höfer, rivendica per la fotografia la possibilità di occupare intere pareti museali, trasformandola da oggetto da guardare a distanza ravvicinata in ambiente attraversabile, avvicinandola così all’esperienza della pittura murale o dell’installazione ambientale. La dimensione installativa costituisce un elemento cruciale per situare la pratica di Wall nel contesto a lui coevo e per rilevarne le specificità. Da un lato le sollecitazioni percettive attivate dai suoi allestimenti fotografici si possono ricondurre ad altre tipologie di opere fondate sul coinvolgimento corporeo dello spettatore, come i box luminosi di Dan Flavin, le strutture geometriche di Donald Judd, gli ambienti di James Turrell, tutti artisti che negli stessi anni iniziavano a indagare il rapporto tra luce, spazio, architettura e percezione. Dall’altro, dove queste pratiche svuotavano l’oggetto artistico di ogni contenuto rappresentativo per concentrarsi sulla pura esperienza fenomenologica, Wall riempie le immagini di narrazioni sottotraccia, di strati semantici sovrapposti, di enigmi interpretativi, sperimentando una sintesi inedita tra la materialità minimalista e la densità iconografica della tradizione pittorica. La complessità interpretativa delle immagini di Wall deriva in larga misura da quella che lui stesso definisce la dimensione “aperta” delle sue fotografie, la loro costitutiva resistenza a offrire soluzioni univoche, a chiudere il processo ermeneutico in una lettura definitiva: ogni immagine presenta scenari possibili, ma mai del tutto decifrabili, situazioni congelate nel momento culminante di un’azione di cui non conosciamo né l’origine né l’esito, personaggi i cui sguardi, gesti e posture suggeriscono molteplici narrazioni senza mai confermarne alcuna in via definitiva.

I prossimi mesi offrono un’interessante doppia opportunità di confrontarsi con il lavoro di questo maestro di calibro internazionale per la compresenza di due mostre parallele che, pur condividendo l’impostazione di fondo, essendo entrambe retrospettive di una ricerca pluridecennale, propongono curatele e prospettive diverse, in produttivo dialogo. A Torino, alle Gallerie d’Italia, la mostra Jeff Wall. Photographs curata da David Campany presenta un percorso di ventisette opere dagli anni Ottanta al 2023, con particolare attenzione all’evoluzione dei lightbox e alle modalità in cui essi trasformano il rapporto tra immagine e spettatore. Qui il grande formato emerge come apparato scenico che amplifica il potenziale narrativo della fotografia: scene quotidiane diventano apparizioni quasi oniriche, sospese in un’ambiguità temporale che, come spesso accade nella produzione di Wall, istiga a interrogarsi su ciò che precede e ciò che segue il momento rappresentato. Le referenze pittoriche e letterarie sono poste in primo piano – si pensi alla declinazione del Pensatore di Rodin (The Thinker, 1986) o alla trasposizione dell’incipit dell’Invisible Man di Ralph Ellisonn (After “Invisible Man” by Ralph Ellison, the Prologue, 1999-2001) – e l’allestimento accentua questa dialettica tra immaginazione e documentazione, mostrando come la fotografia per Wall si configuri come un sistema simbolico articolato, radicato nella storia delle immagini. A Bologna, al MAST, la mostra Living, Working, Surviving, curata da Urs Stahel nell’ambito della settima edizione della Biennale Foto/Industria, affronta invece un nucleo tematico connesso al lavoro, al quotidiano, ai gesti minimi che definiscono la vita domestica e professionale di una pluralità di soggetti. Anche qui troviamo lightbox e stampe di grande formato, ma la selezione privilegia opere in cui la dimensione sociale – sempre trattata da Wall con uno sguardo non giudicante, attento più alla complessità delle situazioni che alla loro esemplarità simbolica – acquisisce priorità. Figure marginali, interni industriali, spazi di transito e scenari suburbani compongono un paesaggio umano spietato e commovente al tempo stesso, attraversato da microstorie che sondano le soglie e le zone di tensione della contemporaneità.

Jeff Wall, The Well (1989; lightbox, 228,92 x 177,8 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Glenstone Museum
Jeff Wall, The Well (1989; lightbox, 228,92 x 177,8 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Glenstone Museum
Jeff Wall, Volunteer (1996; stampa alla gelatina d'argento, 221,62 x 313,06 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Glenstone Museum
Jeff Wall, Volunteer (1996; stampa alla gelatina d’argento, 221,62 x 313,06 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Glenstone Museum
Jeff Wall, Housekeeping (1996; stampa alla gelatina d'argento, 200 x 262 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Hauser & Wirth
Jeff Wall, Housekeeping (1996; stampa alla gelatina d’argento, 200 x 262 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Hauser & Wirth
Jeff Wall, Overpass (2001; lightbox, 233.7 x 292.7 x 29.8 cm) (incorniciato) © Jeff Wall. Su concessione di Private Collection Gagosian
Jeff Wall, Overpass (2001; lightbox, 233.7 x 292.7 x 29.8 cm) (incorniciato) © Jeff Wall. Su concessione di Private Collection Gagosian
Jeff Wall, Dressing Poultry (2007; lightbox, 201,5 x  252 x 20 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Cranford Collection, London
Jeff Wall, Dressing Poultry (2007; lightbox, 201,5 x 252 x 20 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Cranford Collection, London
Jeff Wall, Men move an engine block (2008; stampa alla gelatina d'argento, 136 x 174 cm) © Jeff Wall. Su concessione dell'artista e White Cube
Jeff Wall, Men move an engine block (2008; stampa alla gelatina d’argento, 136 x 174 cm) © Jeff Wall. Su concessione dell’artista e White Cube
Jeff Wall, Weightlifter (2015; stampa alla gelatina d'argento, 239 x 300,5 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Gagosian
Jeff Wall, Weightlifter (2015; stampa alla gelatina d’argento, 239 x 300,5 cm) © Jeff Wall. Su concessione di Gagosian

Il confronto tra le due mostre restituisce con efficacia la coerenza e la solidità “strutturale” di un artista che da quarant’anni non ha mai smesso di interrogare lo statuto dell’immagine: se Torino privilegia la dimensione formale e citazionale del suo lavoro, Bologna enfatizza la sua attenzione ai temi della fragilità della condizione umana, della relazione tra individuo e luogo, della stratificazione cognitiva depositata nel visibile. Ciò che emerge in entrambe le selezioni è la sua capacità di costruire immagini che non chiudono mai il senso, concepite come finestre aperte non su un aprioristico cono prospettico di albertiana memoria, espressione di un mondo misurabile, conoscibile e controllabile, ma su un universo di possibilità concomitanti, tutte egualmente plausibili e non verificabili.

Nel confrontarsi con esse il visitatore è chiamato a partecipare a un processo di interpretazione attiva, a misurare la propria presenza nello spazio dell’opera, a riconoscere la continuità fra ciò che appare e ciò che rimane fuori campo e, in ultima istanza, a ripensare il rapporto tra fotografia e realtà, immagine e costruzione, percezione e immaginazione. L’opera di Jeff Wall si conferma dunque come una pratica ancora molto efficace nel problematizzare la nostra relazione con il visibile e capace di indurre una postura percettiva lenta, attenta, critica: un esercizio di sguardo e di pensiero che, oggi più che mai, appare necessario.


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