Nel 1958 la famosa rivista americana Life dedica un ampio servizio alla scultrice Louise Nevelson (Kiev, 1899 – New York, 1988) in occasione di Moon Garden Plus One, ovvero di quella mostra tenutasi presso la Grand Central Moderns Gallery che rappresenterà un punto di svolta decisivo per la sua carriera artistica. Immortalata in mezzo alle sue 116 “sculture in scatola” (una installazione ambientale caratterizzata da un bianco e nero fortemente evocativo che invade la scena ad eccezione della sua figura e di alcune sculture circostanti bagnate da un viraggio verde), Louise Nevelson indossa un cappuccio a punta in una rappresentazione teatrale del suo atto creativo come se fosse “una sorta di stregoneria artistica”.
L’anno successivo l’eccentrica Nevelson, a sessant’anni compiuti, durante Art Usa 1959 ospitata al New York Coliseum, vince il premio della scultura assegnatole da una giuria costituita da personalità del calibro di lloyd Goodrich, Charles Cunningham e Clement Greenberg. Nello stesso anno il Museum of Modern Art include il suo lavoro nell’esposizione Sixteen Americans, collocando le opere accanto a nomi importanti come quelli di Jasper Johns, Robert Rauschenberg e Frank Stella. Nel 1962 viene selezionata per rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia nel pieno di quella che può essere considerata una carriera in ascesa che vedrà il lavoro dell’artista acquisito da importanti collezioni di musei internazionali quali il Moma e la Tate.
A lei, “Grande Dame della scultura del XX secolo”, il rinascimentale Palazzo Fava dedica una significativa monografica, la prima sino ad ora a Bologna. Promossa dall’Associazione Genesi in collaborazione con Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Opera Laboratori di Firenze, si inserisce nel programma culturale Genus Bononiae. L’Associazione Genesi, impegnata a tutelare i diritti umani, costituitasi nel 2020 per volontà della presidente Letizia Moratti, nasce con l’obiettivo di affrontare tematiche sociali come la questione femminile, il razzismo, le vittime di genocidio, l’urgenza climatica attraverso il linguaggio universale dell’arte contemporanea: dopo i primi 3 anni in cui ha esposto la propria collezione in diverse sedi in quello che è stato il Progetto Genesi (conclusosi nel dicembre scorso), ha inaugurato da quest’anno un nuovo ciclo volto a riscoprire artisti storicizzati anticipatori di tematiche sociali divenute urgenti. La figura dell’artista ucraina naturalizzata americana, con la quale l’associazione apre questo nuovo capitolo, in occasione anche del centoventesimo anniversario dalla sua migrazione nel Maine per sfuggire al clima persecutorio contro gli ebrei che si stava diffondendo nel paese, anticipa alcuni argomenti particolarmente sentiti dall’ente, dal tema ecologico e del riciclo, a quello della memoria, alla questione femminile affrontata attraverso la sua esperienza personale di donna, madre e poi artista che si autoafferma in una società dominata dagli uomini con un lavoro, citando Germano Celant “femminile e femminista”.
La mostra curata da Ilaria Bernardi non si prefigge d’essere una sintesi dell’operato della Nevelson, quanto un’interpretazione critica della sua arte attraverso una selezione di opere che vanno dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, viste come il risultato di quel processo alchemico che la porta ad attuare un riscatto attraverso il mezzo potente artistico, nonostante la condizione svantaggiata di partenza in quanto donna degli anni Quaranta e quindi percepita come le coetanee subordinata all’uomo e relegata alla gestione della famiglia e alla cura dei figli.
L’atto di prelevare legni scartati ed abbandonati per strada, modificarli, dipingerli di nero bianco e oro, assemblarli e nobilitarli corrispondeva ad atto magico ed evolutivo, a cui lei si era sottoposta e da cui altre donne, per emulazione, potevano prendere esempio per trasformarsi “da vile metallo in oro” e compiere quindi un riscatto sociale. Ed è questo quello che la giovane fa quando si trasferisce col marito Charles a New York dove studia musica, frequenta corsi di teatro e gallerie d’avanguardia; a lui, da cui divorzierà nel 1941, lascia la cura del figlio Mike per seguire le sue ambizioni e andare a studiare in Svizzera ai corsi di Hans Hofmann e intraprendere quindi una serie di viaggi a Salisburgo, in Italia e infine a Parigi, dove visita il Musée de l’Homme che le permette di avvicinarsi all’arte africana e approfondire la conoscenza del Cubismo. Rientrata a New York lavora come assistente di Diego Rivera al murale nella New York Workers School per poi votarsi quasi esclusivamente alla scultura (in un primo momento in terracotta e pietra ispirandosi all’arte precolombiana ma rendendo le opere omogenee grazie a una colatura nera come avverrà con il lavoro ligneo, materiale d’elezione quasi “animato”, tanto da affermare “io parlo al legno e il legno mi risponde”).
Proprio a partire dalle celebri sculture autoportanti dipinte interamente di nero (percepito non tanto come non colore quanto colore totale, nobile che li contiene tutti e che utilizzerà sino alla fine nonostante l’introduzione del bianco e dell’oro), quasi sempre senza titolo, si apre l’esposizione ospitata nelle cinque sale del piano nobile affrescato dai Carracci. Queste opere costituite da objet trouvé di legno di scarto assemblato in modo armonico, dall’aspetto modulare e ripetitivo, con sviluppi verticali e orizzontali formate da scatole accorpate quasi fossero vere e proprie scaffalature al cui interno trovano spazio oggetti, sfere, cubi, sedie, pezzi di tavoli ma anche numeri dalle assonanze cabalistiche, vengono realizzate a partire dagli anni Quaranta e poi in maniera più sistematica nel Cinquanta, assumendo le forme di strutture più complesse, definite successivamente, architetture scultoree (in clima con l’arte monumentale allora in voga); dominate sempre da una evidente frontalità, in un azzeramento cromatico che rende i singoli pezzi omogenei e indistinguibili, quasi a suggerire una sorta di “morte iniziatica” per una loro risemantizzazione in sintonia con la volontà dell’artista di sganciarsi dal ruolo di moglie e madre per nascere a nuova vita. Si tratta di lavori che non raggiungono mai la bidimensionalità della scultura a tutto tondo, quanto piuttosto risultano “quadri scolpiti” costituiti da pieni, vuoti, luci, ombre.
L’idea di lavorare con legni abbandonati sembra esserle scaturita quando si imbatté per strada in un pezzo di legno immerso nel fango, ma in realtà l’attaccamento con questo materiale, che simboleggia l’inizio di una rinascita e l’avvio di un percorso artistico in ascesa, ha un radicamento profondo: il nonno in Ucraina era proprietario di boschi e legnami mentre il padre lavorava nell’edilizia. Negli anni Cinquanta si dice che l’artista avesse accumulato circa 900 pezzi di legno nella casa di Manhattan, tanto che per fare spazio li aveva stipati persino dentro la vasca da bagno. Nella sua autobiografia scrive: “Indosso abiti di cotone per poterci dormire o lavorarci, non voglio perdere tempo... A volte potevo lavorare due, tre giorni e non dormire e non prestavo attenzione al cibo, perché una lattina di sardine, una tazza di tè e un pezzo di pane raffermo mi sembravano talmente buoni”.
Il percorso espositivo dalla sala Giasone prosegue nella sala Rubianesca che accoglie alcuni esemplari delle cosiddette porte in legno realizzate a partire dalla metà degli anni Settanta (ad eccezione di un’opera del 1955 che nasce come prelievo di una porticina, probabilmente di una cantina, poi modificata, che diviene anticipatrice della serie realizzate successivamente). L’artista vi aggiunge oggetti quotidiani come schienali, gambe di sedie, tutti uniformati dal colore nero, e le sospende a parete come se fossero dei veri e propri quadri, a rimarcare la volontà d’elevare ad Arte opere costruite con elementi di recupero. La porta in Alchimia è elemento significativo perché rappresenta l’unione degli opposti, dove materia e spirito si uniscono; ma può anche essere intesa come portale all’interno di un processo trasformativo in cui l’Opus raggiunge la sua conclusione. La porta per la Nevelson diviene al contempo un magnete che raccoglie tutti gli elementi scartati della vita domestica e che corrisponde, quasi come una sineddoche visiva, alla donna tradizionalmente intesa.
La sala Enea presenta differenti tipologie di sculture sempre a parete ma dai volumi piatti privi di elementi aggettanti perché realizzati con scaffali utilizzati dai tipografi, le cui linee geometriche, strutturate e rigorose, rinviano a mondi organizzati e ben ordinati dove sembra non possa esistere ingiustizia. I titoli (come Sky Totem, opera autoportante del 1973 che le affianca), rimandano a elementi naturali, paesaggi e sfere celesti perché secondo la Nevelson la sua ricerca artistica non può prescindere dal legame con la natura, vera e propria ierofania. Nella sala Albani sono invece esposti collage e assemblage in cui, oltre al legno, l’artista impiega altri materiali quali il metallo, il cartone, i giornali, la pellicola di alluminio. Si tratta di opere intime, trasversali, portate avanti dagli anni Trenta sino alla fine, che connotano profondamente l’artista (lei stessa negli ultimi anni era diventata “collage vivente” con i suoi abiti eccentrici, stole sovrapposte, lunghe ciglia finte e gioielli estrosi eseguiti con oggetti di recupero) tanto da dichiarare: “non so se la definizione di scultrice mi si addica: faccio collages. Ricostituisco il mondo smembrato in una nuova armonia”. Queste combinazioni materiche di memoria picassiana e schwitteriana risentono delle avanguardie storiche (Dada in primis). Intorno agli anni Quaranta, frequenta diversi protagonisti delle avanguardie europee rifugiatisi in America a seguito dello scoppio della guerra come Duchamp che nel 1943 la inserirà in una mostra collettiva alla galleria di Peggy Guggenheim. È affascinata dal Surrealismo (“Il Surrealismo era nell’arte che respiravo”), ma anche dal Neoplasticismo e dalla Metafisica.
Nella sala Cesi sono raggruppate inedite acqueforti del 1953 e serigrafie del 1975, che testimoniano una indiscutibile padronanza dei mezzi grafici insieme a una spiccata inventiva (che ritroviamo nei disegni degli anni Trenta, dove si evidenzia l’importanza del rapporto tra corpo e spazio, e del movimento derivato dal Cubismo e dalle esperienze di danza sperimentale con Marta Graham). Nella stessa sala è presente una video-intervista all’artista insieme alle foto della celebre Chapel of the Good Shepard a Manhattan: un ambiente da lei progettato all’interno della chiesa modernista di Saint Peter’s, interamente bianco, con sculture immacolate (“ho voluto creare un ambiente che evocasse un altro luogo, un luogo della mente, un luogo dei sensi”). Siamo in quella fase che porterà la Nevelson a passare dalla Nigredo all’Albedo (o Opera al bianco), per terminare nella sala Carracci dove si svolge l’ultimo stadio del processo alchemico, denominato Rubedo. Questo ambiente ospita opere preziose dorate luminose, quasi metafisiche dagli elementi lignei regali, tondi, sferici e quindi più vicini alla perfezione (“L’oro è un metallo che riflette il grande sole…e il legno recuperato nella strada può essere oro”). L’oro è anche un colore che richiama all’artista le antiche icone russe ed ebraiche insieme a suggestioni provenienti da viaggi fatti in Sud America.
Qui si compie il processo alchemico, il ricongiungimento degli opposti, l’unione tra spirito e materia, maschile e femminile in cui, come osserva la curatrice, “al fine di reincorporare l’esperienza femminile della storia, l’artista porta nella scultura ciò che la donna esclusa dalla storia, ha conservato nei millenni: il rapporto magico, alchemico, storico primitivo con il reale”.