A Venezia un viaggio nel tempo con la fotografia. Chronorama, tesori fotografici del XX secolo


Recensione della mostra “Chronorama, tesori fotografici del XX secolo”, a cura di Matthieu Humery (a Venezia, Palazzo Grassi e Punta della Dogana, dal 12 marzo 2023 al 7 gennaio 2024).

Il nome “chronorama” suggerisce uno di quei dispositivi progettati fino all’Ottocento per riprodurre le immagini in movimento. Chrono, il dio del tempo, e -rama, il suffisso greco che riporta alla visione, danno l’idea di una sequenza di foto fatte scorrere velocemente l’una dopo l’altra sfruttando la percezione visiva per suggerire un cambiamento, un movimento, una evoluzione. È questa l’idea che evoca Chronorama. Tesori fotografici del 20° secolo, la mostra allestita a Palazzo Grassi a Venezia fino al 7 febbraio 2024, curata da Matthieu Humery. Una sequenza di 407 opere, principalmente fotografie, ma anche alcune illustrazioni, realizzate da 180 artisti tra il 1910 e il 1979 per le riviste Vogue, Vanity Fair, House & Garden, Glamour, GQ ed altre, ed oggi raccolte nell’archivio fotografico dell’editore Condé Nast, acquisito in parte dalla Pinault Collection, proprietaria di Palazzo Grassi.

“Raccontare il tempo in cui si vive non è sempre facile. Chi è importante? Cosa è rilevante in questo momento? Cosa sta succedendo davvero? Le risposte possono dare adito a dibattiti infuocati”, racconta nell’introduzione Anna Wintour, Chief Content Officer di Condé Nast, e Global Editor Director di Vogue. Se queste domande hanno guidato le scelte dei direttori editoriali che si sono succeduti alla guida di alcune delle riviste più famose del secolo, oggi il loro archivio permette un racconto originale del ventesimo secolo, nell’evoluzione della società, attraverso i cambiamenti della moda e lo sviluppo dello sguardo fotografico.

Ma procediamo per ordine... cronologico, come l’allestimento che presenta le opere divise per decenni, con un approccio quasi scientifico. Del resto, era forse l’unico tentativo possibile di trovare un fil rouge in un archivio immenso quanto variegato. Dalle copertine di moda di George Wolfe Plank che aprono la mostra, si passa rapidamente ai ritratti fotografici dei personaggi dello spettacolo, dal cinema al teatro, ma anche i grandi nomi della letteratura, e della storia del Novecento. Si susseguono volti davvero rappresentativi del secolo scorso: Charlie Chaplin, James Joyce, Henri Matisse, Marlene Dietrich, Jesse Owens, Ernest Hemingway, Mick Jagger, Anna Magnani, Marcello Mastroianni, Karl Lagerfeld, Richard Avedon, Twiggy e tanti altri ancora. Non mancano foto di moda, scatti di architettura, nature morte, e fotoreportage.

Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama
Allestimenti della mostra Chronorama

Volti famosi ed altri meno come La prima donna che indossa pantaloni in pubblico. Dr. Mary Walker come recita la didascalia sul retro di una stampa del 1911 di Paul Thompson di cui racconta anche il podcast Chronorama. Istantanee del Novecento, realizzato da Chora Media per accompagnare la mostra. Una foto scattata per Vanity Fair ma mai pubblicata, probabilmente perché l’editore non era riuscito a contrastare le indicazioni conservative del proprietario Condé M. Nast. Eppure, questa seconda decade del 1900 da cui inizia il racconto della mostra, fu un momento di grande rinnovamento per la società, per la tecnologia, l’arte, la moda. È nel 1913 che per la prima volta il pubblico americano vede Nudo che scende le scale di Marcel Duchamp che cambierà il modo di concepire l’arte; negli stessi anni vengono conosciuti nel mondo i Ballets Russes – fondati nel 1907 da Sergej Djagilev – che cambieranno l’idea di musica, di scenografie e di costume. E così l’étoile Anna Pavlova, considerata da molti la migliore ballerina di tutti i tempi, può entrare di diritto nelle pagine di giornale nella foto di Franz Van Riel del 1917.

Negli anni Venti, quando ancora il mondo sembrava destinato ad una evoluzione positiva, l’ottimismo e la leggerezza, la moda e lo spettacolo diventano protagonisti delle immagini. Emerge Adolf de Meyer, considerato il primo fotografo di moda, ma anche Edward Steichen che in una celebre foto in mostra Modelle sedute sullo yacht di George Baher (1928) ritrae tra le altre Lee Miller che poco dopo diventerà anche lei una celebre fotografa. E in mostra c’è una foto di Joséphine Baker (scattata da George Hoyningen-Huene nel 1927), forse una delle prime ariste di colore a conquistare uno spazio nell’immaginario collettivo.

L’innovazione tecnologica, lo spirito del tempo sono protagonisti ancora negli anni Trenta, dove la foto dell’Empire State Building di Sherill Schell del 1930 presenta il grattacielo che sarà inaugurato solo un anno più tardi. Alcune immagini poi ci ricordano che il secolo scorso non è stato solo quello del consumismo sfrenato, ma anche quello delle più grandi tragedie, quando neanche le riviste più glamour potevano ignorare cosa stesse accadendo in Europa. E così in mostra vediamo le foto di Cecil Beaton, Paternoster Row, London, after bombing (1940) ma anche i reportage di Robert Doisneau e di Lee Miller nella Parigi del 1944.

Poi le immagini cambiano nel primo dopoguerra, di pari passo con un nuovo boom economico le fotografie danno più spazio alla moda, con silhouette femminili nuovamente fasciate da corsetti, architetture ed alle auto di lusso, ma concedendo uno spazio anche ad una ricerca e sperimentazione fotografica ormai chiaramente influenzata dal mondo della pubblicità. Foulard variopinti e minigonne diventano espressione della liberazione sessuale di fine anni Sessanta, pubblicate a fianco alle immagini dei primi viaggi nel cosmo.

“Le riviste pubblicate dal leggendario gruppo editoriale riflettono l’effervescenza di una società che concepisce il tempo come un movimento senza fine, sempre in cerca del nuovo”, dice Bruno Racine, Direttore e Amministratore Delegato di Palazzo Grassi — Punta della Dogana. Se la Storia avesse una pagina Instagram, la immaginerei esattamente così. Ma come i social ci hanno insegnato, non possiamo non interrogarci su quanto queste immagini rappresentano, o meno, in modo oggettivo la realtà.

Strauss-Peyton Studio, Charlie Chaplin, 1921, Vanity Fair © Condé Nast
Strauss-Peyton Studio, Charlie Chaplin, 1921, Vanity Fair © Condé Nast
Paul Thompson, Dr. Mary Walker, the first woman to wear trousers in public, c. 1911, Vanity Fair © Condé Nast
Paul Thompson, Dr. Mary Walker, the first woman to wear trousers in public, c. 1911, Vanity Fair © Condé Nast
Franz Van Riel, Dancers Anna Pavlova and Hubert Stowitts in Near Eastern costumes for the Syrian Dance, 1917, Vogue © Condé Nast
Franz Van Riel, Dancers Anna Pavlova and Hubert Stowitts in Near Eastern costumes for the Syrian Dance, 1917, Vogue © Condé Nast
Adolf De Meyer, Young girl sitting on a small table beside a globe, 1919, Vogue © Condé Nast
Adolf De Meyer, Young girl sitting on a small table beside a globe, 1919, Vogue © Condé Nast
George Hoyningen-Huene, Josephine Baker, 1927, Vanity Fair © Condé Nast
George Hoyningen-Huene, Josephine Baker, 1927, Vanity Fair © Condé Nast

L’idea originaria di Condé Montrose Nast era quella di creare delle riviste per élite, e in questo obiettivo le immagini sono state sempre modificate da un ritocco, che del resto è parte integrante della ricerca fotografica sin dal suo esordio. “La sua legittimità è stata dibattuta sin dagli esordi della fotografia e spesso continua ad essere messa in discussione ancora oggi”, sottolineano Matthiew Henry e Andrew Cowan, consulente storico della mostra, “e non solo in relazione alla perfezione dei corpi che rinforza una immagine distorta dell’ideale femminile”. Infatti, il ritocco nel tempo ha avuto diversi obiettivi: poteva accentuare la drammaticità di una scena, concentrare l’attenzione su un particolare, migliorare il dinamismo dell’immagine, o anche solo giocare con la realtà creando sovrapposizioni surreali.

Il Novecento è stato il secolo dell’immagine e questa mostra racconta come il mondo occidentale abbia costruito passo dopo passo il suo linguaggio per immagini, attraverso sperimentazioni, tentativi, innovazioni. La stretta collaborazione con i fotografi di ogni epoca, che è un elemento fondante dell’identità del gruppo editoriale Condé Nast, ha permesso lo sviluppo di alcuni dei più grandi talenti della fotografia del secolo scorso: Cecil Beaton, Horst P. Horst, Lee Miller, David Bailey, Helmut Newton, ma anche molti italiani come Elisabetta Castiglioni ed Ugo Mulas, che d’intesa con le scelte dell’editore hanno definito l’estetica fotografica del tempo.

“Questi fotografi devono molto ai direttori artistici delle iconiche riviste Condé Nast, i quali sono stati capaci non solo di riconoscerne il talento, ma anche di offrire una vetrina per le loro opere molto prima che fossero acclamati dal vasto pubblico”, dice François Pinault. Il ruolo stesso del fotografo cambia negli anni, grazie anche alle edizioni Condé Nast: se prima erano solo esecutori delle immagini a corredo degli articoli, nel tempo diventano artisti, così riconoscibili da meritare di diventare loro stessi oggetto delle foto, come in Photographers Allan Arbus and Diane Arbus (1950) di Frances McLaughlin-Gill o Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson (1946) di Irving Penn.

Colpisce come molte di queste immagini sono realmente icone del loro tempo: sono quelle più utilizzate per raccontare certi fatti e personaggi e sono così radicate nel nostro immaginario che l’impressione continua è di averle già viste. Non le abbiamo mai viste, però, come in questa mostra dove sono esposti gli originali di ogni foto. Sono stampe d’epoca, il più delle volte le prime stampe mai realizzate per quelle immagini. E portano con sé tutti i segni dell’epoca: didascalie annotate a mano, note dell’editor, segni di ritagli da operare.

Sherril Schell, Empire State Building, New York City, 1930, Vanity Fair © Condé Nast
Sherril Schell, Empire State Building, New York City, 1930, Vanity Fair © Condé Nast
Cecil Beaton, Paternoster Row, London, after bombing, 1940, Vogue © Condé Nast
Cecil Beaton, Paternoster Row, London, after bombing, 1940, Vogue © Condé Nast
Cecil Beaton, Marlene Dietrich, 1932, Vanity Fair © Condé Nast
Cecil Beaton, Marlene Dietrich, 1932, Vanity Fair © Condé Nast
Frances McLaughlin-Gill, Photographers Allan Arbus and Diane Arbus, 1950, Condé Nast Archive © Condé Nast
Frances McLaughlin-Gill, Photographers Allan Arbus and Diane Arbus, 1950, Condé Nast Archive © Condé Nast
Irving Penn, Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson, 1946, Vogue © Condé Nast
Irving Penn, Mr. and Mrs. Henri Cartier-Bresson, 1946, Vogue © Condé Nast
David Bailey, Mick Jagger, 1964, Vogue © Condé Nast
David Bailey, Mick Jagger, 1964, Vogue © Condé Nast

Nell’arte che ha dato il via al dibattito sulla riproducibilità tecnica, vediamo qui invece opere che difendono ancora la propria unicità, come opere d’arte. Il giornalismo è arte? “Certamente” risponde Anna Wintour, ed è lo spirito sotteso a questa mostra in cui le foto sono sottratte al contesto editoriale per cui erano state progettate, e diventano opere d’arte a pieno titolo. Questo certo solleva degli interrogativi sul significato di queste immagini separate dai testi che accompagnavano (o che le accompagnavano), e i curatori Matthieu Humery e Andrew Cowan dicono che “la risposta non è scontata, perché invoca le qualità della fotografia come rappresentazione della realtà...ma sollevano anche ulteriori domande sull’autonomia dell’arte”.

A maggior sostegno di questo punto di vista, le immagini storiche in mostra sono in dialogo con il progetto Chronorama Redux con cui la Fondazione Pinault ha voluto finanziare le opere site specific di quattro artisti Tarrah Krajnak, Eric N. Mack, Giulia Andreani e Daniel Spivakov come interludi che irrompono nel percorso cronologico della mostra principale.

Mi è venuta voglia di correre dentro queste sale così immense e piene, come i protagonisti della celebre scena di Bande à part (Jean-Luc Godard, 1964), e riempirmi gli occhi delle immagini che sembrano fluire come nell’immaginario chronorama o come in quei video realizzati in morphing che raccontano il passaggio del tempo in pochi secondi. E poi di rifare il percorso più volte a velocità diverse, fermarmi su singole foto e perdermi nella storia che raccontano, dilatando l’istante della singola fotografia. E poi tornare a vederla magari dopo qualche giorno, quando la memoria delle immagini si è depositata, per scoprire storie che erano sfuggite. E così scoprire il senso più profondo della fotografia: fermare il tempo, puntellare la storia su singoli istanti.


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