Tempo Barocco: una mostra intelligente in uno dei luoghi più importanti del Seicento a Roma


Recensione della mostra “Tempo Barocco” (a Roma, Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini, fino al 3 ottobre 2021).

A Palazzo Barberini, una delle due sedi delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, fino al 3 ottobre sarà possibile visitare Tempo Barocco, una mostra dedicata al tempo, così come venne indagato, interpretato, raccontato da alcuni dei protagonisti dell’arte barocca.

L’evento è curato da Francesca Cappelletti e da Flaminia Gennari Santori, direttrici, rispettivamente, della Galleria Borghese e delle Gallerie Nazionali di Arte Antica, ed è ospitato nel nuovo spazio espositivo del palazzo romano, allestito al piano terra, in otto sale appena restaurate. La sede è certamente ideale per un’esposizione che tratta di arte del Seicento; peraltro nel celeberrimo affresco realizzato da Pietro da Cortona per decorare la volta del salone dell’edificio, potentissima sintesi dei caratteri principali dell’estetica barocca, compare anche lui, il Tempo, nelle vesti del greco Crono, raffigurato nell’atto di divorare i propri figli. E poi siamo a Roma, in una tra le città più ricche al mondo delle tracce vive del cammino distruttivo e spettacolare del protagonista di questa mostra.

Lungo il percorso sono offerti all’osservazione del visitatore sontuosi orologi seicenteschi e, ovviamente, dipinti e disegni selezionati e disposti in base a cinque temi principali: la figura mitologica del Tempo, l’eterno conflitto tra questo e Amore, la presenza ricorrente di varie personificazioni allegoriche accanto alla figura del Tempo, la Vanitas, e l’intervento dell’artista sul la dimensione temporale degli avvenimenti.

Sala della mostra Tempo Barocco
Sala della mostra Tempo Barocco


Sala della mostra Tempo Barocco
Sala della mostra Tempo Barocco


Sala della mostra Tempo Barocco
Sala della mostra Tempo Barocco


Sala della mostra Tempo Barocco
Sala della mostra Tempo Barocco

Introducono la mostra le riproduzioni di due tavole del Bilderatlas Mnemosyne, la preziosa raccolta di fotografie di opere d’arte, frutto del lavoro dello storico dell’arte tedesco Aby Warburg (Amburgo, 1866 – 1929): la n. 48, Fortuna, e la n.70, Pathos Barocco del Ratto. Nella stessa sala è consultabile anche una timeline che indica i principali eventi storici e artistici degli anni tra il 1605 e il 1665, mentre nell’ambiente successivo è proiettato un breve video che offre ai visitatori una panoramica sul patrimonio barocco di Roma, soffermandosi, a ragion veduta, sul ruolo delle committenze Barberini e Borghese. Nella prima sezione del percorso è esposto un disegno oggi riconosciuto a Giovanni Battista Gaulli (Genova, 1639 – Roma, 1709), degli anni quaranta del XVII secolo e in prestito dal Prado, in cui è raffigurato ciò che prevedeva il progetto originario di Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680) per la sua la Verità marmorea, oggi custodita presso la Galleria Borghese. Bernini concepì l’opera in momento molto complesso della sua vita, dopo l’abbattimento della torre campanaria di San Pietro da lui progettata e l’allontanamento dai grandi cantieri romani da parte di Innocenzo X, eletto nel 1644. In quegli anni, quindi, il maestro progettò la sua rivalsa di marmo: una giovane donna distesa, la Verità, denudata dal padre Tempo che la svela al mondo. Il gruppo scultoreo doveva esprimere la verità dell’innocenza dell’artista davanti alle accuse, per lui intollerabili, di aver commesso gravi errori nella progettazione dei campanili. Tuttavia, l’opera non fu mai completata, e dell’idea originale rimase solo la figura femminile. Il Tempo in volo, così come lo vediamo nel disegno di Gaulli e, più avanti in mostra, anche in due schizzi berniniani di Lipsia, non venne scolpito. Lo troviamo, però, nella tela dell’umbro Gian Domenico Cerrini (Perugia, 1609 – Roma, 1681) della Kassel Gemäldegalerie, ed è ritratto dal pittore mentre fa quello avrebbe dovuto fare anche nella scultura del Bernini, ossia scoprire la Verità, che qui è però abbigliata con una candida veste, e non nuda. La scelta di porre le due opere, il disegno e il dipinto, l’una accanto all’altra è peraltro azzeccata non solo per la ricorrenza, evidente, del medesimo soggetto, ma per la ragione che entrambe conducono nella dimensione personale, nel tempo privato, di Bernini e Cerrini. Quest’ultimo fu infatti mosso, nella realizzazione del quadro, dalle stesse ragioni che ispirarono Gian Lorenzo: lo dipinse dopo essere stato pesantemente criticato per la sua decorazione pittorica della cupola di Santa Maria della Vittoria a Roma, auspicando anche lui una propria piena riabilitazione grazie all’azione rivelatrice del Tempo. La Verità è quindi “filia temporis”, come aveva scritto Aulo Gelio nelle Noctes Atticae, e come continuava ad affermare la saggezza popolare negli anni in cui vissero i due artisti. Ma il Tempo, anche in questa prima sala, non è solo l’anziano Crono-Saturno della tradizione rinascimentale, barbuto e dotato di ali e falce: è anche la presenza, non percepibile dalla vista, che scorre di volto in volto nella splendida tela di Valentin de Boulogne (Coulommiers, 1591 – Roma, 1632), conservata presso la National Gallery di Londra, Le quattro età dell’uomo. In questo capolavoro il pittore francese ritrae un bambino che regge una gabbia vuota, un giovane suonatore di liuto, un soldato assorto in lettura e un elegante uomo anziano che conta delle monete sparse sul tavolo davanti a sé, e li inserisce nell’atmosfera da taverna tanto ricorrente nella pittura caravaggesca di questi anni. Si tratta di un’opera complessa, dalla forte componente intellettuale, realizzata dall’artista verso la fine del terzo decennio del Seicento.

Infine, la tela di Antoon van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641) del Musée Jaquemart-André, Il Tempo taglia le ali all’Amore, datata al 1627, introduce il protagonista dall’ambiente successivo: Amore. E in tale contesto l’opera di van Dyck è tanto più interessante perché si pone in controcorrente rispetto alla tradizione iconografica del periodo, documentata appunto nella seconda sala, che vede quasi sempre il giovane figlio di Venere imporsi su tutto, compreso il Tempo.

Dunque nella sezione successiva incontriamo uno sfarzoso orologio, restaurato proprio in vista di questa mostra, proveniente da una collezione privata romana, e riferibile alla cerchia del cesellatore e scultore francese Andrés-Charles Boulle (Parigi, 1642 – 1732). Si tratta di un manufatto in legno dorato con intarsi in bronzo, tartaruga, ebano e madreperla, che mostra, nella parte inferiore, il vecchio disteso, alato e con in mano una falce sulla cui lama si legge “Dum metiris méteris” (“Mentre misuri vieni falciato”), mentre sopra il quadrante vola Amore che regge la palma della vittoria. D’altronde, da motto virgiliano, “Omnia vincit Amor”: concetto, questo, ribadito anche dalle due tele dei toscani Astolfo Petrazzi (Siena, 1583 – 1665) e Orazio Riminaldi (Pisa, 1593 – 1630). Replicando il soggetto figurativo inventato da Caravaggio con il celeberrimo dipinto Amor vincit omnia, del 1602, oggi allo Staatliche Museen di Berlino, entrambi i pittori ritraggono Amore che indica nature morte di oggetti simboleggianti quelle attività tramite cui gli uomini vorrebbero superare il tempo, guadagnare l’immortalità, ma sulle quali lui, eterno, prevale.

Dalla Galleria Borghese proviene il gioiello di questa sala: l’Allegoria del sonno, una scultura in marmo nero di Alessandro Algardi (Bologna, 1598 – Roma, 1654), che raffigura un putto dormiente con ali di farfalla. Tra i suoi capelli e in un mazzetto che regge in una mano vediamo dei papaveri, su un lato dell’opera compare un ghiro: sono alcuni degli attributi del Sonno, inseriti in osservanza di quanto indicato da Cesare Ripa nella sua Iconologia. La presenza di questa raffigurazione marmorea in mostra è interessante non solo in quanto immagine contaminata di Cupido, ma anche come elemento allegorico connesso al tema del fluire del tempo, nell’alternarsi del giorno e della notte.

Aby Warburg, Mnemosyne, tavola 70: Pathos barocco nel ratto (1927 circa; riproduzione dell’originale; Londra, The Warburg Institute). Ricostruzione di Axel Heil e Roberto Ohrt, 2020 Foto: Tobias Wootton © The Warburg Institute, London
Aby Warburg, Mnemosyne, tavola 70: Pathos barocco nel ratto (1927 circa; riproduzione dell’originale; Londra, The Warburg Institute). Ricostruzione di Axel Heil e Roberto Ohrt, 2020 Foto: Tobias Wootton © The Warburg Institute, London


Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccia, Allegoria del Tempo e della Verità (1646-1647; penna e acquerello marrone su carta, 375 x 186 mm; Madrid, Museo Nacional del Prado) © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado. Madrid
Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, Allegoria del Tempo e della Verità (1646-1647; penna e acquerello marrone su carta, 375 x 186 mm; Madrid, Museo Nacional del Prado) © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado. Madrid


Giovanni Domenico Cerrini, Il Tempo svela la Verità (1666 circa; olio su tela, 127,5 x 171,5 cm; Kassel, Museumslandschaft Hessen Kassel, Gemäldegalerie Alte Meister)
Giovanni Domenico Cerrini, Il Tempo svela la Verità (1666 circa; olio su tela, 127,5 x 171,5 cm; Kassel, Museumslandschaft Hessen Kassel, Gemäldegalerie Alte Meister)


Valentin de Boulogne, Le quattro età dell’uomo (1629 circa; olio su tela, 96,5 x 134 cm; Londra, The National Gallery)
Valentin de Boulogne, Le quattro età dell’uomo (1629 circa; olio su tela, 96,5 x 134 cm; Londra, The National Gallery)


Antoon Van Dyck, Il tempo taglia le ali all’Amore (1627 circa; olio su tela, 187 x 120,5 cm; Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André) © Christophe Recoura
Antoon Van Dyck, Il tempo taglia le ali all’Amore (1627 circa; olio su tela, 187 x 120,5 cm; Parigi, Institut de France, Musée Jacquemart-André) © Christophe Recoura


Cerchia di André-Charles Boulle, su disegno di G. A. Pordenone, Orologio da consolle con il Trionfo di Amore sul Tempo (fine XVII – inizio XVIII secolo; legno, intarsi di tartaruga, ebano, madreperla, bronzo e ottone, 100 x 50  x33 cm; Roma, Collezione Privata). Foto Domenico Ventura
Cerchia di André-Charles Boulle, su disegno di G. A. Pordenone, Orologio da consolle con il Trionfo di Amore sul Tempo (fine XVII – inizio XVIII secolo; legno, intarsi di tartaruga, ebano, madreperla, bronzo e ottone, 100 x 50 x33 cm; Roma, Collezione Privata). Foto Domenico Ventura


Astolfo Petrazzi, Il genio delle Arti (Amore vincitore) (1628; olio su tela, 169 x 117 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) © (MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell'arte/Enrico Fontolan
Astolfo Petrazzi, Il genio delle Arti (Amore vincitore) (1628; olio su tela, 169 x 117 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) © (MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan


Orazio Riminaldi, Amore vincitore (1624-1625; olio su tela, 142 x 112 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina)
Orazio Riminaldi, Amore vincitore (1624-1625; olio su tela, 142 x 112 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina)


Alessandro Algardi, Allegoria del Sonno (1635 – 1639; marmo nero antico, 48 x 90 cm; Roma, Galleria Borghese)
Alessandro Algardi, Allegoria del Sonno (1635 – 1639; marmo nero antico, 48 x 90 cm; Roma, Galleria Borghese)

Proseguendo il percorso si arriva alla terza sezione dell’esposizione, la più ricca, in cui sono ospitate opere grafiche e pittoriche che hanno per protagoniste le allegorie femminili che ricorrono spesso, nel Seicento, associate al Tempo. Un disegno preparatorio e due tele, offrono preziosa testimonianza, qui in mostra, degli affreschi che decorano Palazzo Barberini, e con i quali Andrea Sacchi (Roma, 1599 – 1661) e Pietro da Cortona (Pietro Berrettini; Cortona, 1596 – Roma, 1669) celebrarono Maffeo Barberini, eletto pontefice col nome di Urbano VIII nel 1623, e la sua famiglia.

Il disegno, proveniente dal Kunstpalast di Düsseldorf, è del Sacchi e ritrae la Divina Sapienza, figura centrale di quella che sarà la sua fatica pittorica, l’Allegoria della Divina Sapienza, affresco eseguito sulla volta di una delle sale dell’edificio. Esso è riprodotto in una tela dello stesso artista, qui esposta e appartenente alla collezione delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, che il cardinale Antonio Barberini acquistò nel 1658 per farne dono a papa Alessandro VII. Con l’affresco non mancano le differenze, ma la più evidente è visibile sul trono della Sapienza, sulla cui base, nel dipinto, compare lo stemma Chigi. La pittura della volta era stata conclusa da Sacchi nel 1631 ed esprimeva un concetto fondamentale: nella guida della Chiesa, Urbano era affiancato dalla Sapienza celeste, raffigurata tra molte altre figure allegoriche, tra le quali l’Eternità.

Dal 1632 al 1639 Pietro da Cortona lavorò alla decorazione di un soffitto più ampio e prestigioso, quello del salone del palazzo, e con toni ben più altisonanti si unì al Sacchi nell’esaltare il pontificato Barberini con il suo Trionfo della Divina Provvidenza. In mostra ne vediamo la trasposizione su tela, anch’essa di proprietà delle Gallerie Nazionali romane, realizzata all’interno della cerchia di aiuti del maestro. È evidente che si tratta di una presenza fondamentale nel contesto di un percorso focalizzato sulla cultura barocca, oltretutto un percorso allestito proprio all’interno del palazzo in cui l’affresco fa ancora splendida mostra di sé, perché con esso, come scrive Paola Nicita nella scheda di catalogo della tela, “Pietro da Cortona oltrepassò il sofisticato limite tra realtà e meraviglia e inventò il nuovo linguaggio visivo dell’assolutismo politico, il barocco, rinnovando nel contempo il primato culturale della Roma di Raffaello e Michelangelo”. Nel quadro, e ovviamente nell’enorme opera originale, una moltitudine di figure allegoriche, spesso poco conosciute o addirittura di nuova invenzione, e di personaggi mitologici e storici invade prepotentemente l’architettura e il cielo, con cui è superato il limite spaziale del soffitto reale. Tra di essi (come già accennato) Crono divora i figli, proprio al di sotto del trono di nuvole della Provvidenza, accanto a lui le Parche tessono, mentre nella parte opposta, su comando della Provvidenza, l’Eternità incorona lo stemma della famiglia regnante, le tre api che il grande storico dell’arte Giulio Briganti, con parole rimaste comprensibilmente celebri, nella sua monografia su Berrettini, definì “rombanti come aerei in formazione”. La gloria dei Barberini è quindi sottratta all’azione distruttrice del Tempo, per volere divino.

Agli sfarzi della vita di palazzo rimandano anche i due disegni che raffigurano, uno più l’altro meno fedelmente, lo specchio realizzato da Ercole Ferrata su progetto di Bernini per la regina Cristina di Svezia, che dopo aver abdicato e aver dimorato in diverse città europee, si stabilì a Roma nel 1655. Il prezioso manufatto è andato perduto, ma sappiamo che l’ex sovrana lo teneva con sé presso l’attuale Palazzo Corsini (altra sede delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica) dove visse per tre decenni, fino alla morte. Entrambi i disegni provengono dal Nationalmuseum di Stoccolma, ed entrambi sono di incerta attribuzione, ma se uno verosimilmente ritrae lo specchio così come si poteva ammirarlo nel palazzo romano, l’altro, in cui vediamo due possenti tritoni fungere da base, è oggi generalmente considerato dagli studiosi una fantasiosa rivisitazione dell’opera ideata da Bernini da parte di un suo seguace. Il foglio che presenta la copia fedele dello specchio ci mostra un’elaborazione più semplice, sebbene non meno affascinante, del soggetto della Verità svelata dal Tempo. L’intuizione alla base è semplice ed efficace, e tutt’altro che lusinghiera: il vecchio alato è colto nell’atto di sollevare, dalla sommità dello specchio, un drappo, lasciando quindi la superficie libera di riflettere l’immagine della regina, sul cui volto era così leggibile, di giorno in giorno, la verità del passaggio degli anni e dell’incombere della fine. Autografi di Bernini sono, invece, i due disegni anch’essi esposti in questa sala, raffiguranti il suo progetto per la Verità oggi alla Galleria Borghese, ai quali si è già accennato.

Non si può, inoltre, non fare cenno ad altri tre splendidi lavori che incontriamo qui: la tela con Le quattro stagioni di Guido Reni (Bologna, 1575 – 1642), dal Museo di Capodimonte, Il Tempo sconfitto dalla Speranza e dalla Bellezza dipinto da Simon Vouet (Parigi, 1590 – 1649), del Prado, e l’ Allegoria del Tempo (o della Vita) di Guido Cagnacci (Santarcangelo di Romagna, 1601 – Vienna, 1663). In quest’ultimo quadro, proprietà dell’antiquario Lampronti Gallery di Londra, il grande pittore romagnolo (di cui peraltro a Palazzo Barberini è esposta, in collezione permanente, una superba Maddalena penitente) ritrae una giovane donna, nuda fino al grembo, che regge con una mano una rosa e un soffione, simboli, assieme all’avvenente corpo femminile, della transitorietà dei piaceri mondani, e con l’altra una clessidra, perenne ricordo del tempo che corre, posto non casualmente al di sopra di un teschio. La donna volge lo sguardo in alto verso un ouroboros, il serpente che mangia la propria coda, immagine di quell’eternità alla quale, suggerisce la tela, si può aspirare solo liberandosi dalle zavorre delle cose terrene. Sul medesimo soggetto, sempre dando spazio a quella marcata sensualità che contraddistingue la sua produzione, Cagnacci tornò più volte nel corso della propria carriera.

“Vanitas vanitatum et omnia vanitas” (“Vanità delle vanità e tutto è vanità”) è l’incipit dell’Ecclesiaste, e da qui deriva il termine con cui viene indicato un tema molto trattato dall’arte pittorica del XVII secolo, quello, appunto, della Vanitas,a cui è dedicata la penultima sezione della mostra. Ciò che quadri di questo genere esprimono è un’amara riflessione sulla fragilità della condizione umana, sul tragico destino dell’uomo che è invariabilmente condannato a cessare di esistere, riflessione che si manifesta nella raffigurazione di nature morte di oggetti vari, accanto ai quali compaiono teschi, candele, orologi, clessidre, insetti, o frutti marci, o fiori avvizziti, a ricordare l’inevitabile caducità di ogni cosa.

Tre dei quattro dipinti esposti in questa sala furono eseguiti agli inizi del Settecento dal pittore tedesco Christian Berentz (Amburgo, 1658 – Roma, 1722), e provengono dalla sede Corsini delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma. Le raffinate nature morte di Berentz riscossero un notevole successo nelle città papale, grazie all’abile precisione imitativa del vero e a una grande sensibilità compositiva, evidenti anche nelle opere in mostra. Tutte e tre le tele raffigurano tavole imbandite; in una di esse accanto a preziosi cristalli e ceramiche è abbandonato, eloquente, un orologio.

E parlando di eloquenza, nel centro dell’ambiente un orologio reale, e più vecchio delle pitture di Berentz di oltre mezzo secolo, è visibile, tra gli altri, in tutto il suo peculiare fascino. Si tratta di un manufatto seicentesco in cristallo, oro, smalti, perle e pietre preziose, progettato da Christian Giessenbeck (attivo ad Augusta 1640 - 1660), anch’esso tedesco, e custodito a Zurigo dallo Schweizerisches Nationalmuseum. Su di un quadrante che ruota è posto uno scheletro coronato di alloro, la Morte trionfante, che indica l’ora con una lunga freccia. Al di sotto è possibile vedere gli ingranaggi del meccanismo attraverso il cristallo del cilindro in cui sono inseriti. Particolarmente ricca è la parte inferiore di questo piccolo tesoro, in cui una fascia circolare decorata da fiori smaltati, perle e pietre sovrasta dei piedini di teschi e ossa.

Andrea Sacchi, Allegoria della Divina Sapienza (1655-1658; olio su tela, 160 x 208 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) © (MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell'arte/Enrico Fontolan
Andrea Sacchi, Allegoria della Divina Sapienza (1655-1658; olio su tela, 160 x 208 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) © (MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan


Scuola di Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza (post 1639; olio su tela, 168 x 113 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) ©(MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell'arte/Enrico Fontolan
Scuola di Pietro da Cortona, Trionfo della Divina Provvidenza (post 1639; olio su tela, 168 x 113 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) ©(MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan


Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo (1646; gessetto su carta, 252 x 369 mm; Lipsia, Museum der Bildenden Künste)
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo (1646; gessetto su carta, 252 x 369 mm; Lipsia, Museum der Bildenden Künste)


Artista attivo a Roma intorno al 1685, Disegno per uno specchio con il Tempo alato sostenuto da due Tritoni (1668 circa; penna e acquerello marrone su carta filigranata, 392 x 260 mm; Stoccolma, Nationalmuseum) © Foto: Linn Ahlgren/Nationalmuseum
Artista attivo a Roma intorno al 1685, Disegno per uno specchio con il Tempo alato sostenuto da due Tritoni (1668 circa; penna e acquerello marrone su carta filigranata, 392 x 260 mm; Stoccolma, Nationalmuseum) © Foto: Linn Ahlgren/Nationalmuseum


Nicodemus Tessin il Giovane, Copia dello specchio per la regina Cristina di Svezia di Bernini (1680 circa; tracce di grafite, penna e inchiostro grigio acquerellato su carta, 404 x 272 mm; Stoccolma, Nationalmuseum © Foto: Hans Thorwid/Nationalmuseum
Nicodemus Tessin il Giovane, Copia dello specchio per la regina Cristina di Svezia di Bernini (1680 circa; tracce di grafite, penna e inchiostro grigio acquerellato su carta, 404 x 272 mm; Stoccolma, Nationalmuseum © Foto: Hans Thorwid/Nationalmuseum


Guido Reni, Le quattro stagioni (1617-1620; olio su tela, 175 x 230 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)
Guido Reni, Le quattro stagioni (1617-1620; olio su tela, 175 x 230 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte)


Simon Vouet, Il Tempo sconfitto dalla Speranza e dalla Bellezza (1627; olio su tela, 107 x 142 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado) © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado. Madrid
Simon Vouet, Il Tempo sconfitto dalla Speranza e dalla Bellezza (1627; olio su tela, 107 x 142 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado) © Photographic Archive. Museo Nacional del Prado. Madrid


Guido Cagnacci, Allegoria del Tempo (o della vita umana) (1650 circa; olio su tela, 118,2 x 95,3 cm; Lampronti Gallery)
Guido Cagnacci, Allegoria del Tempo (o della vita umana) (1650 circa; olio su tela, 118,2 x 95,3 cm; Lampronti Gallery)


Christian Berentz, Lo spuntino elegante (siglata e datata 1717; olio su tela, 52 x 67,5 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) ©(MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell'arte/Enrico Fontolan
Christian Berentz, Lo spuntino elegante (siglata e datata 1717; olio su tela, 52 x 67,5 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) ©(MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan


Christian Giessenbeck, Orologio con scheletro (1640–1660; oro, smalti e pietre preziose, altezza 10 cm; Zurigo, Museo Nazionale Svizzero)
Christian Giessenbeck, Orologio con scheletro (1640–1660; oro, smalti e pietre preziose, altezza 10 cm; Zurigo, Museo Nazionale Svizzero)

Arriviamo, quindi, all’ultima sala dell’esposizione che chiude il percorso con un’opportuna riflessione sul rapporta tra tempo e artista, e sulla necessità del secondo di governare il primo. Se, infatti, la teatralità, e la capacità di suscitare stupore, di coinvolgere emotivamente lo spettatore sono tra le caratteristiche più note e immediatamente percepibili dell’arte barocca, esse presuppongono l’abilità ideativa ed esecutiva di fermare il tempo della storia al suo apice espressivo, attraverso un’efficace resa del movimento, sia che si scelga di raffigurare un unico significativo istante di ciò che viene narrato, sia che si ritraggano più momenti l’uno accanto all’altro.

Di fondamentale importanza, in questa sala, è la presenza del dipinto Il ratto delle Sabine di Pietro da Cortona, prestato dai Musei Capitolini, che ancora Briganti definì “la prima spettacolare dichiarazione dei metodi del Barocco romano in pittura”. Eseguita un decennio prima della conclusione del ciclopico affresco Barberini, la grande tela mostra una scena sovraffollata di figure disposte su più piani in profondità, pervasa da un moto centrifugo e drammatico. L’episodio è rivisitato dal Berrettini accostando al momento del ratto vero e proprio, che si svolge in primo piano, quello precedente in cui Romolo, ammantato di rosso tra le colonne di sinistra, dà ordine ai suoi uomini di rapire le sabine. Nell’ancora più vasto quadro di Andrea Camassei (Bevagna, 1602 – Roma, 1649), raffigurante la Strage dei Niobidi, della collezione di Palazzo Barberini, la tragedia dell’uccisione dei quattordici figli della regina Niobe, così punita da Diana e Apollo per la sua superbia, si consuma davanti ai noi nella sua interezza, tutta in un’unica scena.

Ancora, nella Morte di Cleopatra, dipinta da Cagnacci negli anni sessanta del Seicento e proveniente dal Kunsthistoriches Museum di Vienna, si assiste alla messa in scena di tutti i sentimenti suscitati dalla morte di Cleopatra nelle sue ancelle, in cui il pittore declina la figura di una stessa modella: sgomento, incredulità, disperazione, rassegnazione si alternano nelle espressioni facciali e nei gesti delle donne disposte attorno al magnifico corpo seminudo della regina.

Pietro da Cortona, Il ratto delle Sabine (1630; olio su tela, 280 x 426 cm; Roma, Musei Capitolini - Pinacoteca Capitolina)
Pietro da Cortona, Il ratto delle Sabine (1630; olio su tela, 280 x 426 cm; Roma, Musei Capitolini - Pinacoteca Capitolina)


Andrea Camassei; Strage dei Niobidi (1638; olio su tela, 300 x 410 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) ©(MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell'arte/Enrico Fontolan
Andrea Camassei, Strage dei Niobidi (1638; olio su tela, 300 x 410 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica) ©(MiC) - Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte/Enrico Fontolan


Guido Cagnacci, Morte di Cleopatra (1661-1662; olio su tela, 153 x 169 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gëmaldegalerie) ©KHM-Museumsverband
Guido Cagnacci, Morte di Cleopatra (1661-1662; olio su tela, 153 x 169 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gëmaldegalerie) ©KHM-Museumsverband

Si tratta, per concludere, di una mostra che sceglie e sviluppa bene un tema significativo, interessante filo conduttore di un breve cammino nella ricchezza stilistica e iconografica dell’arte barocca, proponendo una accanto all’altra importanti opere del Seicento, e non pochi capolavori, provenienti dalle stesse Gallerie Nazionali di Roma ma anche dal resto d’Italia e dall’estero, attraverso un percorso chiaro e coerente, capace anche di dialogare (com’era necessario che facesse) con l’edificio ospite. Sono esposte quaranta opere, e la loro scelta, così come la loro collocazione nelle varie sale secondo la strutturazione per argomenti che si è vista, è sempre azzeccata ed efficace.

I pannelli fungono da utile supporto, ed è acquistabile un buon catalogo, edito da Officine Librarie, che consente, a chi lo desideri, di approfondire il contesto storico e artistico in cui le opere in mostra furono realizzate. È inoltre possibile scaricare online o ritirare gratuitamente in biglietteria un album per bambini che contiene una breve guida semplificata alle diverse sezioni del percorso, e, alla fine, alcune pagine pensate per fare disegnare i piccoli visitatori, invitandoli così ad appropriarsi, rielaborandoli liberamente, dei contenuti della mostra.

È forse importante aggiungere che, sebbene sia acquistabile il biglietto per la sola esposizione, al visitatore che non abbia mai percorso le sale di Palazzo Barberini è vivamente consigliato di farlo, anche, ma ovviamente non solo, per apprezzare dal vero una delle più felici espressioni della magniloquenza barocca, Il Trionfo della Divina Provvidenza su cui, come detto, torna doverosamente anche la mostra.


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