Sesso e solitudine sono intrecciati e complementari. Com'è la mostra di Tracey Emin a Firenze


A Firenze, la mostra “Sex and solitude” di Tracey Emin a Palazzo Strozzi ricostruisce il percorso tormentato di un’artista che ha usato il sesso non come provocazione, ma come mezzo per raccontare la propria fragilità, tra tenerezza e sincerità.

In una Firenze che negli ultimi anni sta cercando di rimodulare la sua identità controbilanciando la ricchissima eredità storica di cui è custode con massive incursioni nella contemporaneità (basti pensare alla recente installazione di fronte a Palazzo Vecchio della monumentale scultura dorata di Thomas J. Price, oggetto di molte polemiche), Fondazione Palazzo Strozzi si pone sempre più come centro propulsivo di questo nuovo indirizzo strategico. Dopo Ai Weiwei, Bill Viola, Marina Abramović, Tomás Saraceno, Jeff Koons, Olafur Eliasson, Yan Pei-Ming, Anish Kapoor, Anselm Kiefer ed Helen Frankenthaler, ora gli spazi rinascimentali dell’edificio progettato da Benedetto da Maiano, architetto preferito di Lorenzo il Magnifico, accolgono i lavori di un’altra protagonista indiscussa del panorama internazionale, l’artista britannica Tracey Emin (Croydon, 1963). L’impostazione della mostra, anche in questo caso, è quella canonica della fondazione, ovvero il ritratto di una personalità artistica di rilievo (in grado, quindi, di intercettare sia il pubblico locale sia la folla di turisti che da ogni provenienza arrivano in città) attraverso una selezione di opere trasversale a fasi diverse del suo percorso creativo, calibrata in modo da rappresentare le principali sfaccettature della sua poetica. Altro elemento imprescindibile di tutte le esposizioni, il dialogo con l’architettura storica e, dall’intervento esterno di JR realizzato nel 2021 come riflessione sull’accessibilità ai musei nell’epoca del Covid-19, la presenza di un’opera ambientale fruibile anche da chi non accede alla mostra.

Questo format (non a caso il direttore generale Arturo Galansino, curatore di Strozzi, definisce “prodotti culturali” i progetti espositivi da lui realizzati) si discosta sia dalla mostra istituzionale di documentazione o ricerca e sia dalla cosiddetta mostra blockbuster confezionata al fine di emozionare un pubblico, per lo più generalista, proponendo un’esperienza spettacolare standardizzata. Questo dualismo di riferimenti è anche eloquente espressione dell’identità di Fondazione Palazzo Strozzi, modello virtuoso di parternariato tra pubblico e privato, nato per supplire alle carenze dei finanziamenti pubblici nel settore culturale. Per la maggior parte (il 75%, come dichiarato dal presidente Giuseppe Morbidelli in conferenza stampa), infatti, la fondazione si regge sulle proprie forze, sostenendosi con gli introiti derivati dalla vendita dei biglietti e dal marketing, in aggiunta a risorse provenienti da sponsorizzazioni e atti di mecenatismo. Il tutto sotto la regia di quella che si sta imponendo come la figura curatoriale più richiesta, ovvero un manager con competenze aziendalistiche e amministrative, efficiente nel crowdfunding, nella ricerca di sponsor e nel dialogo con enti pubblici e gallerie, oltre che esperto di storia dell’arte. A lui, dunque, il compito di orchestrare, in parallelo alla definizione della mostra, una nutrita cordata di sostenitori, tra cui il Comune, la Camera di Commercio e la Cassa di Risparmio di Firenze, la Fondazione Sanpaolo, Fondazione CR e Maison Gucci, i cui sforzi convergono affinché Palazzo Strozzi, di recente assegnato dal Demanio dello Stato al Comune di Firenze, diventi a tutti gli effetti un polo di arte e cultura attraverso eventi espositivi importanti che richiedono una programmazione pluriennale.

Rispecchia questo delicato equilibrio tra istanze diverse il carattere della mostra, più disinvolto rispetto a un progetto istituzionale nell’individuare un percorso espositivo coinvolgente che si prefigge la completezza senza aspirare all’esaustività, accreditato (a differenza delle mostre commerciali) da un attento approfondimento documentativo e tematico preliminare incentrato sulle specificità dell’artista. È sempre notevole poi la qualità e la significatività delle opere ottenute in prestito, seppur di regola provenienti da un ristretto ventaglio di prestatori, tra cui prevalgono collezionisti privati (alcuni menzionati nel catalogo, altri anonimi) e gallerie, qui White Cube (Londra, Hong Kong, New York, Parigi, Seoul), Xavier Hufkens Gallery (Bruxelles) e Lorcan O’Neill (Roma, Venezia).

Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025
Allestimenti della mostra Tracey Emin. Sex and solitude. Foto: Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

Il viaggio nell’universo creativo di Tracey Emin inizia dunque all’esterno di Palazzo Strozzi, con il neon Sex and Solitude (2025) collocato sopra all’arco di ingresso del cortile centrale, appena sopra alla ghiera di pietre sagomate che enfatizza la volta. Questa scelta anticipa quella che per molti potrebbe essere una scoperta, ovvero l’analoga importanza che l’artista dà alla presenza nel lavoro della sua calligrafia in corsivo rispetto alla pittura, l’ambito per cui è soprattutto conosciuta oggi al di là delle opere “di rottura” del suo chiacchierato debutto londinese nell’alveo degli Young British Artists (YBA). Tale etichetta (coniata da Michael Corris su Artforum, nel 1992) definisce un gruppo eterogeneo di artisti britannici emersi negli anni Novanta, accomunati dall’apertura verso materiali non tradizionali, anche di scarto, e da processi che rielaboravano in modo provocatorio l’eredità della Pop art, dell’arte concettuale e del minimalismo, oltre che da comportamenti scioccanti e dalla frequente inserzione nel lavoro di elementi personali tratti dalle loro vite sregolate. La carriera di molti di questi artisti, che cominciarono a esporre assieme nel 1988 per iniziativa di Damien Hirst (tra i leader riconosciuti del gruppo, assieme alla stessa Tracey Emin) all’interno di un magazzino abbandonato a Londra, venne fin dall’inizio sostenuta dal collezionista Charles Saatchi, che nel 1985 aveva aperto la propria galleria. Oltre a questo influente patrocinio, la ragione della clamorosa rapidità con cui il movimento si impose a livello internazionale nel decennio successivo fu l’attenzione dedicata dai media generalisti e di settore all’atteggiamento radicale dei suoi membri, che ne favorì la notorietà non solo presso alcuni dei principali attori del sistema dell’arte inglese, ma anche presso un pubblico più vasto.

Intorno al gruppo fiorì in poco tempo una vera e propria mitografia fondata sull’antagonismo e sulla trasgressione, che ha garantito ad alcuni dei membri lo status di celebrità. Un ulteriore canale di promozione era rappresentato dal Turner Prize, la principale competizione artistica britannica, rilanciato in quel periodo dopo un arresto di qualche anno, in partnership con l’emittente televisiva Channel Four. Il premio è stato tributato ad alcuni dei principali artisti del gruppo: Rachel Whiteread (1993), Damien Hirst (1995), Gillian Wearing (1997), Chris Ofili (1998), Mark Wallinger (2007). All’inizio del 2000, inoltre, è avvenuta la definitiva inclusione degli YBAs nell’establishment dell’arte inglese, sancito ufficialmente dalla nomina ad accademici reali di Gary Hume (2001), Fiona Rae (2002), Tracey Emin, Jenny Saville, Gillian Wearing (2007) e Michael Landy (2008). Se Hirst agli esordi sconcertava per l’introduzione nelle sue opere di animali morti, Lucas per la realizzazione di sculture con cibo fresco, sigarette o collant da donna e Ofili per l’incorporazione nella pittura di letame di elefante, per molto tempo anche il lavoro di Emin venne tacciato di autoreferenzialità e considerato espressione di uno sfacciato narcisismo per l’insistenza autobiografica sulla tematica sessuale. In realtà, come sembra voler ammonire l’artista con il neon a Strozzi posizionato proprio sulla soglia della mostra più significativa a lei dedicata in Italia dopo il Padiglione della Gran Bretagna nel 2007 alla 52esima Biennale Arte di Venezia, il sesso in quanto tale non è mai stato per lei un veicolo di provocazione. L’assoluta centralità nella sua poetica di una carnalità estroflessa e totalizzante non nasce dall’urgenza di sbraitare le proprie vicende private, ma da un approccio all’arte da sempre consustanziale alla sua tutt’altro che facile esistenza, turbolenta e segnata da episodi di aggressività subita.

Il corpo da lei agito, disegnato, modellato, dipinto, deformato nella plastica e dissolto nel colore è approcciato come campo di battaglia di un’arte cruda che sublima la fragilità individuale affrontando argomenti, come la violenza, l’aborto, il sesso non consapevole tra teenager, il dolore, la passione, l’amore e la dipendenza, di cui è ancora necessario discutere in ogni parte del mondo. Il fatto di scegliere come intro alla mostra un’opera testuale, di matrice concettuale nonostante la perentorietà dei concetti richiamati dalle due parole luminose (entrambi cruciali nella sua poetica) sembra opporsi marchio di enfant terrible che a suo avviso ha a lungo offuscato la sua reputazione di artista. Secondo Tracey Emin, sesso e solitudine nella percezione umana sono intrecciati e complementari, e quest’ultima è fondamentale per dare una prospettiva alla creazione, svincolandola da deviazioni troppo soggettive. Entrando nel cortile, si incontra I Followed You To the End (2024), grande bronzo oggetto di una complessa installazione dall’alto qualche notte prima dell’inaugurazione, punto di partenza del percorso espositivo fruibile, come sempre, anche da chi non visiterà la mostra. La forma in apparenza astratta della scultura gradualmente si precisa allo sguardo come la parte inferiore di un corpo femminile prostrato in ginocchio, un corpo collassato e mutilo che sovverte l’abituale impostazione eroica dei monumenti celebrativi in bronzo, di solito dedicati a personalità maschili erette e dominanti. La superficie ruvida del metallo mostra ancora le impronte lasciate nell’artista nel modello in creta, di cui è preservata tutta l’emotività.

Tracey Emin, Sex and Solitude (2025; neon, 106 × 804 cm). Su concessione dell'artista e di White Cube. Foto: OKNO Studio© Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
Tracey Emin, Sex and Solitude (2025; neon, 106 × 804 cm). Su concessione dell’artista e di White Cube. Foto: OKNO Studio© Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
Tracey Emin, I Followed You To The End (2024; bronzo patinato, 260 × 690 × 393 cm; Wassenaar, Museum Voorlinden)
Tracey Emin, I Followed You To The End (2024; bronzo patinato, 260 × 690 × 393 cm; Wassenaar, Museum Voorlinden)

Questo corpo, reso sorprendentemente più vulnerabile dalla grande scala, corrisponde a un recente cimento dell’artista nell’ambito della scultura pubblica, con produzioni importanti anche dal punto di vista tecnico ed economico, come The Mother (2021) affacciata sul fiordo di Oslo con la schiena rivolta verso la nuova sede del Munch Museum. Nel realizzare le sue opere di arte pubblica l’artista parte da modelli plasmati manualmente, che sembrano trattenere nelle irregolarità della materia la trama dei suoi gesti, evidente nel piccolo come nel grande formato. Al piano superiore, in mostra, troviamo (oltre a un’altra grande scultura analoga per tipologia a quella nel cortile) diversi esempi della produzione scultorea di Emin di piccolo formato. Bellissimi alcuni bronzetti per l’immediatezza della loro espressività vibratile nella luce, rispecchiata dai titoli diretti e autobiografici, un po’ più statica la serie di sculture in bronzo patinato bianco in cui alcune figure umane e animali abbozzate in miniatura emergono da ingombranti basamenti sui quali i titoli in stampatello appaiono come epigrafi testuali. Ancora una volta la parola scritta accoglie il visitatore all’ingresso della mostra, con il neon alto quattro metri e mezzo Love Poem for CS (2007), un messaggio d’amore doloroso in versi da lei composto negli anni Novanta per l’ex fidanzato, il gallerista Carl Freedman. L’artista utilizza il mezzo del neon in modo espressivo piuttosto che concettuale, rielaborando in chiave emozionale quella che è una delle icone pop per eccellenza, in quanto elemento visivo emblematico della città contemporanea. In effetti, le insegne al neon che hanno ispirato le scritte luminose di Emin non sono quelle di una metropoli, ma del paesaggio urbano di Margate, cittadina balneare povera in cui l’artista è cresciuta e dove ora è tornata stabilendo lì il principale dei suoi studi, affiancato da una scuola d’arte gratuita da lei diretta e da alcuni laboratori dati in concessione ad artisti.

L’atmosfera ferinamente provinciale di quel luogo è all’origine di tanta parte del disagio e della turbolenza della giovane Tracey, come di molti suoi lavori. Ad esempio, le fusioni in bronzo degli indumenti per neonati trovati in giro per le strade di Margate, proposti nell’installazione Baby Things nell’ambito della prima Triennale di Folkestone, nel 2008, un’occasione per parlare della tematica delle gravidanze adolescenziali. Si ha, però, l’impressione di arrivare al vivo della questione quando si incontrano i primi spazi in cui finalmente la pittura diventa protagonista: una pittura acrilica furente, fisica, istintiva, alternativamente circoscritta e debordante da una linea grafica che riesce a essere delicata nella sua violenza. Il soggetto quasi esclusivo è un corpo nudo femminile in tensione tra presenza e assenza, talvolta intersecato a quello di un amante, colto al culmine di stati esistenziali totalizzanti, come il sesso, la passione e il dolore. L’amore per l’artista è un trauma e la pittura è l’atto fisico benefico che fa defluire la sofferenza e gli umori carnali in una dimensione spirituale, quella dell’arte vissuta come religione laica. Nel grande studio di Margate l’artista lavora anche a venti o trenta tele in contemporanea, magari lasciandole riposare per mesi dopo la prima stesura, per poi completarle all’improvviso aggiungendo un disegno pazzo e caotico sull’imprimitura oppure parole nervose. Come da lei stessa dichiarato in un’intervista rilasciata alla BBC (che nel 2024 l’ha inserita nel suo annuale elenco “100 inspiring and influential women from around the world”), per lei si tratta di guardare, aspettando che la pittura venga in superficie dopo aver raccolto la propria energia, assestandosi da sola.

Tracey Emin, Exorcism of the last painting I ever made (1996; performance / installazione, dimensioni della stanza 350 × 430 × 430 cm). Su concessione di Schroeder Collection e Faurschou Collection © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
Tracey Emin, Exorcism of the last painting I ever made (1996; performance / installazione, dimensioni della stanza 350 × 430 × 430 cm). Su concessione di Schroeder Collection e Faurschou Collection © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025.
Tracey Emin, Hurt Heart (2015; acrilico su tela, 20,3 × 20,3 cm; Melbourne, ACAF, Collection by Yashian Schauble) © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © White Cube (George Darrell)
Tracey Emin, Hurt Heart (2015; acrilico su tela, 20,3 × 20,3 cm; Melbourne, ACAF, Collection by Yashian Schauble) © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © White Cube (George Darrell)

I principali riferimenti di Emin pittrice sono espressionisti storici come Munch e Schiele, ma la sua formazione visiva include anche la pittura rinascimentale e quella classica, da lei studiate alla National Gallery nel periodo in cui frequentava il Royal College of Art a Londra. Rispetto al faticoso espressionismo di tanta pittura contemporanea che si vede in giro alle fiere negli ultimi anni, in cui predomina una figurazione approssimativa e quasi irritante nella sua esibita ignoranza, in quella di Emin la raffinatezza della stratificazione pittorica, pur nella gestualità senza filtri, rivela la sua frequentazione del museo, rispetto al quale non si pone affatto in una posizione di rottura. Il fatto che il suo lavoro attraversi la dimensione umana ed esistenziale in maniera così intensa e viscerale ha spesso indotto i media a riferirlo a una sfera provocatoria e controversa, molto più efficace dal punto di vista sensazionalistico della fragilità di un corpo ferito dalle esperienze che lo attraversano, in cui è la vita a mostrarsi nella sua prosaica crudezza. Vicine al disegno sono anche i calicò ricamati a filo nero che si incontrano a un certo punto della mostra, taglienti nella loro essenziale espressività. Meno interessanti i lavori tessili costituiti da frasi ricamate a punto croce oppure da patchwork di tessuti con scritte applicate, sebbene opportuna testimonianza della propensione dell’artista per lo statement e della sua precocità nell’utilizzare questo medium tradizionale femminile in un periodo in cui non era ancora così diffuso in arte. Molto coinvolgenti, invece, i monotipi in bianco e nero che concludono il percorso espositivo, il cui primitivismo ricorda evoca una certa tragicità nordica. In una mostra determinata nell’intento di creare una visione d’insieme sulla sua carriera più che trentennale, infine, non poteva mancare un riferimento alla produzione giovanile dell’artista, quella che le valse gli onori e i disonori della cronaca (ma anche la notorietà) fin dagli esordi.

Ci sarebbe piaciuto trovare My Bed (1998), opera candidata al Turner Prize nel 1999 che suscitò scalpore a livello internazionale quando venne esposta alla Tate Gallery, a cui l’artista deve la sua fama di ribelle. L’installazione (acquistata nel 2000 da Charles Saatchi per £150.000 e battuta all’asta nel maggio 2014 da Christie’s a Londra per £2,5 milioni a favore di Christian Duerckheim, conte di Colonia) suscitò reazioni triviali, oltre che la performance non autorizzata dei cinesi Cai Yuan e Jiian Jun Xi che vi saltarono sopra. Essa consiste nella presentazione del letto di Emin, sfatto e affollato di oggetti intimi, come preservativi usati, indumenti sporchi, vodka, sigarette, pillole anticoncezionali, assorbenti insanguinati e avanzi di cibo. Questa messa in scena della sua intimità in un periodo di crisi depressiva non aveva per lei alcun intento esibizionista, ma corrispondeva alla volontà di far irrompere come su un palcoscenico alcuni brani non rielaborati di vita, come nascita, sonno, sesso, malattia e depressione. L’opera selezionata a Strozzi per documentare questa fase della sua vicenda creativa, indispensabile per contestualizzare tutto il resto, è la ricostruzione dell’ambientazione di Exorcism the last painting I ever made (1996), performance in cui l’artista si chiuse nuda per tre settimane e mezzo (la durata del ciclo mestruale) in una galleria di Stoccolma a realizzare dipinti e disegni ispirati ad artisti uomini, come Schiele, Much e Picasso, mentre il pubblico la poteva osservare dall’esterno attraverso lenti grandangolari inserite nelle aperture delle pareti.

Anche in questo caso il fatto personale, una sorta di ritualità connessa al suo temporaneo abbandono della pittura mentre era incinta, protrattosi per anni anche dopo l’aborto, acquisisce anche una forte valenza politica nel contestare la passività della modella in studio, scardinando e mettendo in discussione ruoli assodati (nell’arte, ma più in generale nella società). Per concludere, nel complesso è senz’altro una mostra consigliata, efficace nel restituire la tenerezza e la sincerità di un’artista il cui linguaggio diretto ci fa riflettere nel suo vissuto e puntuale nel documentare la sua padronanza di una variegata gamma di media (pittura, scultura, neon, ricamo) in opere capaci di funzionare sulla scala intima come su quella epica.


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