Ferrara grande capitale del Rinascimento. Com'è la mostra su Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa


Recensione della mostra “Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa”, a cura di Vittorio Sgarbi e Michele Danieli (a Ferrara, Palazzo dei Diamanti, dal 18 febbraio al 19 giugno 2023).

Contro le semplificazioni d’una vulgata scolastica che tende spesso a banalizzare le vicende del Quattrocento a Ferrara, inducendo a ritenerle quasi una sorta d’emanazione vernacolare d’un più ampio “Rinascimento” centrato sulla Toscana, ci si potrebbe pronunciare d’emblée anche solo ricorrendo alla sentenza, risoluta e definitiva, che Roberto Longhi aveva scolpito nella sua fondamentale Officina ferrarese, laddove riconosceva che, nell’ultimo decennio del XV secolo, Ferrara sedeva “più alto che qualunque altro punto d’Italia”, e questo per merito di Ercole de’ Roberti, artista che aveva conquistato “una situazione così personale da non trovare, a quei tempi, altro paragone di valore che in Leonardo”. La Ferrara in cui si muove Ercole de’ Roberti è città dove s’inventano radicali soluzioni urbanistiche, dove si scrivono vicende capitali della letteratura italiana del tempo, è ospitale porta dalla quale entrano culture provenienti da Oriente, è centro d’un Rinascimento le cui diramazioni s’estendono ben al di là delle proprie mura. Rinascimento a Ferrara, dunque, più che “rinascimento ferrarese”, come titola la mostra dedicata a Ercole de’ Roberti e a Lorenzo Costa, e curata da Vittorio Sgarbi e Michele Danieli, che le rinnovate sala dell’Ala Rossetti e dell’Ala Tisi di Palazzo dei Diamanti ospitano sino al prossimo 19 giugno.

Son trascorsi novant’anni esatti da quando veniva organizzata, proprio a Palazzo dei Diamanti, l’enorme rassegna sull’arte a Ferrara nel Rinascimento che fornì a Longhi lo spunto per comporre l’Officina ferrarese, nata come una sorta di lungo commento alla Mostra del Rinascimento Ferrarese. Era il 1933, e occorreva organizzare un’iniziativa che celebrasse nella maniera più acconcia il quarto centenario della scomparsa di Ludovico Ariosto: la volontà delle persone che resero possibile quella mostra (segnatamente il podestà Renzo Ravenna, il quadrumviro fascista Italo Balbo, a quel tempo ministro dell’aeronautica del regno ma sempre legato alla sua città tanto da considerarsi una sorta di moderno continuatore degli estensi, e amicissimo di Ravenna, e poi il curatore Nino Barbantini e l’allora direttore della Pinacoteca di Ferrara, Arturo Giglioli) era quella di evitare un convegno d’accademici, e d’immaginare semmai un qualche evento di più ampio respiro, che non dovesse avere “un carattere paesano, ma assurgere bensì ad interesse nazionale” (tale era l’intenzione di Italo Balbo, che ebbe un ruolo determinante nel rendere possibile la mostra). E in effetti, a fronte del diluvio d’iniziative retoriche e trionfalistiche che accompagnò l’anniversario ariostesco, la Mostra del Rinascimento Ferrarese è sempre stata riconosciuta come una rassegna dall’impianto solido e dall’indiscutibile valore, come un momento seminale, coronamento d’una densa stagione di studî sulle arti in città tra il Quattro e il Cinquecento, e come avvio d’un periodo di mostre concepite per un pubblico vasto (curiosamente la mostra, che alla fine richiamò nel complesso oltre 79.000 visitatori paganti, arrivò, come quella di quest’anno, dopo un restauro del Palazzo e una nuova organizzazione delle sale, benché quei lavori fossero stati condotti, ha scritto Andrea Emiliani, in modo approssimativo): ciò nondimeno, non andrà dimenticato, come ha sottolineato recentemente Marcello Toffanello, che quell’esposizione fu una delle tante occasioni con cui il regime tentò di rendersi presentabile.

I risultati scientifici di quella mostra e i suoi presupposti sono stati ampiamente ripercorsi dalla bibliografia recente, ma sarà utile rammentare, per stabilire alcune coordinate che possano render più agevole anche la lettura della mostra del 2023, alcuni elementi: intanto, il fatto che non fosse piovuta all’improvviso, ma poggiasse i suoi pilastri sulle fondamenta costruite da Adolfo Venturi che, negli anni Ottanta del secolo precedente, pubblicò alcuni importanti saggi sulle arti in territorio estense che, ha riconosciuto Andrea Emiliani, “devono considerarsi il basamento più solido per ogni adeguata ricostruzione” (e il confronto con Venturi, che ebbe peraltro un ruolo anche nell’organizzazione della prima mostra di sempre sulle arti a Ferrara nel Quattrocento, allestita nel 1894 alla Burlington House di Londra, fu del resto ineludibile anche per gli organizzatori di quella rassegna). Si trattò poi d’una mostra che oggi sarebbe probabilmente irripetibile, dal momento che convennero a Palazzo dei Diamanti più di 250 opere (tante se ne trovano segnate sul catalogo): l’occasione fu effettivamente facilitata da un periodo propizio, aperto nel 1930 da uno sfoggio muscolare, ovvero l’enorme mostra d’arte italiana a Londra voluta da Mussolini, che aprì un decennio di grandi mostre votate all’accumulo. E quello stesso accumulo che aveva caratterizzato la mostra di Palazzo dei Diamanti, che pure fornì a pubblico e studiosi la prima occasione importante per ammirare tante opere del Rinascimento a Ferrara nello stesso luogo, lasciò aperte molte questioni: non è tuttavia aspetto da leggere come un difetto, dacché all’epoca le mostre, specialmente di quella portata, venivano allestite soprattutto per sottoporre a verifica il materiale su cui s’era lavorato e non per presentare dei risultati acquisiti. Su tali questioni sarebbe arrivato a fare ordine proprio il Longhi dell’Officina ferrarese che, appoggiandosi a un numero d’opere ancor più vasto rispetto a quelle che la mostra dispiegava nelle sale, riduceva l’opinione “filoferrarese” di Venturi (secondo il quale da Ferrara si sarebbe irradiato un linguaggio che avrebbe investito gran parte dell’Italia settentrionale), precisava la portata delle novità di Ercole de’ Roberti (non per ridimensionarle, ricorda Marcello Toffanello nel catalogo di Rinascimento a Ferrara, ma per aggiornarle secondo una visione che teneva conto non soltanto delle derivazioni personali, ma anche della “ricostruzione di quadri storici circoscritti a precise situazioni geografiche”), attribuiva a Ercole a mo’ di coup de théâtre il Settembre di Palazzo Schifanoia, eliminava la fantomatica figura di “Ercole Grandi”, inesistente artista che si volle costruire a partire da alcune confuse letture d’un documento storico (le opere che gli venivano assegnate furono variamente distribuite), e cercava di far luce sugli anni giovanili di Lorenzo Costa, sui quali la mostra era rimasta reticente. I risultati del lavoro di Longhi, qui malamente riassunti per sommi capi, s’affermarono con un’autorevolezza che ha affascinato generazioni di studiosi. E una targa, inserita nel rinnovato percorso di Palazzo dei Diamanti, ricorda la sua Officina ferrarese.

Quali dunque gli scopi d’una nuova mostra a novant’anni di distanza? Non certo proporre una riedizione, che sarebbe necessariamente inattuale, di quell’esposizione, ma semmai fare qualcosa d’ancor più esteso, anche se su più tempi: il primo, guardando a ritroso, è dato dalla mostra Cosmè Tura e Francesco del Cossa, tenutasi a Palazzo dei Diamanti nel 2007 e curata da Mauro Natale, mentre il secondo è la mostra presente, e ne seguiranno altri, sempre con appaiamenti (Mazzolino e Ortolano, Dosso e Garofalo, Girolamo da Carpi e Bastianino). Ne sortirà pertanto la più ampia ricognizione sulle arti a Ferrara tra Quattro e Cinquecento che mai sia stata tentata, il tutto alla luce degli ultimi decennî di ricerche, per offrire nuove inquadrature (per esempio la ricostruzione delle trame che legarono Ferrara a Bologna, con un taglio che rappresenta una delle novità della mostra), per rivedere artisti in passato talvolta trascurati (è il caso, come si vedrà, di Antonio da Crevalcore, cui viene assegnato un posto di rilievo nella mostra su Ercole e Lorenzo Costa), per tornare su questioni rimaste aperte (come l’attribuzione del Settembre di Palazzo Schifanoia, sulla quale converrà tornare con un articolo separato). E naturalmente, nella fattispecie della mostra che s’è aperta lo scorso 18 febbraio, non tanto per offrire al pubblico letture che rivoluzioneranno la nostra comprensione di Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa ma, per esempio, per “isolare gli ingredienti principali del linguaggio” del primo, come scrive Michele Danieli in catalogo, un linguaggio “che a sua volta costituirà la base per lo sviluppo di quello di Lorenzo Costa”, oppure per ribadire la modernità del linguaggio di quest’ultimo, artista che nel corso del Novecento è stato forse poco considerato per via di quello che era considerato una sorta di difetto (come ha ricordato il curatore durante la presentazione della mostra), ovvero l’“eclettismo” che gli permetteva di guardare a Ferrara, a Venezia e al centro Italia per fondere tutto assieme. Si scoprirà, dunque, un Lorenzo Costa estremamente curioso, recettivo, moderno e originale. Andrà poi ricordato che la mostra che s’è aperta da pochi giorni a Palazzo dei Diamanti risulta a oggi la maggior monografica di sempre su Ercole de’ Roberti, e poiché non è operazione semplice radunare le opere del ferrarese, sparpagliate nei musei e nelle collezioni di mezzo mondo, andrà considerata la difficoltà dell’operazione, e il fatto che per un tempo ragionevolmente lungo sarà difficile rivedere qualcosa di anche soltanto simile.

Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa
Allestimenti della mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa

L’itinerario di visita prende avvio da una sala che dispone in breve successione le opere di tutti i più importanti artisti ch’erano attivi a Ferrara nel momento in cui cominciò la carriera del giovane Ercole de’ Roberti: s’inizia dunque da Palazzo Schifanoia, e a evocare quell’impresa (naturalmente, per chi andrà a veder la mostra, una visita al Salone dei Mesi sarà irrinunciabile) giungono l’Ascensione di Cristo di quel curioso ed enigmatico artista che è il Maestro dagli occhi spalancati, forse un allievo di Cosmè Tura (il grande artista ferrarese è presente con la Madonna dello Zodiaco delle Gallerie dell’Accademia di Venezia) e una Madonna col Bambino di Gherardo da Vicenza, opera al centro d’intensi dibattiti attributivi. Come anticipato, fu Longhi ad assegnare a sorpresa il mese di Settembre di Schifanoia di Ercole de’ Roberti, che verrebbe così a configurarsi come opera più precoce dell’artista: non potendo vederla in mostra, ci si contenta d’una sua riproduzione per forza di cose in scala ridotta, e si prosegue il cammino con la seconda sala, nella quale s’affermano alcuni dei punti cardinali che alimentarono le vicende artistiche ferraresi: lo sguardo non può che essere rivolto anzitutto a Padova, onde far arrivare in mostra un caposaldo della pittura di Andrea Mantegna, la Santa Eufemia in prestito dal Museo Nazionale di Capodimonte (il grande artista veneto era peraltro a Ferrara nel 1449), oltre che un discusso San Pietro martire in legno che, se a Donatello va attribuito, è da riferirsi alla prima parte del suo soggiorno padovano (dunque verso il 1443 o poco dopo), mentre rientra nell’ambito del linguaggio donatelliano il grande gruppo bronzeo, in arrivo dalla Cattedrale di Ferrara, con il Cristo crocifisso tra la Madonna e san Giovanni, impegnativa opera di Niccolò Baroncelli e Domenico di Paris che offre uno dei passaggi sicuramente più scenografici della mostra. Il fronte veneziano è invece rappresentato da un’altra opera dibattuta, la Testa di san Giovanni dei Musei di Pesaro (secondo alcuni di Giovanni Bellini, mentre secondo altri, incluso Sgarbi, di Marco Zoppo: in mostra figura come opera di Bellini ma il dibattito attributivo non viene taciuto), oltre che dal San Giovanni Battista di Marco Zoppo. Nel mezzo, ecco la singolare Annunciata di collezione privata per la quale ancora non s’è trovato un nome, e che Longhi voleva opera d’un ferrarese che guardava a Padova (la mostra invece cerca di risolvere il problema accostandola alla produzione di Gentile Bellini, anche se è opera d’un artista evidentemente impregnato di cultura padovana), mentre in dialogo con il gruppo di Baroncelli e Domenico di Paris, arriva da Parigi la Crocifissione di Vicino da Ferrara a invitare il pubblico a inoltrarsi nelle vicende ferraresi: l’opera di questo artista praticamente anonimo (il nome “Vicino da Ferrara” è un’invenzione di Longhi che l’adoperò per indicare un pittore vicino, appunto, a Ercole de’ Roberti) appartiene alla prima stagione del Rinascimento a Ferrara, quella di Cosmè Tura e Francesco del Cossa, ed è opera che somma un rigore compositivo memore delle soluzioni di Piero della Francesca a una monumentalità ancora padovana e a un’espressività e un’irrequietezza che sono invece tipiche dei pittori ferraresi. Mancano opere fiamminghe a completare il quadro dell’esperienze che furono alla base di quanto si sarebbe poi sviluppato a Ferrara dopo la metà del Quattrocento, e allo stesso modo sono assenti opere di Piero della Francesca che fu un artista altro d’importanza capitale (anche lui nel 1449 fu a Ferrara, per lavorare al Castello Estense), ma catalogo e apparati di sala sono esaustivi nel fornire al pubblico il quadro completo.

Si torna così agli esordî di Ercole de’ Roberti, e si torna a Schifanoia: nell’estate del 1470, Francesco del Cossa scrisse al duca Borso d’Este sostanzialmente per chiedere d’essere pagato di più. Non si conserva la risposta del duca, ma il fatto che immediatamente dopo l’artista è attestato a Bologna non lascia dubbî sul tenore della replica. Se immaginiamo un Ercole de’ Roberti attivo nel cantiere di Schifanoia, è lecito supporre che il pittore abbia seguito il più anziano collega: lavorò infatti assieme a lui al Polittico Griffoni, nell’ambito di quello che per Carlo Volpe fu il “più formidabile e producente sodalizio che la storia dell’arte conosca”. Cossa infatti non costrinse il giovanissimo collaboratore, all’epoca appena ventenne, al ruolo d’esecutore, ma gli lasciò amplissimi margini di libertà ed Ercole rispose restituendo una delle pagine più alte del Rinascimento tutto, la sorprendente predella in cui riversò tutto il suo estro impareggiabile, dimostrandosi artista fantasioso, dotato d’eccellenti capacità narrative, straordinario regista cinematografico che nel suo mondo alto appena ventisette centimetri organizza un universo colorato e frenetico, col piglio dell’ingegnere e con sommo estro immaginativo. Del Polittico Griffoni, che un’interessante mostra tenutasi a Palazzo Fava a Bologna durante la prima ondata del Covid ha ricostruito per la prima volta nella sua interezza riunendo i pezzi sparsi per tutto il mondo, la mostra espone, oltre alla predella, anche i tondi con l’arcangelo Gabriele e con la Vergine e i pilastrini laterali coi santi, tutti opera di Ercole, mentre sono rimaste presso le loro sedi le parti che si devono al Cossa.

Nella sala seguente s’approfondisce invece un’altra occasione in cui Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti lavorarono assieme, anche se non negli stessi termini del Polittico: nel 1474, il Cossa aveva infatti cominciato a dipingere gli affreschi della cappella Garganelli in San Pietro a Bologna, e alla sua scomparsa poco più che quarantenne nel 1478 gli subentrò il più giovane collaboratore, che portò a termine il lavoro. La cappella fu distrutta tra Cinque e Seicento (conosciamo parte delle scene da copie), e l’unico frammento che sopravvive è la Maddalena piangente di Ercole, già protagonista alla recente mostra sul Rinascimento felsineo alla Pinacoteca Nazionale di Bologna e opera che, ha scritto giustamente Giuseppe Adani su queste pagine, “ci slancia in plenitudine sull’intero universo del sacro e perduto poema di Ercole”, un poema la cui forza espressiva, celebratissima dalle fonti (incluso Michelangelo), è comunque tutta tramandata dal potente lacerto, che in mostra dialoga in maniera esemplare con una Madonna dolente di Guido Mazzoni e con un Busto di san Domenico di Guzmán di Niccolò dell’Arca, corrispettivi lungo la via Emilia della potenza del giovane ferrarese, evidenza di come le arti a Ferrara si fossero nutrite di suggestioni provenienti dal resto della regione e, viceversa, di come Ferrara a sua volta abbia esportato altrove le sue novità (bastino gli esempî del piemontese Giovanni Martino Spanzotti, presente con la Madonna Tucker di Palazzo Madama a Torino vicina al Cossa bolognese, e dell’emiliano Giovanni Antonio Bazzi, artista omonimo del più famoso vercellese-senese Sodoma, rispolverato in occasione di questa mostra per attestarne le dipendenze dal Cossa della Pala dei Mercanti). S’incunea qui, sempre nel solco della pittura di Francesco del Cossa, la vicenda di Antonio Leonelli da Crevalcore: le tre monumentali tele con San Paolo, la Madonna col Bambino e un angelo e San Pietro occupano da sole tutta una parete, mentre poco distante s’ammira la sua Sacra famiglia con san Giovanni Battista. Opere che interpretano con accenti di nervosa originalità (si guardino i panneggi dei santi) e con aria severa, ancora, il Cossa dei Mercanti, ponendo Antonio da Crevalcore tra gli artisti più interessanti di quel giro d’anni (siamo nel nono decennio del Quattrocento).

Vicino da Ferrara, Crocifissione (1465 circa; tempera e olio su tela, 312 x 214 cm; Parigi, Musée des Arts Décoratifs) © Les Arts Décoratifs / Jean Tholance
Vicino da Ferrara, Crocifissione (1465 circa; tempera e olio su tela, 312 x 214 cm; Parigi, Musée des Arts Décoratifs) © Les Arts Décoratifs / Jean Tholance
Cosmè Tura, Madonna dello Zodiaco (1470-75 circa; tempera e olio su tavola, 22,3 x 13,8 cm; Roma, Galleria Colonna)
Cosmè Tura, Madonna dello Zodiaco (1470-75 circa; tempera e olio su tavola, 22,3 x 13,8 cm; Roma, Galleria Colonna)
Ercole de’ Roberti, I miracoli di san Vincenzo Ferrer (1470-73 circa; tempera su tavola, 29,6 x 214,6 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani) © Musei Vaticani
Ercole de’ Roberti, I miracoli di san Vincenzo Ferrer (1470-73 circa; tempera su tavola, 29,6 x 214,6 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani) © Musei Vaticani
Ercole de’ Roberti, Volto di Maria Maddalena piangente (1482-85 circa; affresco staccato, 39,3 x 39,3 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale) Su concessione del Ministero della Cultura, foto Luca Gavagna
Ercole de’ Roberti, Volto di Maria Maddalena piangente (1482-85 circa; affresco staccato, 39,3 x 39,3 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale) Su concessione del Ministero della Cultura, foto Luca Gavagna
Niccolò dell’Arca, Busto di san Domenico di Guzmán (1474-75; terracotta con tracce di pittura, 80 x 67 x 45 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Niccolò dell’Arca, Busto di san Domenico di Guzmán (1474-75; terracotta con tracce di pittura, 80 x 67 x 45 cm; Ro Ferrarese, Fondazione Cavallini Sgarbi)
Antonio Leonelli detto Antonio da Crevalcore, San Pietro (1488-89 circa; tempera su tela, 170 x 175 cm; Collezione privata) © foto Antonio Idini
Antonio Leonelli detto Antonio da Crevalcore, San Pietro (1488-89 circa; tempera su tela, 170 x 175 cm; Collezione privata) © foto Antonio Idini
Antonio Leonelli detto Antonio da Crevalcore, Madonna col Bambino e un angelo (1488-89 circa; tempera su tela, 170 x 175 cm; Collezione privata) © foto Antonio Idini
Antonio Leonelli detto Antonio da Crevalcore, Madonna col Bambino e un angelo (1488-89 circa; tempera su tela, 170 x 175 cm; Collezione privata) © foto Antonio Idini
Antonio Leonelli detto Antonio da Crevalcore, San Paolo (1488-89 circa; tempera su tela, 170 x 175 cm; Collezione privata) © foto Antonio Idini
Antonio Leonelli detto Antonio da Crevalcore, San Paolo (1488-89 circa; tempera su tela, 170 x 175 cm; Collezione privata) © foto Antonio Idini

Si torna poi a seguire, in stretto ordine cronologico, le vicende di Ercole de’ Roberti: la sua permanenza bolognese è attestata dal meraviglioso dittico che raffigura i signori de facto di Bologna, ovvero Giovanni II Bentivoglio e la moglie Ginevra Sforza, uno dei vertici della mostra, in arrivo da Washington. È questo, secondo Longhi, il “più bel ritratto a dittico di tutto il Quattrocento italiano” dopo il doppio ritratto dei duchi Montefeltro di Piero della Francesca, col quale il rapporto è evidente e innegabile (peraltro, curiosamente, Battista e Ginevra Sforza erano sorelle): in mostra il dittico intesse un fecondo dialogo con un Ritratto di giovane di Antonio da Crevalcore, che dobbiamo immaginare anch’esso anticamente abbinato a un ritratto femminile in un dittico nuziale, e con il Ritratto d’uomo del museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, denso di reminiscenze antonellesche, e ancora al centro d’una questione attributiva che lo divide tra Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa. Un primo invito, dunque, alla seconda parte di questa doppia monografica, non prima però d’aver terminato il percorso tra le opere di Ercole. E l’Ercole degli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento è un artista che osserva con scrupolo tutto quello che gli accade attorno, che fonde con risoluta determinazione, somma abilità e ingegno arguto la compostezza di Piero della Francesca, la minuzia dei fiamminghi, le linee arcigne dell’arte tedesca, oltre che distese aperture veneziane. È un peccato che in mostra non si possa ammirare la Pala Portuense, unica opera di Ercole databile con certezza, e unica tavola d’altare che di lui ci rimane, dacché l’altra che ci è nota, la Pala di San Lazzaro, andò distrutta a Berlino durante la seconda guerra mondiale: l’assenza di questo capolavoro fondamentale non è tuttavia un demerito degli ordinatori della rassegna, dal momento che l’opera, conservata alla Pinacoteca di Brera, figura tra le tredici opere che il museo milanese esclude generalmente dal prestito in quanto forti di “grande notorietà presso il pubblico anche internazionale” e ritenute identitarie. Per completezza andrà comunque osservato che questa lista, dalla prima volta che è stata resa nota, è stata modificata in una sola occasione, ovvero in un qualche momento tra il maggio e l’agosto del 2021 stando a quanto risulta dallo storico del sito web del museo, proprio per accodare, all’elenco che fin dal principio ha contato dodici opere stranote come il Cristo morto di Mantegna, la Pala Montefeltro di Piero della Francesca, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, la Cena in Emmaus di Caravaggio e il Bacio di Hayez, proprio la Pala Portuense: si tratta peraltro dell’unica modifica che la lista abbia mai subito. Se fosse stata in mostra, sarebbe stata l’opera più imponente della rassegna, con dimensioni di pochi centimetri superiori rispetto a quelle della Crocifissione di Vicino da Ferrara.

Ci si consola con il confronto tra una riproduzione ad altissima fedeltà della Pietà di Liverpool (l’originale è rimasto in Inghilterra perché troppo fragile), parte della predella di San Giovanni in Monte (non sappiamo se tuttavia nella chiesa bolognese sia mai esistita una pala), e messa a confronto con la celebre Pietà di Cosmè Tura del Museo Correr di Venezia per sottolinearne i rapporti, oltre che con una Vesperbild in pietra d’uno scultore boemo per ricordarne le origini iconografiche, e con un’altra Pietà, del Mazzolino, che guarda dritta alla Pietà di Ercole de’ Roberti. Il San Giovanni Battista di Berlino è evocato da un aspro disegno d’un piede, e la parte della mostra sul primo Ercole si chiude con una splendida accoppiata d’opere della metà degli anni Ottanta, il San Michele della Pinacoteca Nazionale di Bologna e la deliziosa Madonna col Bambino tra due vasi di rose, della Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Per il San Michele la mostra è occasione di ribadire l’autografia robertiana: “chi altri”, si domanda Michele Danieli, “avrebbe potuto concentrare tanta forza espressiva e tale sicurezza nell’articolazione dei volumi in una superficie così ridotta?”. Decisamente meno contestata, invece, la Madonna che fu attribuita per la prima volta a Ercole da Adolfo Venturi, e da allora mai più è stata messa in discussione. Si giunge dunque alla sala che affronta l’ultimo Ercole, considerando un arco che va dal 1486, anno in cui diventa pittore di corte presso gli Este (incarico che, stando alle fonti, gli procurò tantissimo lavoro: purtroppo però oggi pochissimo ci rimane, e per la più parte si tratta d’opere eseguite per la devozione privata, e tuttavia una considerevole porzione di quel pochissimo è in mostra), fino al 1496, anno della scomparsa. Questa fase della carriera di Ercole è rappresentata in mostra con diversi capisaldi, a partire da un prestito eccezionale, quello del dittico della National Gallery di Londra, unica opera che ci rimane di quelle che Ercole eseguì per Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara, moglie di Ercole I d’Este. La prima tavoletta raffigura l’Adorazione dei pastori mentre l’altra mette assieme, in una scena di sorprendente regia compositiva, la Deposizione dalla croce, la Visione di san Girolamo e le Stimmate di san Francesco: “capolavori di organizzazione spaziale”, scrive Danieli, “le piccole tavole mostrano una pittura chiara, addolcita, sensibile alle novità padane”. Ecco dunque la cifra dell’ultimo Ercole, da ravvisare ulteriormente nella bella Madonna col Bambino della Gemäldegalerie di Berlino, che nella sua tersa luce veneziana conserva comunque l’antica monumentalità, nelle due tavole dedicate alle donne dell’antichità (la Porzia e Bruto in arrivo dal Kimbell Art Museum di Fort Worth, e la Lucrezia della Galleria Estense di Modena, data a Ercole assieme a Giovanni Francesco Maineri), eccezionalmente riunite, e anticamente parte di un unico ciclo decorativo di committenza estense, e soprattutto nella pacata Istituzione dell’Eucarestia, anch’essa in arrivo da Londra, opera che dà conto d’un Ercole alle prese con un ripensamento in chiave moderna della sua sintassi: la sua vita s’interrompe che aveva appena quarant’anni, o forse poco più, e non sapremo mai in che direzione si sarebbe mosso sul volgere del secolo.

Ercole de’ Roberti, Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza (1473-74; tempera su tavola, rispettivamente 54 x 38,1 cm e 53,7 x 38,7 cm; Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection)
Ercole de’ Roberti, Giovanni II Bentivoglio e Ginevra Sforza (1473-74; tempera su tavola, rispettivamente 54 x 38,1 cm e 53,7 x 38,7 cm; Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection)
Cosmè Tura, Pietà (1460 circa; tempera e olio su tavola, 47,7 x 33,5 cm; Venezia, Fondazione Musei Civici, Museo Correr) © 2023 Fondazione Musei Civici di Venezia
Cosmè Tura, Pietà (1460 circa; tempera e olio su tavola, 47,7 x 33,5 cm; Venezia, Fondazione Musei Civici, Museo Correr) © 2023 Fondazione Musei Civici di Venezia
Ercole de’ Roberti o Lorenzo Costa, Ritratto d’uomo (1490 circa; olio su tavola, 42 x 32 cm; Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen) © foto Studio Tromp
Ercole de’ Roberti o Lorenzo Costa, Ritratto d’uomo (1490 circa; olio su tavola, 42 x 32 cm; Rotterdam, Museum Boijmans Van Beuningen) © foto Studio Tromp
Ercole de’ Roberti, San Michele Arcangelo (1484-86; tempera su tavola, 17,3 x 13,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Ercole de’ Roberti, San Michele Arcangelo (1484-86; tempera su tavola, 17,3 x 13,5 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Ercole de’ Roberti, Adorazione dei pastori (1486-93; tempera su tavola, 17,8 x 13,5; Londra, National Gallery)
Ercole de’ Roberti, Adorazione dei pastori (1486-93; tempera su tavola, 17,8 x 13,5; Londra, National Gallery)
Ercole de’ Roberti, Visione di san Girolamo, Stimmate di san Francesco, Deposizione dalla Croce (1486-93; tempera su tavola, 17,8 x 13,5; Londra, National Gallery)
Ercole de’ Roberti, Visione di san Girolamo, Stimmate di san Francesco, Deposizione dalla Croce (1486-93; tempera su tavola, 17,8 x 13,5; Londra, National Gallery)
Ercole de’ Roberti, Raccolta della manna (1493-96; tempera su tavola trasportata su tela, 28,9 x 63,5 cm; Londra, National Gallery) © National Gallery
Ercole de’ Roberti, Raccolta della manna (1493-96; tempera su tavola trasportata su tela, 28,9 x 63,5 cm; Londra, National Gallery) © National Gallery
Ercole de’ Roberti, Porzia e Bruto (1490-93 circa; tempera su tavola, 48,7 x 34,3 cm; Fort Worth, Kimbell Art Museum)
Ercole de’ Roberti, Porzia e Bruto (1490-93 circa; tempera su tavola, 48,7 x 34,3 cm; Fort Worth, Kimbell Art Museum)

Dopo una sala che illustra le vicissitudini della pittura ferrarese sul finire del Quattrocento per dar conto della vivacità artistica e culturale della città (da sottolineare la presenza della Dormitio Virginis dell’Ambrosiana di Milano, per la quale la mostra non scioglie tuttavia l’enigma relativo all’autografia, ma Valerio Mosso rileva delle “intriganti affinità” con il veronese Francesco di Bettino, pur senza sbilanciarsi in un’attribuzione), s’apre il capitolo della rassegna su Lorenzo Costa, che comincia con una sezione dedicata ai suoi anni giovanili, ed è una delle meglio riuscite della mostra. Costa, ferrarese, s’accosta fin da subito a Ercole de’ Roberti (benché non sia possibile accertare una frequentazione tra i due), e fu probabilmente l’unico artista della sua generazione capace di misurarsi con l’estro robertiano e di rivisitarlo secondo la propria originale inclinazione: è ciò che intende dimostrare la rassegna in una sala che si apre con la Crocifissione del Lindenau-Museum, opera nota solo a partire dal 1845, e attribuita per la prima volta a Costa da Roberto Longhi. Si tratta di un’opera che palesa tutti i caratteri della pittura ferrarese ed è dunque da collocare a una data che precede il 1483, anno in cui Lorenzo Costa si trasferisce a Bologna e il suo linguaggio ne risentirà. L’artista dà inoltre prova d’essere in possesso d’una spiccata verve narrativa nelle Storie degli argonauti, quattro delle quali vengono riunite per la prima volta proprio in occasione della mostra: sono dipinti che attestano una piena comprensione del linguaggio di Ercole de’ Roberti, capace di rivivere ancora nei brani più scultorei del San Sebastiano prestato dagli Uffizi, che tuttavia è anche opera di somma dolcezza da collocare agli anni Novanta del Quattrocento, quando l’artista dimostra d’aver assimilato la delicatezza dell’arte di Francesco Francia, che a quell’altezza era il massimo pittore bolognese. Lo stesso vale per una delle più belle opere in mostra, la Sacra Famiglia del Musée des Beaux-Arts di Lione, dove convivono in totale armonia l’asprezza ferrarese che contraddistingue, per esempio, la figura di san Giuseppe, e la somma grazia che dà vita alla figura del tenerissimo Bambino. A fare come da spartiacque è un capolavoro quale la Pala Rossi, che giunge dalla Basilica di San Petronio, lodatissima già da Vasari, e che “mostra tutta la ricchezza dell’orizzonte espressivo di Costa e la sua lucidità di assimilazione”, come ribadisce Danieli, dacché si trovano qui ricordi robertiani (il trono anzitutto), una struttura compositiva che guarda a Francesco Francia, minuzie fiamminghe e pure una luminosità veneziana, tanto da aver spinto diversi studiosi ad avanzare l’ipotesi d’un soggiorno di Lorenzo Costa in laguna.

Nella sala seguente, alcune opere di Francesco Francia serbate presso raccolte private forniscono utili termini per un confronto, e lo stesso vale per tre tavole del Perugino (l’Arcangelo Gabriele e due scomparti di predella, tutte opere della fase tarda della carriera di Pietro Vannucci, e tutte prestate dalla Galleria Nazionale dell’Umbria), funzionali ad aprire il discorso relativo all’aggiornamento di Lorenzo Costa sulla pittura del centro Italia, che tanta sfortuna gli ha procurato in passato, dal momento che la critica ha letto questo suo cambio d’orientamento come una sorta di rinuncia al vigore che aveva caratterizzato gli anni giovanili. La mostra, attraverso una selezione decisamente importante, vuole invece presentare al pubblico la tesi secondo cui, da un lato, Lorenzo Costa, avvicinandosi al Perugino, si dimostrò comunque pittore moderno che guardava a una pittura che s’era imposta presso il gusto della committenza, e dall’altro mantenne una certa indipendenza e un buon grado d’originalità testimoniato da un percorso tutt’altro che lineare. Se dunque la Madonna col Bambino e i santi Petronio e Tecla è forse quanto di più peruginesco Lorenzo Costa avesse prodotto sino a quel punto, la di poco successiva Pala Ghedini, al contrario denota un riavvicinamento ai modi di Ercole, con quell’altissimo trono sotto un loggiato in prospettiva e che s’apre sul basamento a mostrare, come in una specie di schermo televisivo, il paesaggio retrostante, evidente ricordo della Pala Portuense. E lo stesso vale per la predella della pala di Santa Maria della Misericordia a Bologna, un’Adorazione dei Magi oggi alla Pinacoteca di Brera e che in mostra si ricongiunge ad alcune tavole dell’antica macchina smembrata: Danieli definisce l’Adorazione, a ragione, come un “piccolo capolavoro di peruginismo ornato, dove le figure esili e vivaci di Ercole de’ Roberti adottano la grazia centroitaliana di un Pinturicchio, che a quelle date aveva sedotto anche Amico Aspertini”. Vicina all’Adorazione dei Magi è anche la delicata Sacra Famiglia che arriva dal Museum of Art di Toledo in Ohio, opera “sapientemente allestita attraverso la successione dei piani che, oltre a garantire il senso dello spazio, orientano lo sguardo dell’osservatore dapprima sul vivace Bambino che si arrampica sulle gambe materne, poi sui genitori che lo adorano, infine sull’incantevole scenario naturale” (così Pietro Di Natale).

A chiudere la mostra, prima dell’appendice finale sulla fortuna di Ercole de’ Roberti, è la sala sull’ultima stagione della carriera di Lorenzo Costa, quella mantovana, cominciata nel 1506 quando l’artista venne chiamato sulle rive del Mincio da Isabella d’Este per sostituire Andrea Mantegna, appena scomparso. Costa non aspettò, stante anche la mutata situazione politica a Bologna, con la caduta di Giovanni II Bentivoglio. In catalogo la ricostruzione dell’ultimo trentennio del pittore ferrarese è affidata a Stefano L’Occaso, grande conoscitore di cose mantovane che rileva tuttavia l’impossibilità d’arrivare a conclusioni complete, poiché sono andate perdute numerose opere alle quali l’artista attese in quegli anni (in Palazzo Sebastiano esisteva per esempio una “Camera del Costa”, che doveva essere di suprema significanza se si pensa che molto raramente le fonti antiche usano, per indicare la sala d’un palazzo, il nome d’un pittore responsabile della sua decorazione). E andrà considerato poi che quasi tutto quel che di Lorenzo Costa era a Mantova e che si poteva spostare, oggi si trova altrove: in città l’unica opera importante rimasta è la Pala di Sant’Andrea, opera del 1525 in cui l’artista par quasi ricapitolare tutto ciò che aveva appreso lungo l’arco della sua carriera, opera conservata nella basilica albertiana nonché altro eccezionale prestito per la mostra (la si può infatti ammirare nell’ultima sala), mentre niente è rimasto nelle raccolte pubbliche. Tra le opere più significative dell’ultima sala è la Veronica riemersa di recente e acquistata dal Louvre nel 1989: è un dipinto che fu commissionato direttamente da Isabella d’Este come dono diplomatico da inviare in Francia. “L’opera”, nota L’Occaso, “avrebbe [...] dovuto competere con la qualità di un dipinto di Mantegna, ma vi si riconoscevano caratteristiche diverse, un diverso modo di dipingere, più morbido e delicato”: il fondo cupo e i contorni sfumati dimostrano infatti il fascino per i dipinti di Leonardo da Vinci. Tra le diverse opere che compongono l’ultima sezione della mostra meritano un cenno un’opera di evidente carattere correggesco, ovvero il Ritratto di cardinale del Minneapolis Institute of Art che testimonia pertanto l’ampiezza degli orizzonti di Costa anche nella fase estrema della sua carriera, e la statuaria e al contempo morbida Venere su fondo scuro, che ci trasmette un’idea piuttosto compiuta sui canoni di bellezza dell’epoca.

Maestro della Dormitio Virginis Massari, Dormitio Virginis (1490-95 circa; tempera e oro su tavola, 158 x 230 cm; Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca) © Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio
Maestro della Dormitio Virginis Massari, Dormitio Virginis (1490-95 circa; tempera e oro su tavola, 158 x 230 cm; Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca) © Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Mondadori Portfolio
Lorenzo Costa, Crocifissione (1480-83; tempera su tavola, 42,2 x 28,8 cm; Altenburg, Lindenau-Museum)
Lorenzo Costa, Crocifissione (1480-83; tempera su tavola, 42,2 x 28,8 cm; Altenburg, Lindenau-Museum)
Lorenzo Costa, Fuga degli Argonauti dalla Colchide (1483 circa; tempera e olio su tavola, 35 x 26,5 cm; Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza) © Museo Nacional Thyssen-Bornemisza
Lorenzo Costa, Fuga degli Argonauti dalla Colchide (1483 circa; tempera e olio su tavola, 35 x 26,5 cm; Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza) © Museo Nacional Thyssen-Bornemisza
Lorenzo Costa, Madonna col Bambino e i santi Sebastiano, Giacomo, Girolamo e Giorgio (pala Rossi) (1492; tempera e olio su tavola, 252 x 177 cm; Bologna, Basilica di San Petronio) Foto Luca Gavagna – le immagini
Lorenzo Costa, Madonna col Bambino e i santi Sebastiano, Giacomo, Girolamo e Giorgio (pala Rossi) (1492; tempera e olio su tavola, 252 x 177 cm; Bologna, Basilica di San Petronio) Foto Luca Gavagna – le immagini
Lorenzo Costa, San Sebastiano (1492 circa; tempera e olio su tavola, 55 x 49 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi) Su concessione del Ministero della Cultura
Lorenzo Costa, San Sebastiano (1492 circa; tempera e olio su tavola, 55 x 49 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi) Su concessione del Ministero della Cultura
Lorenzo Costa, Adorazione del Bambino (1494 circa; tempera e olio su tavola, 64,5 x 85,8 cm; Lione, Musée des Beaux-Arts) © MBA, foto Alain Basset
Lorenzo Costa, Adorazione del Bambino (1494 circa; tempera e olio su tavola, 64,5 x 85,8 cm; Lione, Musée des Beaux-Arts) © MBA, foto Alain Basset
Lorenzo Costa, Madonna col Bambino e i santi Agostino, Giovanni Evangelista, Francesco e Possidio (pala Ghedini) (1497; tempera e olio su tavola, 268 x 221 cm; Bologna, San Giovanni in Monte) Foto Luca Gavagna – le immagini
Lorenzo Costa, Madonna col Bambino e i santi Agostino, Giovanni Evangelista, Francesco e Possidio (pala Ghedini) (1497; tempera e olio su tavola, 268 x 221 cm; Bologna, San Giovanni in Monte) Foto Luca Gavagna – le immagini
Lorenzo Costa, Adorazione dei magi (1499; olio su tavola, 73,9 x 181,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera) © Pinacoteca di Brera
Lorenzo Costa, Adorazione dei magi (1499; olio su tavola, 73,9 x 181,5 cm; Milano, Pinacoteca di Brera) © Pinacoteca di Brera
Pietro Vannucci detto il Perugino, Arcangelo Gabriele (1502-12; olio su tavola, diametro 102 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria) Su concessione del Ministero della Cultura, foto Sandro Bellu
Pietro Vannucci detto il Perugino, Arcangelo Gabriele (1502-12; olio su tavola, diametro 102 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria) Su concessione del Ministero della Cultura, foto Sandro Bellu
Lorenzo Costa, Ritratto di cardinale (1518-20 circa; olio e tempera su tavola, 81,9 x 76,2 cm; Minneapolis, Minneapolis Institute of Art, The John R. Van Derlip Fund and the William Hood Dunwoody Fund)
Lorenzo Costa, Ritratto di cardinale (1518-20 circa; olio e tempera su tavola, 81,9 x 76,2 cm; Minneapolis, Minneapolis Institute of Art, The John R. Van Derlip Fund and the William Hood Dunwoody Fund)
Lorenzo Costa, Venere (1505-10; olio su tavola, 156 x 65 cm; Collezione privata) Foto Luca Carrà, Milano
Lorenzo Costa, Venere (1505-10; olio su tavola, 156 x 65 cm; Collezione privata) Foto Luca Carrà, Milano

A Palazzo dei Diamanti il pubblico ha dunque l’occasione di visitare una mostra di carattere internazionale, dall’impianto scientifico robusto, forte d’una selezione ben meditata e disposta nelle sale secondo un’organizzazione inappuntabile, che ha richiesto un paio d’anni di preparativi e che ha finito per mettere assieme la più ampia monografica mai realizzata su Ercole de’ Roberti (una ventina le sue opere presenti, e calcolando quanto sia risicato il suo catalogo e quanto delicati siano i suoi dipinti, si potrebbe già esprimere un giudizio positivo anche solo a guardare i numeri) e una rilettura aggiornata dell’intera parabola di Lorenzo Costa (che ne esce non come un mero seguace, e tanto meno come un artista di secondaria rilevanza, ma come uno degli’interpreti più alti di quella stagione, come un pittore forte e originale), il tutto seguendo un progetto che dimostra nei confronti degli studî tradizionali, a cominciare dall’Officina ferrarese di Longhi, un grande rispetto. Buono anche il catalogo, strumento utile non solo per aggiornarsi sulle letture che la mostra offre sugli argomenti che affronta, ma anche per ricapitolare quanto sappiamo su Ercole e Lorenzo, con l’introduzione di Vittorio Sgarbi, i saggi di Giovanni Ricci, Marcello Toffanello e Roberto Cara, e i tanti contributi di Michele Danieli, Valerio Mosso, Valentina Lapierre e Stefano L’Occaso che compongono una solida e lunga cornice entro cui si sistemano le schede delle opere. Un inizio dunque che lascia ben sperare sul prosieguo del progetto Rinascimento a Ferrara, con le successive tappe che indagheranno tutto il Cinquecento ferrarese sino al 1598, anno della Devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio.

Non può infine mancare una nota sui rinnovati spazî dell’ala Rossetti e dell’ala Tisi, unite dal progetto dello studio d’architetture Labics che, all’interno delle sale, ha rivisto le superfici e le pavimentazioni, ha inserito dei particolari portali d’ottone brunito che si presentano al visitatore con affascinanti effetti specchianti che offrono la sensazione di trovarsi all’interno d’un’infilata molto più ampia e lunga di quanto non sia in realtà, ha rivoluzionato gli ambienti destinati all’accoglienza, a cominciare dalla libreria e dalla nuova caffetteria, il tutto allestito nei locali dell’ex Museo del Risorgimento, e soprattutto ha creato un collegamento tra le due ali. Dove prima c’era una sorta di passerella provvisoria che d’inverno esponeva i visitatori al freddo, adesso c’è una struttura in legno con ampie vetrate con continuo affaccio sul grande giardino del palazzo, anch’esso di nuova realizzazione. Una soluzione decisamente più leggera e meno impattante rispetto al progetto iniziale ch’era stato investito da vivacissime polemiche. Una soluzione che contribuisce a rendere le ali Rossetti e Tisi una sede museale ancor più moderna e accogliente. L’ideale per ospitare un lungo progetto sul Rinascimento a Ferrara, di respiro internazionale.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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