Un mondo alto 27 cm: la predella del Polittico Griffoni, capolavoro di Ercole de' Roberti


La predella del Polittico Griffoni, conservata presso la Pinacoteca Vaticana, è un capolavoro di estro e fantasia di Ercole de' Roberti (Ferrara, 1451 - 1496), uno dei grandi artisti della scuola ferrarese del Quattrocento.

Se in un museo o in una chiesa ci si prendesse qualche minuto per osservare il comportamento tipico del pubblico dinnanzi a un polittico, si scoprirebbe che c’è un gran numero di visitatori che dedica poca attenzione alla predella, la osserva con un poco di sufficienza, talvolta neppure ci si sofferma: è, di solito, la parte più trascurata d’un polittico. Malgrado, paradossalmente, la più parte delle volte sia anche quella più facile da osservare, dacché spesso all’altezza degli occhi del riguardante. È un errore, perché ci son spesso predelle che sono più interessanti delle tavole che le sormontano. Vasari era convinto che il caso si desse anche per la predella del Polittico Griffoni: parlando nelle Vite del suo inarrivabile autore, Ercole de’ Roberti, l’aretino scrisse che “dipinse […] in San Petronio, nella cappella di San Vincenzio, alcune storie di figure piccole a tempera, tanto bene e con sì bella e buona maniera che non è quasi possibile veder meglio né imaginarsi la fatica e diligenza che Ercole vi pose, là dove è molto miglior opera la predella che la tavola”.

La predella del Polittico Griffoni oggi vive da sé: le vicissitudini storiche che la complessa macchina da altare dipinta da lui e Francesco del Cossa ha dovuto affrontare negli anni han fatto sì che la predella venisse staccata dal resto dell’opera, e oggi è conservata ed esposta nelle sale della Pinacoteca Vaticana, lontana dagli altri scomparti, che son disseminati tra Milano, Parigi, Londra, Washington, Ferrara, Venezia, Gazzada, Rotterdam. Il polittico era stato smembrato attorno al 1725, quando monsignor Pompeo Aldrovandi, nuovo proprietario della cappella in cui l’opera era serbata, fece rimuovere il dipinto e lo smantellò per ottenere dei quadri da stanza da piazzare nella residenza di famiglia a Mirabello. Scelta sciagurata, non solo perché veniva irrimediabilmente distrutta l’unitarietà dell’insieme, ma anche perché l’operazione si configurava come il preludio di ciò che sarebbe avvenuto dopo: le singole porzioni furono piazzate sul mercato e presero le più svariate destinazioni, senza mai più incontrarsi, fino alla mostra organizzata a Bologna tra il 2019 e il 2020 a Palazzo Fava, che ha riunito il polittico dopo quasi trecento anni.

Tuttavia, anche in occasione della rassegna le varie porzioni sono state esposte separate: erano i facsimile a farsi carico della ricostruzione d’un ipotetico assetto che le varie tavole potevano avere in origine. Il vantaggio consisteva nel fatto che ogni singolo elemento del polittico si poteva ammirare con la dovuta attenzione e precisione. Inclusa la predella di Ercole de’ Roberti.

Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dal Polittico Griffoni (1470-1472; tempera su tavola, 27,5 x 214 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana, inv. 286)
Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dal Polittico Griffoni (1470-1472; tempera su tavola, 27,5 x 214 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana, inv. 286)


Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio
Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio


Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio
Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio


Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio
Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio


Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio
Ercole de’ Roberti, Storie di san Vincenzo Ferrer, dettaglio

Il grande pittore ferrarese aveva qui dipinto i miracolo di san Vincenzo Ferrer, ovvero il santo la cui figura campeggia nello scomparto centrale, dipinto da Francesco del Cossa: il predicatore spagnolo era stato canonizzato nel 1455, la committenza dell’opera era maturata in ambienti domenicani, e l’Ordine si trovava all’epoca impegnato in una complessa operazione di diffusione del culto del nuovo santo. Nella predella, il santo compare due volte: al centro, mentre compie uno dei cinque miracoli descritti da Ercole de’ Roberti in un’unica scena che non ha soluzioni di continuità, e in alto, mentre spunta da una specie di varco interspaziale aperto nel cielo, per compierne un altro. Ercole è un regista formidabile, uno dei migliori del Quattrocento, forse di tutta la storia dell’arte antica: la sequenza che pone davanti ai nostri occhi ha forti accenti cinematografici, è un film avanti lettera, è una storia affascinante raccontata con somma sapienza narrativa, è una finestra aperta su di un mondo colorato, frenetico, bizzarro, è il parto d’una mente che sa organizzare col piglio dell’ingegnere ma sa anche evadere con un visionario estro immaginativo. Perché quelli che Ercole de’ Roberti fissa sulla predella non sono fatti visti e registrati, non sono puntuali resoconti: è semmai “l’immagine fulmineamente apparsa alla mente e subito soverchiata da un’altra che le succede e quasi le si sovrappone”, avrebbe detto Giulio Carlo Argan.

I cinque miracoli di san Vincenzo Ferrer, ovvero la guarigione della donna paralitica, la resurrezione dell’ebrea, il salvataggio del bambino dalla casa in fiamme, la guarigione del ferito e la resurrezione del bambino ucciso dalla madre impazzita, scorrono attraverso un paesaggio a metà tra il reale e il fantastico, che ci appare vivo, ma quasi con la stessa consistenza che hanno i sogni: sembra di viverlo, ma vediamo anche deformazioni grottesche, situazioni surreali, apparizioni inspiegabili.

La frenesia immaginifica di Ercole de’ Roberti si sostanzia, anzitutto, nelle architetture. Longhi, nella sua Officina ferrarese, parlava di “capricci d’inventore di giunti architettonici”, vedendo in queste trovate l’eco di ciò che Ercole aveva già proposto a Palazzo Schifanoia: “archetti a fasci di vimini stipati e legati; modiglioni a cartiglio con doppia voluta profonda, come aveva usato per il carro della Lussuria a Schifanoia e al sommo degli archi entro la pala di San Lazzaro; e, nelle vedute di città lontane, proprio come nella Roma immaginaria entro lo stemma dell ’affresco di Schifanoia, edicolette a scatola sormontate da archi semisepolti, e colombari e trulli, e cupole assire, e rocchetti e bobine”. E poi, nelle pose e negli atteggiamenti: “un repertorio così ricco di moti di arresti, di pause, di spezzature”, scriveva ancora Longhi, “così fiammante e crudele, da traboccar genio per ogni verso”. Negli oltre due metri lungo i quali si sviluppa la predella, Ercole de’ Roberti ha riversato un campionario poliedrico e sfumatissimo di tutte l’emozioni umane: la devozione sentita della paralitica guarita, la concentrazione delle due donne che davanti a lei attendono ai lavori domestici, la rilassata tranquillità dei due uomini in abiti rinascimentali che conversano tra loro, lo stupore agitato di quelli che assistono alla resurrezione della donna in abiti rossi, la disperazione della madre che vede il bambino sul tetto della casa minacciata dall’incendio, la fatica degli uomini al lavoro per spegnerlo, la fiducia serafica del piccolo che vede apparire il santo e comprende che forse le cose si metteranno al meglio Si guardi poi la straordinaria varietà delle pose del variopinto mondo di Ercole: l’uomo che raccoglie l’acqua dal pozzo, quello che, con citazione dallo Spinario capitolino, si guarda la ferita, la donna addormentata, il bimbo che si mette le mani in bocca. C’è tutta l’umanità, nella sua predella: uomini e donne d’ogni colore che il santo domenicano protegge sbucando dal cielo ed estendendo il suo gesto salvifico su quella selva d’architetture aperte, case in rovina e templi magnifici, nella quale l’artista riversa tutta la sua cultura antiquaria.

Ci sembra quasi che i miracoli diventino un pretesto per dar libero sfogo alla fantasia: Ercole non sarà un artista eretico, ma di sicuro è un pittore totalmente anticonvenzionale. Per Argan, la sua predella è un puro meccanismo d’immaginazione, che pur non rinunciando al dinamismo lineare ch’era tipico di Cosmè Tura e di tutta la scuola ferrarese, salta le motivazioni religiose che animavano le opere di Tura. “Poetica dell’eccitazione”, diceva Argan. Difficile non dargli ragione.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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