Ambrogio Lorenzetti, la prima monografica del grande protagonista del Trecento


Recensione della mostra 'Ambrogio Lorenzetti' a Siena, Complesso di Santa Maria della Scala, dal 22 ottobre 2017 al 21 gennaio 2018.

Per avere un’idea di quanto sia importante e di quanta considerazione abbia goduto fin da tempi antichi l’arte del grande Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa - 1348), potrebbe essere sufficiente un semplice esercizio: scorrere i Commentarii di Lorenzo Ghiberti e soffermarsi sulle pagine dedicate al Trecento senese. Le sorprese sono diverse: intanto, scopriremmo che Ghiberti riteneva Lorenzetti non solo “altrimenti dotto che nessuno degli altri”, ma financo “molto migliore” rispetto a un altro dei massimi esponenti della scuola senese del tempo, Simone Martini, nome col quale forse gli appassionati d’arte hanno più confidenza. E soprattutto, qualcuno potrebbe accorgersi del fatto che, nei Commentarii, lo spazio dedicato a quel “famosissimo et singularissimo maestro” che fu Lorenzetti, è maggiore, seppur di poco, di quello riservato a un pilastro della storia dell’arte italiana quale è Giotto, artista che, superfluo rimarcarlo, necessita di poche presentazioni. Potremmo quasi rimaner stupiti da tanta considerazione, dacché la fortuna critica ha arriso più a Simone e a Giotto che ad Ambrogio, il cui nome, nel corso della storia, ha conosciuto alti e bassi: tenuto in gran pregio nel Rinascimento, poco considerato nel Seicento e quasi dimenticato nel Settecento, rivalutato verso la fine del secolo e di nuovo in auge nell’Ottocento, snobbato da Berenson e in un primo momento anche da Longhi, tornato all’attenzione degli studiosi all’incirca alla metà del secolo scorso.

E ancora oggi vige una certa resistenza a considerare Ambrogio Lorenzetti al di là di quella che è l’opera che più d’ogni altra l’ha consegnato alla storia dell’arte, ovvero il ciclo del buono e del cattivo governo che adorna la Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena e che tanta gloria ha procurato e continua a procurare al suo autore. Non è un caso se l’ultima monografia sul pittore è un lavoro ormai datato (fu pubblicata nel 1958, e autore era George Rowley, studioso americano della Princeton University che contribuì in maniera determinante all’odierna rivalutazione del genio lorenzettiano) e se nessuna mostra monografica gli era mai stata dedicata sinora. A colmare le lacune, a focalizzare l’attenzione su tutta la produzione del grande artista senese, a fare il punto sugli studî che lo riguardano e, in definitiva, a provare a stabilire un discorso il più possibile completo su Ambrogio Lorenzetti, giunge quest’anno una mostra d’importanza capitale, intitolata, molto semplicemente, Ambrogio Lorenzetti, in corso negli spazî del complesso di Santa Maria della Scala a Siena.

Un evento che i tre curatori, Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel, non esitano a definire senza precedenti. Ma non si tratta d’una mera formula commerciale adoperata per richiamare torme di visitatori all’ombra del Duomo. La mostra senese è veramente unica, e non solo per il fatto che rappresenta la prima monografica mai dedicata ad Ambrogio Lorenzetti. Al Santa Maria della Scala abbiamo infatti l’occasione di veder radunata la quasi totalità della produzione mobile dell’artista: occasione che, probabilmente, non si ripeterà, o almeno non in un futuro prossimo. Abbiamo l’opportunità di vedere gli affreschi strappati di Montesiepi (il cui restauro eseguito per l’occasione è terminato pochi mesi fa) organizzati in un allestimento che ci porta idealmente dentro l’eremo di san Galgano, prima a livello del terreno per osservar da vicino gli affreschi del primo registro, e poi come fossimo a tre di metri d’altezza per guardare alle lunette in un modo altrimenti impossibile senza salire su eventuali ponteggi. Abbiamo la possibilità di godere d’un percorso espositivo che s’avvale di pochi confronti, ma puntuali ed efficaci, che inquadra in senso cronologico la produzione di Ambrogio Lorenzetti e la presenta forte d’un apparato didascalico chiarissimo e sobrio, oltre che, ovviamente, d’un progetto dotato d’elevato rigore scientifico. Un percorso che, val la pena evidenziare, è particolarmente adatto a un pubblico eterogeneo, che potrà così familiarizzare con le tante facce di Ambrogio Lorenzetti, che nella Sala dei Nove fu pittore in grado di raggiungere il più ammirevole risultato del tempo in un affresco di destinazione civile (così scriveva Alessandro Conti), ma che fu anche pittore capace di sorprendenti invenzioni iconografiche, colto conoscitore della letteratura del suo tempo, artista raffinato, versatile e innovativo.

Sussiste poi un ulteriore motivo d’interesse: Siena, negli anni della crisi, aveva perso il ruolo di protagonista della vita culturale italiana che per lungo tempo aveva ricoperto. Solo pensando all’ambito delle esposizioni, l’ultimo evento di rilievo era stata la mostra sul primo Rinascimento a Siena, sette anni fa. Quest’anno, la mostra sul “buon secolo della pittura senese” prima, quella sulla collezione Salini poi, e adesso la monografica su Ambrogio Lorenzetti, e ancora la messa in sicurezza e la riapertura di Palazzo Squarcialupi, la porzione del complesso di Santa Maria della Scala che ospita l’esposizione e i cui ambienti sono quanto mai idonei a mostre di grande respiro, compongono un quadro che potrebbe farci ricordare il 2017 come l’anno del rilancio culturale della città. Ogni considerazione è ovviamente prematura, ma le premesse lasciano ben sperare.

Mostra di Ambrogio Lorenzetti a Siena
Mostra di Ambrogio Lorenzetti a Siena


Una sala della mostra di Ambrogio Lorenzetti a Siena
Una sala della mostra di Ambrogio Lorenzetti a Siena


Corridoio con opere di Ambrogio Lorenzetti alla mostra di Siena
Corridoio con opere di Ambrogio Lorenzetti alla mostra di Siena

Il percorso della mostra s’apre con una ricostruzione del contesto entro cui nacque e si sviluppò il genio di Ambrogio Lorenzetti. Ed è demandato a suo fratello Pietro il compito d’avviarlo: sulla destra, entrando nella prima sala, troviamo la Madonna col Bambino di Castiglione d’Orcia, un’esile Vergine dal sapore duccesco (l’opera è riconducibile alla prima fase della carriera di Pietro Lorenzetti) che tiene tra le mani un Gesù Bambino il quale, a sua volta, le si rivolge con un’espressività viva, indicativa di come la nuova generazione, cui appartiene anche Ambrogio, sta già intraprendendo una strada diversa rispetto a quella tracciata dal grande maestro, all’insegna di un plasticismo più definito e d’una più naturale resa degli affetti. Occorre tener a mente questa Madonna per quando s’incontreranno le opere di Ambrogio nelle sezioni successive. Marcatamente duccesco è poi il saldo e tradizionale Redentore benedicente di Simone Martini, vicino al maestro al punto che diversi studiosi lo hanno ritenuto opera giovanile, mentre in mostra è proposta una datazione al 1318-1320, dovuta alla presenza di dettagli simili a quelli ravvisabili in opere dipinte dall’artista in quel lasso di tempo. A concludere la carrellata della grande pittura senese del Trecento, troviamo lo stesso Duccio di Buoninsegna: le Storie della Passione dalla Maestà di Massa Marittima, opera peraltro decisamente problematica data la difformità stilistica che la caratterizza, lasciano aperto il campo a ipotesi che vogliono un giovane Ambrogio colpito in particolare dalla scena della crocifissione, della quale ritroviamo alcune caratteristiche nella sua prima opera che incontriamo in mostra, la Crocifissione della Collezione Salini.

Quest’ultima è un quadretto di ridotte dimensioni, autorevolmente riferito per la prima volta ad Ambrogio da Miklós Boskovits nel 1986, e si distingue tanto per i debiti nei confronti di Duccio di Buoninsegna (si osservi il paesaggio entro cui ha luogo la scena, del tutto simile a quello che s’è potuto apprezzare nelle Storie della Passione di Duccio, ma anche la figura del Giovanni evangelista, che s’ispira palesemente agli angeli della crocifissione duccesca di Massa Marittima) quanto per una nuova sensibilità resa evidente da certe soluzioni formali (il punto di vista ribassato della crocifissione, per esempio) e da alcuni dettagli quali i connotati della Vergine, pressoché identica alla Madonna che troviamo nella Crocifissione della basilica di San Francesco a Siena o alla frammentaria Madonna dolente della sala capitolare di San Francesco, entrambe opere di Pietro: la seconda, peraltro, è presente in mostra (arriva in prestito dalla National Gallery di Londra). Datata 1319 è invece la sontuosa Madonna di Vico l’abate, conservata al Museo d’Arte Sacra di San Casciano in val di Pesa: la pienezza volumetrica della Madonna, capace di contrastare la severa frontalità dal gusto arcaicizzante che viene a sua volta mitigata dallo sguardo vivacissimo del Bambino, ha dato adito a più d’un dibattito tra gli studiosi a proposito d’eventuali legami con la pittura giottesca, che sicuramente l’artista conobbe (probabilmente anche grazie al tramite di Simone Martini e di Pietro) e alla quale parrebbero rimandare anche i tentativi di tridimensionalità che il trono in prospettiva palesa. Certo è che proprio quel contrasto tra la fissità della madre e l’irrequietezza del figlio (da notare poi il particolare, splendido, della manina destra che tira il velo da sotto, lasciando intravedere le forme sotto le pieghe rosse) rappresenta una delle prime novità iconografiche sperimentate da Ambrogio Lorenzetti.

Pietro Lorenzetti, Madonna col Bambino
Pietro Lorenzetti, Madonna col Bambino (1310-1315 circa; tempera, oro e argento su tavola, 73 x 52 cm; Castiglione d’Orcia, pieve dei Santi Stefano e Degna)


Simone Martini, Redentore benedicente
Simone Martini, Redentore benedicente (1318-1320 circa; tempera e oro su tavola, 38,3 x 28,5 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani)


Duccio di Buoninsegna, Storie della Passione, dettaglio con la scena della Crocifissione
Duccio di Buoninsegna, Storie della Passione, dettaglio con la scena della Crocifissione (in corso di esecuzione nel 1316; oro e tempera su tavola, 161,5 x 101,5 cm; Massa Marittima, Cattedrale di San Cerbone)


Ambrogio Lorenzetti, Crocifisso con Maria e san Giovanni evangelista dolenti
Ambrogio Lorenzetti, Crocifisso con Maria e san Giovanni evangelista dolenti (1317-1319 circa; tempera e oro su tavola, 33,5 x 23 cm; Asciano, Castello di Gallico, Collezione Salini)


Pietro Lorenzetti e bottega, Madonna dolente
Pietro Lorenzetti e bottega, Madonna dolente (1320-1325 circa; affresco distaccato e applicato su supporto rigido a struttura alveolare, 39 x 30 cm; Londra, National Gallery)


Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono
Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono (1319; tempera e oro su tavola, 148,5 x 78 cm; San Casciano in Val di Pesa, Museo d’Arte Sacra “Giuliano Ghelli”)

La Vergine perderà la sua rigidezza acquisendo una materna amorevolezza e si farà nuovamente più esile, ma parimenti salda nelle volumetrie, nella meravigliosa Madonna del latte del Museo Diocesano di Siena, dove la vivacità del Bambino, che scalcia con inusitata naturalezza mentre afferra con voracità tutta infantile il seno materno, tocca uno dei suoi apici: ulteriori conquiste verso una pittura più vicina alla sensibilità dell’osservatore, una pittura che, affermava Enzo Carli negli anni Sessanta, dimostra, rispetto a quella di Pietro, “una più complessa, sottile e variegata disposizione sentimentale”, alla quale occorre unire quel “più acuto ed alacre spirito di ricerca tanto nel campo stilistico quanto in quello iconografico” cui s’è più volte fatto riferimento. Uno sperimentalismo che portò Ambrogio a misurarsi anche con l’arte del vetro: la mostra senese ci presenta anche un San Michele arcangelo dipinto su vetro, il cui volto, con gli occhi quasi a mandorla e il chiaroscuro che mette in risalto il mento e il collo, rimanda senza troppi dubbî alla stessa Madonna del latte, lasciando aperta l’ipotesi che le due opere, pur senz’avere appigli per una datazione sicura e incontrovertibile, siano state realizzate a distanza ravvicinata.

È invece un punto fermo della produzione di Ambrogio Lorenzetti il celebre Trittico di San Procolo, che il visitatore incontra nella sala successiva, e che fa parte del novero d’opere restaurate in vista dell’esposizione. Le tre tavole vedono al centro una Madonna col Bambino, e ai lati san Nicola a sinistra e san Procolo a destra: le tre figure sono sormontate da cuspidi che presentano, rispettivamente, il Redentore benedicente e i santi Giovanni evangelista e Giovanni Battista. Punto fermo, e tuttavia non immune da problemi, dal momento che le tre tavole furono divise quando la chiesa di San Procolo a Firenze subì dei lavori d’ammodernamento, con tutto ciò che ne conseguì: i commentatori, vedendo le tavole laterali solitarie, attribuirono ad altre mani le figure dei due santi, mentre la Madonna andò dispersa. A fare chiarezza occorsero l’intuito di Frederick Mason Perkins, che nel 1918 ristabilì la paternità lorenzettiana delle due tavole laterali, e quello di Giacomo De Nicola che, negli anni Venti del secolo scorso, rintracciò la Madonna, che era stata acquistata nel 1915 da Bernard e Mary Berenson sul mercato antiquario, e la ricondusse allo smembrato trittico di Ambrogio. Berenson decise poi di donare la tavola agli Uffizi nel 1959, così che l’opera poté essere finalmente riunita. Opera problematica, poi, anche dal punto di vista stilistico, dal momento che un certo scarto qualitativo nelle figure dei due santi laterali ha portato taluni a ipotizzare la presenza di collaboratori. Comunque la si voglia pensare, è innegabile che Ambrogio, in questo suo trittico, accolga un preziosismo e un’eleganza formale che avvicinano la sua arte a quella di Simone Martini: le figure più slanciate, il gusto per gli ornamenti raffinati tipico dell’arte senese del tempo, che non ebbe eguali quanto a ricercatezza delle decorazioni (si notino i paramenti liturgici dei due santi, decorati con motivi di grandissima finezza, il pastorale di san Procolo, la bordatura del manto della Vergine, e persino il velo raccolto sul collo), sono segni che ben evidenziano questo rapporto. Ambrogio, poi, non vuol certo perdere la freschezza che caratterizza la resa dei sentimenti: il gioco di mani tra la Madonna e il Bambino, con lei che lo tiene affettuosamente e disinvoltamente sul braccio destro, e con lui che si trastulla col dito indice della madre, è un dettaglio dotato d’una gran forza emotiva.

Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte
Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte (1325 circa; tempera e oro su tavola, 96 x 49,1 cm; Siena, Museo Diocesano)


Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte, particolare
Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte, particolare


Ambrogio Lorenzetti, San Michele
Ambrogio Lorenzetti, San Michele (1325-1330 circa; vetri policromi dipinti a grisaglia e in parte sgraffiti, assemblati con profilature di piombo saldate a stagno, 82 x 63 cm; Siena, Palazzo Pubblico, Museo Civico)


Ambrogio Lorenzetti, Trittico di san Procolo
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di san Procolo (1332; tempera e oro su tavola, 169,5 x 56,4 cm il pannello centrale, 146,5 x 41,4 cm i pannelli laterali; Firenze, Galleria degli Uffizi)

Uno stretto passaggio ci immette quindi nel primo dei due ambienti dedicati agli affreschi dell’eremo di Montesiepi. I curatori non hanno perso occasione, in presentazioni e interviste, per ricordare quanto scalpore fece sui committenti il ciclo che Ambrogio Lorenzetti immaginò per l’eremo edificato sul luogo dove san Galgano trascorse il proprio romitaggio. Lo notiamo osservando la scena dell’Annunciazione, con la figura della Vergine ridipinta in modo più canonico e tradizionale, dopo che l’artista aveva escogitato un’originalissima soluzione iconografica, che probabilmente i committenti non gradirono: Maria era inizialmente aggrappata alla colonna, spaventata dalla presenza dell’angelo. Lorenzetti, ha spiegato la studiosa Eve Borsook in un suo contributo del 1969 (di cui il catalogo ci dà conto: la scheda dedicata agli affreschi di Montesiepi redatta da Max Seidel e Serena Calamai è in realtà, per consistenza e livello d’approfondimento, un saggio che potrebbe tranquillamente essere autonomo), si rifece alle descrizioni dei pellegrini che tornavano dalla Terra Santa e che ricordavano come nella camera in cui, secondo la tradizione, aveva avuto luogo l’Annunciazione, fosse presente la colonna alla quale la Madonna si strinse per la paura quando arrivò l’angelo annunciante. Alle scene del registro inferiore, che vediamo nel primo ambiente, appartiene anche la veduta di Roma che richiama il pellegrinaggio che san Galgano compì nella Città Eterna: una raffinata veduta urbana dove spicca la mole di Castel Sant’Angelo, edificio dedicato a san Michele, protettore di san Galgano. Vediamo l’arcangelo sulla sommità di Castel Sant’Angelo, raffigurato nell’atto di riporre la spada: un’ulteriore invenzione di Ambrogio Lorenzetti che vuole richiamare il gesto di san Galgano che, spronato da san Michele, abbandonò la sua vita da cavaliere per darsi all’ascesi e alla meditazione.

L’incontro tra san Galgano e san Michele è sintetizzato negli affreschi delle lunette, che troviamo nella sala successiva: Galgano, ancora vestito da cavaliere, procede verso Michele portandogli la spada nella roccia (quella che ancor oggi possiamo osservare nell’eremo di Montesiepi), a suggellare il definitivo abbandono della sua precedente esistenza guerresca per abbracciare una vita di rigore monastico. Con la mano, l’arcangelo indica la lunetta centrale, dove troviamo la raffigurazione della Madonna in trono tra santi, allusione a una delle visioni di san Galgano: centrale è la meditazione sul tema della redenzione, cui allude la figura in primo piano di Eva, posta ai piedi del trono della Vergine (ulteriore invenzione iconografica di Ambrogio Lorenzetti, destinata a suggestionare diversi artisti delle generazioni successive) e recante un cartiglio in volgare che spiega all’osservatore come Eva abbia peccato “pe(rc)hé passione ne soferse Xr(ist)o che questa Reina sorte nel ventre a nostra redentione”. Aver riunito tutti gli affreschi in un allestimento che ne ricompone la disposizione all’interno dell’eremo è presupposto indispensabile per una piena comprensione della portata del ciclo, che Ambrogio concepì secondo una sostanziale unità della composizione, ben illustrata in catalogo: l’artista non volle infatti dar conto delle vicende del santo secondo una scansione paratattica, bensì aspirò a “condensare tutte le idee narrative in un’unica concezione figurativa: Maria Regina in trono con la corte celeste che unifica le tre lunette”. Ed è entro questa unitarietà che trovano spazio gli episodî della vita di san Galgano.

Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, Annunciazione
Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, Annunciazione (1334-1336; 238 x 441 cm; affresco, Chiusdino, chiesa di San Galgano a Montesiepi)


Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, Veduta di Roma
Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, Veduta di Roma (1334-1336; affresco, 240 x 598 cm; Chiusdino, chiesa di San Galgano a Montesiepi)


L'ambiente che mostra le lunette di Montesiepi
L’ambiente che mostra le lunette di Montesiepi


Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, dettaglio della figura di Eva
Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, dettaglio della figura di Eva


Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, dettaglio dell'incontro tra san Galgano e san Michele
Ambrogio Lorenzetti, Affreschi di Montesiepi, dettaglio dell’incontro tra san Galgano e san Michele

Si prosegue con i capolavori degli anni Trenta: particolarmente felice l’idea di aver messo in dialogo il Trittico di Badia a Rofeno, opera conservata presso il Museo Civico Corboli di Asciano e dotata d’un movimentato ritmo narrativo che vede Ambrogio opporre “alla concitazione del pannello centrale la calma ieratica dei santi Bartolomeo e Benedetto che gli stanno ai lati” (così in catalogo il giovanissimo Marco Fagiani, che per l’opera propone una datazione prossima al 1337), con i quattro santi del Museo dell’Opera del Duomo di Siena: si tratta infatti di due opere legate tra loro, e il trittico ascianese, negli anni Venti del secolo scorso, fu assegnato ad Ambrogio Lorenzetti proprio in virtù delle somiglianze delle sue figure con quelle delle quattro tavole senesi, a loro volta affini ai santi del trittico di San Procolo, dai quali tuttavia si distinguono per una maggior plasticità. La sala è chiusa, sul fondo, dalla spettacolare Maestà di Massa Marittima, opera colma di rimandi letterarî. La raffigurazione delle tre virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) ai piedi della Madonna, sui tre gradoni del trono che si presentano nei rispettivi tre colori (il rosso per la carità, il verde per la speranza, il bianco per la fede), è pregna di riferimenti alla letteratura, dalla Commedia di Dante Alighieri (canto XXIX del Purgatorio: “Tre donne in giro, dalla destra rota, / venian danzando: l’una tanto rossa / ch’appena fora dentro al foco nota; / l’altr’era come se le carni e l’ossa / fossero state di smeraldo fatte; / la terza pareva neve testè mossa”) a Jacopone da Todi (“Amor de caritate, perché m’hai sì ferito? / Lo cor tutt’ho partito, ed arde per amore. / Arde ed incende, nullo trova loco: / non può fugir però ched è legato; / sì se consuma como cera a foco”), mentre nelle figure dei santi, che ci appaiono caratterizzati individualmente, si può notare un certo gusto per la narrazione, particolarmente evidente se s’osserva la figura di san Cerbone, il santo patrono di Massa Marittima, accompagnato dalle oche, suo tipico attributo iconografico: la leggenda vuole infatti che il santo abbia parlato ad alcune oche selvatiche, e quest’ultime lo abbiano seguito accompagnandolo a Roma.

Si torna indietro e s’imbocca l’ultimo corridoio, dove troviamo le opere degli ultimi anni: la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta segnano il grande successo di Ambrogio Lorenzetti, impegnato nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico, e allo stesso tempo attivo per commissioni che gli giungevano da tutto il territorio della Repubblica di Siena (è peraltro proprio nel senese che ancora oggi si conserva gran parte della sua produzione nota). Tra queste, interessante è il polittico della Maddalena, attribuito ad Ambrogio nell’Ottocento e proveniente forse dal convento di Santa Maria Maddalena a Siena: in mostra è stato ricostruito con tanto di “comunichino”, la grata che consentiva alle monache di clausura di ascoltare la messa. Le figure si caratterizzano per quella ricerca orientata a volumetrie ancor più salde che marca gli esiti estremi dell’arte di Ambrogio Lorenzetti, e che puntualmente ritroviamo nelle ultime opere che l’esposizione senese ci presenta, segnatamente quella che conclude il percorso, l’Annunciazione proveniente dal Palazzo Pubblico di Siena (si tratta di un’opera di committenza civica, come testimoniano i nomi delle autorità iscritti nel basamento della tavola) e attualmente conservata presso la Pinacoteca Nazionale, opera che “concordemente rappresenta oggi uno dei capolavori della maturità lorenzettiana, nel quale un meditato senso dello spazio si coniuga felicemente con la raffinata squisitezza che pervade l’opera” (così Alessandra Caffio nella scheda in catalogo). Infatti inedita è qui la ricerca di una tridimensionalità cui l’artista tende con un’impostazione spaziale che vede il suo protagonista principale nel pavimento a scacchi che il pittore prova a scorciare in una prospettiva pur empirica, ma per l’epoca estremamente coerente e innovativa. È il sintomo più evidente di una maggior tendenza al naturalismo che, pur senza rinunciare alla raffinatezza che guarda a Simone Martini (si noti la figura di Dio Padre realizzata a sgraffito con preziosismo da orefice), connota le ultime opere di Ambrogio, come dimostrano parimenti le volumetrie dei personaggi e certe soluzioni quali il pollice che l’arcangelo Gabriele punta verso se stesso e la resa scultorea del trono della Vergine. Impossibile uscire dalla mostra senz’aver dato un’occhiata a una particolarità come la coperta lignea del registro delle entrate e delle uscite della Gabella (un’antica magistratura del Comune di Siena) recante un’allegoria della città, raffigurata come un uomo canuto in trono vestito con i colori di Siena, il bianco e il nero (personificazione del Comune, o del buon governo) che poggia i piedi sulla lupa capitolina, simbolo di Siena in quanto allusione alla mitica fondazione della città a opera dei figli di Remo. Occorre tuttavia evidenziare come non tutta la critica sia concorde nell’ascrivere alla produzione di Ambrogio la coperta conservata presso l’Archivio di Stato di Siena.

Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno
Ambrogio Lorenzetti, Trittico di Badia a Rofeno (1332-1337 circa; tempera e oro su tavola, 123,1 x 102,5 cm il pannello centrale, 103,8 x 45 cm i pannelli laterali, 88,5 x 91,8 cm la cuspide centrale, 43 x 35 cm le laterali; Asciano, Museo Civico Archeologico e d’Arte Sacra di Palazzo Corboli)


Ambrogio Lorenzetti, Maestà
Ambrogio Lorenzetti, Maestà (oro, argento, lapislazzuli e tempera su tavole di legno di pioppo, altezza 161 cm il pannello centrale, 147,1 i laterali, larghezza 206,5 cm; Massa Marittima, Museo d’Arte Sacra)


Ambrogio Lorenzetti, Maestà, dettaglio della figura della Carità
Ambrogio Lorenzetti, Maestà, dettaglio della figura della Carità


Ambrogio Lorenzetti, Polittico della Maddalena
Ambrogio Lorenzetti, Polittico della Maddalena (1342-1344 circa; tempera e oro su tavola; Siena, Pinacoteca Nazionale)


Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione
Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione (1344; tempera e oro su tavola, 121,5 x 116 cm; Siena, Pinacoteca Nazionale)


Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, dettaglio
Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, dettaglio


Ambrogio Lorenzetti, Coperta per il registro di Gabella
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria di Siena, coperta del registro di Gabella (1344; tempera su tavola, 41,8 x 24,7 cm; Siena, Archivio di Stato)

Il visitatore può proseguire il viaggio nella produzione di Ambrogio Lorenzetti fuori dalla mostra, in città, dove lo aspettano gli affreschi di Palazzo Pubblico, quelli della basilica di San Francesco, la Maestà di Sant’Agostino, ideale continuazione dell’esposizione che si dipana nelle sale del Santa Maria della Scala e che, come anticipato in apertura, rappresenta una delle mostre di spicco dell’anno, nonché uno degli eventi espositivi più importanti per l’arte del Trecento da diverso tempo a questa parte, capace di restituire una dimensione consona a uno dei grandi protagonisti della pittura europea del quattordicesimo secolo.

Il catalogo, un notevole tomo di quasi cinque chilogrammi, pur mancando d’un saggio che dia al lettore una sintetica visione d’insieme, si pone come nuova monografia aggiornata, che s’avvale, oltre che dei saggi dei curatori e di alcuni affermati storici dell’arte, ance dei contributi d’un pool di giovanissimi studiosi, tutti tra i trenta e i trentacinque anni d’età, che meritano d’essere citati uno per uno, data anche la consistenza delle sezioni da loro curate: Alessandra Caffio, autrice d’un saggio sui perduti affreschi di Ambrogio Lorenzetti per la facciata dell’ospedale di Santa Maria della Scala (occorre dunque ribadire come non ci fosse per la mostra luogo più adatto), Serena Calamai, co-autrice insieme a Seidel d’un lungo saggio sulle invenzioni iconografiche di Ambrogio Lorenzetti, e ancora Marco M. Mascolo, che insieme ad Alessandra Caffio ha firmato il saggio sul Lorenzetti “pittore civico” nella Sala dei Nove di Palazzo Pubblico, Gina Lullo, cui è toccato il compito di compilare il saggio sulla Maestà e i perduti affreschi di Sant’Agostino, e infine Federica Siddi, con un contributo sulla tavola per l’altare di San Crescenzio nel Duomo di Siena. Occorre poi aggiungere i nomi d’altri giovani, d’età compresa tra i ventisei e i trentasei anni, che, assieme ai loro colleghi appena menzionati, si sono occupati d’alcune schede: Gianluca Amato, Federico Carlini, Marco Fagiani, Francesca Interguglielmi, Sabina Spannocchi, Ireneu Visa Guerrero. Alla mostra dunque l’elevatissimo merito d’aver saputo puntare sui giovani: operazione che, fuori d’ogni retorica, si può dire riuscitissima, e dona all’esposizione un sapore fresco, che la rende ancor più degna d’essere visitata.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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