L'uomo vitruviano come simbolo di squilibrio: Mario Ceroli reinterpreta Leonardo da Vinci


A Vinci, una grande scultura in legno, 'L'Uomo di Vinci', uno dei capolavori di Mario Ceroli, reinterpreta l'Uomo Vitruviano di Leonardo come simbolo di squilibrio.

La storia di una delle opere d’arte contemporanea più note e fotografate di tutta la Toscana, ovvero L’Uomo di Vinci di Mario Ceroli (Castel Frentano, 1938), la monumentale scultura in legno che omaggia l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci (Vinci, 1452 - Amboise, 1519), ha inizio lontano dall’Italia. È il 1967 e Mario Ceroli si trova a Graz, in Austria, dove è stato invitato per esporre alla mostra Trigon ’67, in programma dal 5 settembre al 15 ottobre di quell’anno alla Kunstlerhaus: è una sorta di biennale, fondata nel 1963, alla quale partecipano artisti di tre nazioni, ovvero Italia, Austria e Jugoslavia. Il tema di quella terza edizione era l’ambiente: gli artisti erano stati chiamati a proporre opere che potessero interagire con lo spazio in cui erano immerse.

Ceroli, all’epoca ventinovenne, era un artista che s’era già distinto per l’originalità della sua proposta. Proveniente da una famiglia di modeste condizioni economiche, aveva già sperimentato tutti i possibili materiali, dal marmo alla stoffa, dalla carta alla ceramica, ma è con il legno che trova la dimensione che gli è più congeniale: il legno è un materiale povero (e occorre notare come Ceroli sia stato un anticipatore di quella tendenza che, dal 1967 in poi, sarebbe stata definita da Germano Celant “arte povera”, e alla quale fu associato anche Ceroli stesso), ed è un materiale che consente all’artista di lavorare in completa autonomia sull’opera d’arte, senza necessità di un collaboratore che debba dedicarsi a preparativi per permettere allo scultore di dar forma alla propria creazione. Aveva cominciato la propria sperimentazione sul legno già nel 1960, affascinato dalla pop art americana, al cui linguaggio erano legati alcuni modi tipici della scultura di Ceroli, come la serialità degli elementi ripetuti in maniera quasi ossessiva, oppure l’abitudine di creare le composizioni con sagome ritagliate (nel caso di Ceroli, ritagliate nel legno grezzo). Spesso la serialità diventa essa stessa il tema della composizione: “Ceroli”, scriveva Maurizio Calvesi, “si propone temi nei quali la serialità risulta non già come un mezzo illusorio di sollecitazione e moltiplicazione dell’immagine, ma coincide con il tema stesso, con l’idea stessa da rappresentare”. In altri termini: quando Ceroli decide di rappresentare una fila di persone, l’opera “non nasce dall’idea”, bensì “dall’idea di rappresentare l’idea della fila: lo schema visibile dell’uomo in fila”. È una sorta di esplorazione delle possibilità dell’immagine, e delle possibilità che l’immagine ha d’interagire con lo spazio.

Il pubblico e la critica avevano avuto modo d’apprezzare queste idee già nel 1966, in un’importante mostra personale alla Galleria La Tartaruga di Roma, dove Ceroli aveva esposto, tra le varie opere, L’ultima cena realizzata un anno prima, e oggi conservata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, che la acquistò a seguito dell’esposizione. La serialità, in quest’opera, si fa addirittura drammatica, dal momento che la ripetizione delle sagome, tutte identiche, dei dodici apostoli, fa risaltare l’assenza di Cristo al centro: la perfezione della serialità è interrotta, quasi che gli uomini siano stati abbandonati dalla divinità. Altro capolavoro di quegli anni è La Cina, sempre del 1966, una delle prime opere della storia dell’arte che andava a occupare un intero ambiente facendo sì che lo spettatore fosse direttamente coinvolto: tema questo che, del resto, sarebbe stato approfondito proprio durante la mostra austriaca del 1967. In quest’opera, scriveva ancora Calvesi, “si ha invece, in qualche modo, la celebrazione anch’essa larvatamente ideologica di un’umanità corale, positivamente collettiva, né meglio potrebbe essere visualizzato il senso della compattezza”: lo studioso, peraltro, notava come ancora non fossero stati scoperti i celebri guerrieri di terracotta, alla cui immagine sembrano rimandarci le figure dei cinesi dell’artista abruzzese, e il cui rinvenimento avrebbe attestato “la verità quasi miracolosa dell’intuizione di Ceroli”. E se un’opera come La casa di Dante del 1965 testimoniava l’interesse di Ceroli per gli spazi abitabili, con l’esplorazione delle possibilità d’interazione tra l’uomo e gli ambienti di un’abitazione, la propria personale rilettura dell’arte antica (del resto presente anche ne La casa di Dante, dove una delle sagome femminili è un ritratto muliebre del Pollaiolo) si poneva all’attenzione di tutti con La Cassa Sistina, che aveva vinto il premio di scultura della Biennale di Venezia nel 1966. La fantasiosa idea che in futuro interi monumenti come il Colosseo o la Cappella Sistina possano essere smontati e spediti in ogni angolo del mondo (e, dato l’attuale sistema delle mostre, possiamo dire che Ceroli ebbe all’epoca un’altra visionaria intuizione), aveva suggerito all’artista l’esigenza di realizzare una sorta di cassa d’imballaggio della Cappella Sistina: dapprima vuota, fu poi popolata di personaggi che evocavano quelli degli affreschi smontati e sistemati per essere trasportati, e diventò un ambiente percorribile dagli spettatori, sempre in accordo con le ricerche di Ceroli sull’interazione tra spettatore e spazio.

Mario Ceroli, L'ultima cena
Mario Ceroli, L’ultima cena (1965; legno, 147 x 230 x 65 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Mario Ceroli, La Cina
Mario Ceroli, La Cina (1965; pino di Russia, 200 x 500 x 1000 cm; proprietà dell’artista. Courtesy Mario Ceroli, Roma)


Mario Ceroli, La Casa di Dante
Mario Ceroli, La Casa di Dante (1965; pino di Russia, 248 x 353 x 145 cm; proprietà dell’artista. Courtesy Mario Ceroli, Roma)


Mario Ceroli, Cassa Sistina
Mario Ceroli, Cassa Sistina (1966; pino di russia, 200 x 300 x 230 cm; proprietà dell’artista. Courtesy Mario Ceroli, Roma)

Il rapporto con il Rinascimento fu sempre costante fonte d’ispirazione per Mario Ceroli, che già nel 1964 aveva lavorato sul tema dell’Uomo vitruviano di Leonardo, con l’opera L’uomo di Leonardo: si trattava di una scultura che riproponeva, in legno, lo schema dell’Uomo vitruviano, e che s’inseriva nell’ambito d’un filone molto praticato da Ceroli, che in quegli anni aveva cominciato a creare sagome dei personaggi della grande arte del passato. L’uomo di Leonardo non era tanto un’interpretazione dell’opera, quanto una sorta di traduzione in legno, che però conteneva già alcuni motivi che sarebbero stati poi sviluppati nelle successive opere sul tema. Intanto, malgrado l’impressione di bidimensionalità, non si trattava di un’opera concepita esclusivamente per la visione frontale, dal momento che il quadrato era in realtà una figura dotata di un suo spessore, la sagoma con braccia e gambe divaricate era scavata nel legno, la figura era fornita di un retro, e l’uomo di Leonardo aveva le fattezze dello stesso Ceroli, che aveva dunque voluto autoritrarsi come uomo vitruviano.

Nel 1967, per la mostra di Graz, Ceroli realizzò una nuova versione de L’uomo di Leonardo, che avrebbe intitolato Squilibrio. Non più trasposizione del disegno, ma vera interpretazione dell’uomo vitruviano nello spazio: il quadrato diventa un cubo al centro del quale viene inserito l’uomo di Leonardo (che adesso ha braccia e gambe fissate su cardini, quasi a voler suggerire l’idea di movimento), e che a sua volta è inscritto in una sfera composta da centine di legno. È un’opera monumentale: la sfera supera i quattro metri di diametro, mentre l’uomo di Leonardo, da solo, è alto quasi due metri. Ed è un’opera che intende sviluppare le riflessioni di Leonardo, portando il suo uomo a interagire con uno spazio aperto, con il mondo che lo circonda: “Ceroli”, scriveva Arturo Carlo Quintavalle, “nel percorso dalla prima alla seconda versione, accentua il valore simbolico del personaggio Leonardo, archetipo di una concezione organica e architettonica (proporzionale) del mondo”. Il titolo dell’opera, poi, intendeva ammantare d’una lieve vena ironica anche la seconda versione dell’uomo di Leonardo: se nel 1964 Ceroli stesso era diventato l’uomo vitruviano, nel 1967 l’intitolazione della scultura andava in senso diametralmente opposto rispetto agl’intenti d’equilibrio che Leonardo s’era prefissato di raggiungere col suo disegno. Ma si trattava di un’ironia animata da una visione profonda: lo squilibrio non è tanto quello dell’opera in sé, quanto quello della realtà con cui l’uomo deve quotidianamente fare i conti, e che è lontanissima da quell’armonia che regola il mondo dell’uomo vitruviano.

Mario Ceroli, L'Uomo di Leonardo
Mario Ceroli, L’Uomo di Leonardo (1964; proprietà dell’artista. Courtesy Mario Ceroli, Roma)


Mario Ceroli, Squilibrio
Mario Ceroli, Squilibrio (1987; legno, altezza 400 cm ca.; Fiumicino, Aeroporto “Leonardo da Vinci”). Ph. Credit Aeroporti di Roma


Mario Ceroli, L'Uomo di Vinci
Mario Ceroli, L’Uomo di Vinci (1987; legno, altezza 400 cm ca.; Vinci, Piazza del Castello). Ph. Credit Francesco Bini


Mario Ceroli, L'uomo di Vinci
Mario Ceroli, L’Uomo di Vinci. Ph. Credit gonews.it

Squilibrio, dopo l’esposizione a Graz, ottenne un grande successo, tanto che l’opera sarebbe stata esposta in numerose altre occasioni. Alla Badischer Kunstverein di Karlsruhe nel 1969, alla Pilotta di Parma nello stesso anno, al Palazzo Ducale di Pesaro nel 1972, solo per citare alcune delle prime esposizioni. E diverse sue riproduzioni si trovano in molte località italiane. Una di queste, realizzata nel 1987, è installata all’aeroporto di Fiumicino. Un’altra fu donata nel 1997 al borgo di cui Ceroli è originario, Castel Frentano, nei pressi di Chieti. Quella che si trova nella città natale di Leonardo è anch’essa del 1987, fu donata dall’artista al Comune e, come anticipato in apertura, è nota come L’Uomo di Vinci. L’opera è stata sistemata al centro della piazza che si apre dietro al Castello dei Conti Guidi, che oggi ospita il Museo Leonardiano di Vinci, il primo ad aver aperto una mostra permanente dei modelli delle macchine di Leonardo.

A Vinci, forse l’uomo vitruviano di Mario Ceroli ha trovato la sua miglior collocazione possibile. Da una parte, la piazza si apre sulle colline toscane che circondano il borgo, il paesaggio che ricorre in così tante opere di Leonardo. Dietro, la piazza, il Castello, la cittadina antica. L’Uomo di Vinci è disposto dunque in un dialogo costante tra uomo e natura. Quel dialogo così complesso e difficile che Leonardo da Vinci indagò per tutta la sua vita.

Bibliografia completa

  • Claudio Crescentini, Rinascita di una Venere. Goldfinger/Miss di Mario Ceroli. Storie e Restauro, Gangemi Editore, 2016
  • Walter Guadagnini (a cura di), Pop art 1956-1968, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, dal 26 ottobre 2007 al 27 gennaio 2008), Silvana Editoriale, 2007
  • Maurizio Calvesi e Armando Barp, L’Uomo di Vinci: scultura in legno di Mario Ceroli per la città di Leonardo, Comune di Vinci, 1987
  • Maurizio Calvesi (a cura di), Mario Ceroli, catalogo della mostra (Firenze, Forte del Belvedere, 14 luglio - 16 ottobre 1983), La Casa Usher, 1983
  • Maurizio Calvesi, Avanguardia di massa, Feltrinelli, 1978
  • Arturo Carlo Quintavalle, Ceroli, Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma, 1969

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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