Israele, confermata al momento la partecipazione alla Biennale 2026. Si preannunciano boicottaggi


La partecipazione di Israele alla Biennale di Venezia 2026 al momento è confermata (in un nuovo spazio all’Arsenale), ma il clima resta incandescente. Il collettivo ANGA chiede l’esclusione dello Stato ebraico e minaccia il boicottaggio, e i tempi strettissimi e il clima internazionale complicano ulteriormente la situazione. 

Israele parteciperà alla Biennale di Venezia del 2026? La domanda riprende a circolare dopo che, l’altro ieri, il gruppo “ANGA” (Art Not Genocide Alliance), un insieme di artisti, curatori, scrittori e lavoratori della cultura che si è costituito nel 2024 per chiedere alla Biennale di escludere lo Stato ebraico dall’edizione di quell’anno, ha pubblicato un nuovo appello per domandare l’esclusione di Israele anche dalla mostra dell’anno prossimo. “Dopo oltre 700 giorni di genocidio e 77 anni di occupazione, apartheid e pulizia etnica, la decisione della Biennale di fornire una piattaforma a uno stato responsabile di queste atrocità è inaccettabile”, scrive il gruppo sui suoi canali. “ANGA chiede l’esclusione immediata e completa di ‘Israele’ dalla Biennale di Venezia”. In caso contrario, il gruppo ha già fatto sapere di essere pronto al boicottaggio totale da parte di artisti e pubblico alla prossima Biennale.

Come stanno le cose per il momento? A oggi, la partecipazione di Israele è confermata, anche se il Ministero della Cultura e dello Sport dello Stato ebraico si sta muovendo con molto più ritardo del solito: il bando con cui vengono sollecitati i progetti degli artisti intenzionati a partecipare è stato infatti pubblicato sul sito del Ministero soltanto lo scorso 27 agosto ed è in scadenza dopodomani, 28 settembre. Significa, intanto, che gli artisti hanno avuto solo un mese di tempo per candidarsi, ma soprattutto che dalla chiusura del bando all’apertura della Biennale, programmata per maggio 2026, passeranno poco più di sei mesi: un tempo molto breve per consentire agli artisti di lavorare (di solito, infatti, Israele lancia il concorso con almeno 18 mesi di anticipo).

Padiglione di Israele ai Giardini. Foto: Michael Jacobson
Padiglione di Israele ai Giardini. Foto: Michael Jacobson
Padiglione di Israele ai Giardini
Padiglione di Israele ai Giardini

Inoltre, nel 2026, lo Stato ebraico potrà contare su di un altro spazio, poiché il Padiglione di Israele situato ai Giardini subirà lavori di ristrutturazione, di conseguenza la mostra israeliana dell’anno prossimo verrà ospitata in un padiglione alternativo. È già stato individuato lo spazio: sarà la Sala d’Armi G dell’Arsenale, situata nei pressi delle Corderie. Israele non ha neanche fatto sapere quanto verrà speso per la mostra: si sa soltanto che l’ammontare del budget che verrà determinato per la partecipazione è a esclusiva discrezione dello Stato di Israele ed è soggetto all’approvazione dei budget e della disponibilità di bilancio per il 2025-2026 da parte del Ministero della Cultura e dello Sport e del Ministero degli Affari Esteri.

All’edizione 2024, Israele era presente, ma per scelta di artisti e curatori il Padiglione era rimasto chiuso: nei giorni della preapertura, infatti, era stato appeso un cartello fuori dalla porta dell’edificio in cui si faceva sapere che la mostra sarebbe stata aperta nel momento in cui sarebbe stato raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e per la liberazione degli ostaggi. Com’è noto, l’accordo non c’è mai stato, alcuni ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas, e la mostra non è mai stata aperta. Adesso però, a quasi due anni di distanza, la situazione è ben diversa, e se la partecipazione di Israele sarà confermata di certo non avrà vita facile, dal momento che un Padiglione è visto come una sorta di piccola ambasciata del paese ospitato, e ogni Padiglione rappresenta ufficialmente il suo paese. E non si può davvero dire che il governo israeliano, negli ultimi mesi, abbia cercato di costruirsi una buona immagine davanti agli occhi del mondo. Israele dovrà dunque fare i conti con un ambiente che sarà alquanto ostile nei suoi riguardi, e lo stesso dicasi per la Biennale tutta che, come s’è visto, rischia il boicottaggio.

La Sala d'Armi G, lo spazio all'Arsenale che ospiterà il Padiglione di Israele alla Biennale 2026. Foto: Ministero della Cultura e dello Sport di Israele
La Sala d’Armi G, lo spazio all’Arsenale che ospiterà il Padiglione di Israele alla Biennale 2026. Foto: Ministero della Cultura e dello Sport di Israele
La Sala d'Armi G, lo spazio all'Arsenale che ospiterà il Padiglione di Israele alla Biennale 2026. Foto: Ministero della Cultura e dello Sport di Israele
La Sala d’Armi G, lo spazio all’Arsenale che ospiterà il Padiglione di Israele alla Biennale 2026. Foto: Ministero della Cultura e dello Sport di Israele
La Sala d'Armi G, lo spazio all'Arsenale che ospiterà il Padiglione di Israele alla Biennale 2026. Foto: Ministero della Cultura e dello Sport di Israele
La Sala d’Armi G, lo spazio all’Arsenale che ospiterà il Padiglione di Israele alla Biennale 2026. Immagine: Ministero della Cultura e dello Sport di Israele

Per gli artisti si pone poi un ulteriore problema (e, al contempo, una possibilità). È quello che pensa la curatrice israeliana Hagit Peleg Rotem che ha affidato alla rivista Portfolio la sua riflessione: “Dal punto di vista degli artisti, è difficile considerare la partecipazione alla Biennale senza porsi di fronte a un dilemma politico: come si può assumere un ruolo rappresentativo in un paese in cui esiste una frattura così profonda tra la rappresentanza del popolo e quella del governo? Allo stesso tempo, si può vedere questa come un’opportunità: essere i rappresentanti ‘giusti’ del paese, così come vorremmo vederlo. Personalmente, non so cosa e come si possa presentare in un periodo simile. Quale mostra può essere significativa, senza essere esplosiva, quando ci sono così tante ferite aperte e questioni scottanti? Chi accetterebbe di sopportare attacchi e insulti per sei mesi (escluso il periodo di preparazione)? Ciononostante, oso sperare che la terribile situazione non metta a tacere gli artisti che hanno sognato e lavorato a progetti orientati alla Biennale. E forse è giunto il momento di scegliere un concept curatoriale che offra una mostra collettiva – cosa che non si vedeva da molti anni nel padiglione israeliano della Biennale d’Arte. Una mostra che dia spazio a una moltitudine di talenti, senza scaricare tutto il peso sulle spalle di un singolo artista. Abbassare il volume delle star e ascoltare voci diverse. Questo potrebbe essere un esercizio di ascolto del tema principale della Biennale”.

L’attuale ministro della cultura di Israele, Miki Zohar, è affiliato al Likud e non appartiene quindi ai partiti dell’estrema destra della coalizione che sostiene Benjamin Netanyahu, ma ha espresso diverse volte posizioni ultraortodosse. Proprio pochi giorni fa, quando la Israeli Academy of Film and Television ha fatto vincere cinque premi Ophir (il massimo riconoscimento cinematografico israeliano) al film drammatico The Sea (che racconta la storia di un ragazzino di Ramallah che vorrebbe vedere il mare e, fermato dai soldati israeliani a un posto di blocco, decide di affrontare il viaggio clandestinamente), lo stesso Zohar ha annunciato il ritiro dei finanziamenti governativi alla cerimonia di premiazione. “Non c’è schiaffo più grande in faccia ai cittadini israeliani dell’imbarazzante e distaccata cerimonia annuale dei premi Ophir”, ha scritto su X lo scorso 17 settembre. “A partire dal bilancio 2026, questa patetica cerimonia non sarà più finanziata con i soldi dei contribuenti. Sotto la mia supervisione, i cittadini israeliani non pagheranno di tasca propria una cerimonia che sputa in faccia ai nostri eroici soldati”. Dati questi presupposti, insomma, sarà difficile aspettarsi una mostra critica nei confronti dell’attuale governo, o quanto meno una mostra ecumenica: più facile, semmai, che la mostra toccherà temi lontani dalla politica.


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