Da Klimt a Friedrich, da Repin a Schiele, l'altro Ottocento in un agile libro di Eugenio Riccomini


Recensione del libro 'L'altro Ottocento. Russia, Germania, Austria' di Eugenio Riccomini (Pendragon, 2018)

È noto che diversi storici dell’arte palesino qualche difficoltà quando chiamati a mutare il loro registro per incontrare il favore e per suscitare l’interesse del grande pubblico. Non è così per Eugenio Riccomini (Nuoro, 1936), uno dei grandi maestri della storia dell’arte italiana: allievo di Carlo Volpe e di Stefano Bottari nonché amico di Francesco Arcangeli, Riccomini ha sempre saputo ben coniugare la sua carriera di storico dell’arte di spessore, funzionario in Soprintendenza e autore d’importanti studî sulla pittura emiliana del Cinque e del Seicento, con una ricca e apprezzata attività da divulgatore. L’ultimo capitolo di questo “secondo volto” di Eugenio Riccomini è un libro uscito quest’anno per i tipi di Pendragon: s’intitola L’altro Ottocento. Russia, Germania, Austria ed è un agile e fresco racconto che, tra le maglie della grande storia dell’arte del XIX secolo nell’Europa centrale (quella tracciata da personalità come Friedrich, Klimt, Repin), porta all’attenzione del lettore anche un Ottocento meno noto (un Ottocento “altro”, appunto) ma non per questo meno sorprendente, meno denso di significato, meno politicamente importante, anche meno emozionante, se si vuole.

Con uno stile asciutto, discorsivo, accattivante, a tratti scopertamente ironico (caratteristica di Riccomini), l’autore conduce il lettore in un viaggio da Mosca a Monaco di Baviera, da Vienna fino anche a Roma (dove s’intrecciarono le vicende di diversi degli artisti di cui Riccomini parla) per scoprire, in una prospettiva eminentemente diacronica, le più significative (ma anche le più dimenticate) personalità dell’Ottocento russo, tedesco e austriaco, senza perdere di vista il contesto storico che, anzi, funge da introduzione a ognuno dei tre capitoli di cui L’altro Ottocento si compone. Ne emerge un grande racconto corale, certo non esauriente né tanto meno completo (sarebbe impossibile, in appena centoventicinque pagine), ma comunque in grado di fornire al lettore almeno le coordinate per orientarsi nel periodo storico di riferimento e per apprezzare, accanto ai nomi degli artisti più noti, quelli di grandi personalità quali Ivan Konstantinovič Ajvazovskij, eccezionale maestro del romanticismo russo, Karl Blechen, una sorta di “alter ego” tedesco di Turner, Ferdinand Georg Waldmüller, straordinario ritrattista austriaco della prima metà dell’Ottocento.

Alla base del libro, l’idea secondo la quale l’Ottocento viene identificato soprattutto con la pittura francese: innegabile certo il capitale contributo che alla storia dell’arte fornirono pittori quali Courbet e Monet, eppure Riccomini prova quasi un senso di disagio nel constatare che nella percezione comune (e fino a non molto tempo fa anche nelle aule delle università) l’Ottocento di Russia, Germania e Austria non occupi la posizione che gli spetterebbe. “Nel corso di parecchi anni di studi classici”, spiega l’autore, “seguendo lezioni liceali, e poi, grazie al cielo, universitarie di storia dell’arte, non ho mai udito pronunciare in aula nomi, oggi ormai ben noti, come quelli di Turner, Friedrich, ed altri che non fossero francesi; e figuriamoci se mai m’è capitato di sentire, o di vedere qualcosa, di pittori russi, o slavi, e anche tedeschi. C’è, quindi, ancor oggi un Ottocento ’altro’. E cioè poco o pochissimo noto; e anzi del tutto sconosciuto, e inatteso”.

Eugenio Riccomini, L'altro Ottocento. Russia, Germania, Austria
Eugenio Riccomini, L’altro Ottocento. Russia, Germania, Austria

Quella che Riccomini chiama, a più riprese, “passeggiata” tra le opere dell’Ottocento, prende le mosse da una Russia divisa tra slavofili e zapadniki, i filo-occidentali (letteralmente gli “occidentalisti”): da una parte quanti ammirano l’Europa dell’ovest pur biasimandola e, al contrario, esaltando il patrimonio intellettuale, sociale, filosofico, religioso e politico della Russia, e dall’altra quanti invece spingevano per un’apertura all’esterno. Una diversità d’orientamenti che, specifica Riccomini, “si legge benissimo nella pittura russa”, così poco nota forse anche perché tanto profondamente radicata nel contesto del suo paese d’origine. Per gli artisti che desideravano un’apertura a ovest, l’Italia costituì spesso “un approdo, un sogno, una via di fuga”: fu così per Sil’vestr Feodosievič Ščedrin (San Pietroburgo, 1791 - Sorrento, 1830), che nel nostro paese si stabilì definitivamente, innamorato com’era dei suoi paesaggi e delle sue rovine che divennero protagonisti dei suoi dipinti, o per uno dei pittori più significativi del primo Ottocento russo, Karl Pavlovič Brjullov (San Pietroburgo, 1799 - Manziana, 1852), animato da una forte passione archeologica e autore di uno straordinario dipinto dedicato alla tragedia di Pompei, il cui drammatismo fu suscitato proprio dalle continue visite alle rovine della città campana. Tra gli artisti che, al contrario, furono pressoché totalmente dediti a una pittura desiderosa di descrivere la Russia contemporanea, figurano personalità come quella di Il’ja Efimovič Repin (Čuguev, 1844 - Repino, 1930), i cui Battellieri del volga, con la loro sofferenza percepibile, rimangono una delle più celebri immagini dell’Ottocento russo, o come Vasilij Ivanovič Surikov (Krasonjarsk, 1848 - Mosca, 1916), artista che propose una pittura “ignara d’ogni classicismo” che, suggerisce Riccomini, nel suo focalizzarsi sugli episodî della storia russa par quasi perseguire un intento didattico.

Accanto a queste figure si collocano quelle d’innovatori come Ivan Kostantinovič Ajvazovskij (Feodosija, 1817 - 1900) che viaggiò a lungo per l’Europa (stringendo anche una proficua amicizia con William Turner) portando in patria le istanze del romanticismo (la sua Nona onda si può a buon diritto inserire nell’elenco dei più pregni capolavori del romanticismo europeo), come Nikolaj Nikolaevič Ge (Voronež, 1831 - Ivanovskij Chutor, 1894), artista profondamente antiaccademico e capace di scene fortemente drammatiche e sconvolgenti (è il caso della sua Crocifissione del 1892), o come Michail Aleksandrovič Vrubel’ (Omsk, 1856 - San Pietroburgo, 1910), forse il primo ad aprirsi alle avanguardie (guardò anche a un giovanissimo Picasso, nella Parigi del 1906), prima della grande stagione, inaugurata da Kandinskij, durante la quale l’arte russa (con artisti come Malevič, Gončarova, Tatlin) avrebbe assunto una rilevanza europea.

Karl Brjullov, L'ultimo giorno di Pompei (1833; olio su tela, 456,5 x 651 cm; San Pietroburgo, Museo Russo)
Karl Brjullov, L’ultimo giorno di Pompei (1833; olio su tela, 456,5 x 651 cm; San Pietroburgo, Museo Russo)


Il'ja Repin, I battellieri del Volga (1870-1873; olio su tela, 131,5 x 281 cm; San Pietroburgo, Museo Russo)
Il’ja Repin, I battellieri del Volga (1870-1873; olio su tela, 131,5 x 281 cm; San Pietroburgo, Museo Russo)


Ivan Ajvazovskij, La nona onda (1850; olio su tela, 221 x 332 cm; San Pietroburgo, Museo Russo)
Ivan Ajvazovskij, La nona onda (1850; olio su tela, 221 x 332 cm; San Pietroburgo, Museo Russo)


Nikolaj Ge, Crocifissione (1892; olio su tela, 278 x 223 cm; Parigi, Musée d'Orsay)
Nikolaj Ge, Crocifissione (1892; olio su tela, 278 x 223 cm; Parigi, Musée d’Orsay)

Quanto al viaggio in Germania, Riccomini lo fa cominciare subito dopo la fine dell’età napoleonica, quando si davano per sopite le pulsioni rivoluzionarie, e invece si dovette necessariamente fare i conti con un’area tedesca in cui fermentavano “idee di libertà, di uguaglianza e perfino di fraternità”, incarnate da intellettuali che coltivavano “amore per le arti, la cultura, il pensiero”. Al contempo tuttavia la Germania, pur politicamente divisa, rimaneva una terra unita dalla lingua, dalla letteratura, dalla filosofia, dalla musica, dall’economia fiorente. Non dalla religione: in tal senso, settentrione e meridione erano realtà lontane, con un nord in cui s’era diffusa la riforma protestante e ch’era dunque più austero rispetto a un meridione cattolico dov’era “diffusissimo l’amore romantico per la bellezza antica”, che avrebbe portato anche i pittori tedeschi a farsi sedurre dalle meraviglie dell’Europa mediterranea. Tra questi, Philipp Otto Runge (Wolgast, 1777 - Amburgo, 1810), affascinato dalla cultura classica e spinto dal proposito di cercare la Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, in un connubio tra pittura, scultura, architettura e musica (e a modo suo ci sarebbe riuscito). Il rapporto con la cultura classica d’un maestro di caratura europea quale Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 – Dresda, 1840) è ben sottolineato dal fatto che l’artista mai si recò in Italia, consapevole del fatto che, se avesse visitato il nostro paese (dove mai si recò), avrebbe considerato soffocante il ritorno in Germania. Così, quelle sue atmosfere sublimi, dove “si sente quasi il respiro di una divinità onnipotente e quasi minacciosa”, per usare le parole di Riccomini, dov’è presente una natura infinita, maestosa e inquietante, dove l’uomo si sente minuscolo di fronte a ciò che lo attornia, fanno il loro ingresso anche nell’unico dipinto in cui Friedrich raffigura un monumento classico, ovvero il tempio di Giunone ad Agrigento (conosciuto tramite un’illustrazione): la luminosità calda della Sicilia viene totalmente cancellata e al contrario è introdotta una luce gelida, quasi opprimente, che dona un’inedita aura di poesia alle antiche vestigia classiche.

I rapporti tra Germania ed Italia vengono financo esplicitati da Friedrich Overbeck (Lubecca, 1789 - Roma, 1869) nel suo celeberrimo Italia e Germania del 1828, ed entrano nell’arte di molti tedeschi suggestionati dai dipinti dei grandi artisti del Rinascimento italiano (lo stesso Overbeck era tra i pittori che subivano questo fascino), o anche, semplicemente, dagli abitanti delle terre a sud delle Alpi: quando dipinse il suo Paolo e Francesca, Anselm Feuerbach (Spira, 1829 - Venezia, 1880) ebbe per modella una donna ciociara, Anna Risi, che ben volentieri si prestò per entrare a far parte di quella “solenne classicità” di Feuerbach. La pittura tedesca sapeva però essere anche terribilmente cruda: lo dimostrano, tra gli altri, Adolf von Menzel (Breslavia, 1815 - Berlino, 1905), artista dotato di straordinario talento (“il pittore più abile, credo, dell’Ottocento tedesco”, evidenzia Riccomini), che sulla Fucina del 1875 riversò, dipingendo semplicemente l’interno d’una fabbrica, le angosce della società industriale (la composizione è buia e ravvivata solo dai fulgori del metallo fuso, è affollata, è asfissiante). E lo dimostrano gli artisti che, come Menzel, intrapresero la via del realismo: la denuncia sociale che affiora dai dipinti di Max Liebermann (Berlino, 1847 - 1935) fu invisa anche ai nazisti, che la dichiararono Entartete Kunst, quando Liebermann, vecchio e stanco, aveva già superato la soglia degli ottant’anni d’età e dovette terminare la propria esistenza subendo tale umiliazione.

Caspar David Friedrich, Il tempio di Giunone ad Agrigento (1830; olio su tela, 54 x 72 cm; Dortmund, Museum für Kunst und Kulturgeschichte)
Caspar David Friedrich, Il tempio di Giunone ad Agrigento (1830; olio su tela, 54 x 72 cm; Dortmund, Museum für Kunst und Kulturgeschichte)


Friedrich Overbeck, Italia e Germania (1828; olio su tela, 94,4 x 104,7 cm; Monaco di Baviera, Neue Pinakothek)
Friedrich Overbeck, Italia e Germania (1828; olio su tela, 94,4 x 104,7 cm; Monaco di Baviera, Neue Pinakothek)


Anselm Feuerbach, Paolo e Francesca (1863-1864; olio su tela, 137 x 99,5 cm; Monaco di Baviera, Schackgalerie)
Anselm Feuerbach, Paolo e Francesca (1863-1864; olio su tela, 137 x 99,5 cm; Monaco di Baviera, Schackgalerie)


Adolph von Menzel, La fucina (1872-1875; olio su tela, 158 x 254 cm; Berlino, Staatliche Mueeen)
Adolph von Menzel, La fucina (1872-1875; olio su tela, 158 x 254 cm; Berlino, Staatliche Mueeen)

La “passeggiata” di Eugenio Riccomini termina nell’Austria asburgica, la cui capitale, Vienna, era tra le città culturalmente più vivaci e attive dell’Europa del tempo: l’autore rimarca come, nella capitale austriaca, fosse nata la prima grande scuola internazionale di storia dell’arte (la Scuola di Vienna, appunto), senza trascurare i rinnovamenti urbanistici, la psicanalisi di Freud, la cultura musicale e quella politica (fu un austriaco, Leopoldo d’Asburgo-Lorena, poi Leopoldo II di Toscana, che per primo abolì la pena di morte e ciò avvenne nel Granducato di Toscana, da lui governato, nel 1786). Riccomini individua nella “sete di novità” la principale caratteristica della pittura austriaca del tempo: la Sezession di Vienna, la cosiddetta “Secessione” che diede vita a una vera frattura di risonanza europea con quanto era venuto prima, è stato uno dei momenti più alti della storia dell’arte occidentale e incarna pienamente questa volontà, da parte dei giovani pittori austriaci della seconda metà Ottocento, di rompere con la tradizione (una volontà che si palesò anche in Germania con le Secessioni di Monaco e Berlino: se ne parla nel capitolo riservato alla pittura tedesca). Ma anche prima della Secessione non mancarono validi artisti, benché meno noti: tra questi, Riccomini cita il caso singolare di Ferdinand Georg Waldmüller (Vienna, 1793 - Hinterbrühl, 1865), eccelso ritrattista che però aveva difficoltà a imporsi sul mercato di alto livello, ed era dunque costretto a dipingere meravigliose nature morte (genere più accessibile e più facilmente vendibile del ritratto) per potersi mantenere. Ed eccezionale ritrattista era anche Hans Makart (Salisburgo, 1840 - Vienna, 1884), un pittore decisamente versatile, a suo agio tanto col ritratto (si osservi quello meraviglioso di Dora Fournier-Gabillon) quanto con la pittura storica, con quella mitologica, con le scene allegoriche. Le istanze realiste furono invece portate avanti da Mihály Munkácsy (pseudonimo di Mihály Lieb, Munkács, 1844 – Endenich, 1900), pittore ungherese che con la sua arte diede corpo alla dura realtà del mondo operaio.

L’ampio capitolo dedicato alla Secessione viennese s’apre con la constatazione che “secessione vuol dire ingresso nell’età moderna”: questo perché gli artisti della secessione erano fortemente affascinati dalle conquiste della società contemporanea, e desiderarono mettere a punto un linguaggio che potesse essere adatto a tale modernità. Ognuno degli artisti della Secessione rispose a questa esigenza a modo proprio. Gustav Klimt (Baumgarten, 1862 – Vienna, 1918) con una pittura straordinariamente raffinata, che mescolava ricordi classici (la carriera di Klimt, del resto, prese avvio sotto il segno della più pura Accademia), elementi bizantineggianti (il pittore era stato a Ravenna e ben conosceva i suoi mosaici), figure che ricordavano la coeva pittura simbolista. Particolarmente esemplificativa è la Giuditta, una sorta di “insolito assemblaggio”, scrive Riccomini, “di parti trattate in stile naturalistico, che Klimt padroneggia in modo esemplare, e di splendidi partiti decorativi, addirittura dorati, come fosse il fondo d’un mosaico bizantino”. Di diverso segno fu la pittura nervosa, disturbante e violenta di Egon Schiele (Tulln an der Donau, 1890 - Vienna, 1918), le cui opere suscitavano quasi disgusto al tempo (Riccomini cita, tra gli altri, il Ritratto di Trude Engel, che fu rifiutato con veemenza dalla destinataria), e lo stesso dicasi per l’arte di Oskar Kokoschka (Pöchlarn, 1886 – Montreux, 1980), pittore altrettanto “aggressivo e feroce” specie in gioventù (così lo definisce l’autore di L’altro Ottocento: un’opera come Autoritratto con mano alla bocca sancisce in modo inequivocabile l’assunto secondo il quale la bellezza e l’arte possono viaggiare su due binari separati, senza mai incontrarsi.

Hans Makart, Ritratto di Dora Fournier Gabillon (1879-1880; olio su tela, 145,5 x 93 cm; Vienna, Museen der Stadt)
Hans Makart, Ritratto di Dora Fournier Gabillon (1879-1880; olio su tela, 145,5 x 93 cm; Vienna, Museen der Stadt)


Gustav Klimt, Giuditta I (1901; olio su tela, 84 x 42 cm; Vienna, Österreichische Galerie Belvedere)
Gustav Klimt, Giuditta I (1901; olio su tela, 84 x 42 cm; Vienna, Österreichische Galerie Belvedere)


Egon Schiele, Ritratto di Trude Engel (1911; olio su tela, 100 x 100 cm; Linz, Neue Galerie der Stadt)
Egon Schiele, Ritratto di Trude Engel (1911; olio su tela, 100 x 100 cm; Linz, Neue Galerie der Stadt)


Oskar Kokoschka, Autoritratto con mano alla bocca (1918-1919; olio su tela, 83,6 x 62,8 cm; Collezione privata)
Oskar Kokoschka, Autoritratto con mano alla bocca (1918-1919; olio su tela, 83,6 x 62,8 cm; Collezione privata)

L’altro Ottocento centra egregiamente il compito d’allargare le nostre vedute sull’arte del XIX secolo, e lo fa con una sorta di rapido vademecum (questo è il sapore del libro) che però riesce al contempo a tracciare una ricca mappa delle vicende artistiche ottocentesche dei tre paesi presi in esame, garantendo un sunto denso, e allo stesso tempo rapido e scattante: spetterà al lettore trarre spunti per approfondire la conoscenza degli artisti che Riccomini sonda a volo d’uccello ma senza mai perdere la puntualità nel delinearne i profili. In buona sostanza, L’altro Ottocento è un buon prodotto divulgativo: instaura un clima amichevole col lettore, riesce a incuriosirlo tenendolo incollato alle pagine dalla prima all’ultima, non salta alcun passaggio, utilizza un registro accessibile e quasi amichevole, tocca con precisione tutti gli artisti presentati. E il libro è anche, si consenta d’affermarlo, una dimostrazione di come Eugenio Riccomini non abbia ancora finito di sorprenderci.

Eugenio Riccomini
L’altro Ottocento. Russia, Germania, Austria
Pendragon, 2018
125 pagine
14 euro


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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