Alessandro Magnasco e Fabrizio De André. Tratti comuni in pittura e in musica di due artisti moderni


Proponiamo un articolo alla ricerca dei tratti comuni nell'arte di Alessandro Magnasco e di Fabrizio De André, entrambi genovesi, entrambi grandi e moderni artisti.

In una nota fotografia scattata da Guido Harari, il grande Fabrizio De André è ritratto sul letto di casa sua, mentre legge un giornale, con a fianco la sua chitarra e tutta una serie di libri e oggetti (penne, matite, taccuini, un telefono... ). Siamo nel 1996 e l’immagine faceva parte di un servizio destinato a promuovere quello che sarebbe stato l’ultimo album del cantautore genovese, Anime salve. Tra i libri sparpagliati sul letto possiamo notare un grande catalogo di Alessandro Magnasco, pittore, anche lui genovese, che operò nel Settecento e a cui abbiamo anche dedicato una puntata del nostro podcast.

Il catalogo non ha un ruolo casuale, perché Alessandro Magnasco, come De André, era un artista che descriveva la vita degli emarginati, e lo faceva in un’epoca in cui "arte" era quasi sinonimo di rococò, un’arte fortemente estetizzante (tanto da cadere spesso nella frivolezza) il cui obiettivo principale era far godere l’osservatore di un piacere estetico, un piacere slegato da ogni contatto con la realtà. E lo stesso potrebbe dirsi di De André, se confrontiamo la sua opera con la musica italiana contemporanea e con il gusto dominante. Il viaggio nella Genova di Magnasco e De André non inizia però nei vicoli del centro storico, nelle calate del porto o in qualche bettola di marinai, bensì nel quartiere più lussuoso della città: Albaro.

Nella Galleria di Palazzo Bianco, che si trova nella maestosa via Garibaldi, un tempo conosciuta come Strada Nuova, è conservato uno dei più famosi dipinti di Alessandro Magnasco, il suo Trattenimento in un giardino di Albaro, un’opera del 1735 circa dove una festicciola di ricchi, che si tiene, appunto, in un giardino di Albaro, diventa quasi la scusa per offrire all’osservatore il panorama della valle del Bisagno, oggi fortemente urbanizzata (lungo il torrente Bisagno si trovano alcuni dei più popolosi quartieri di Genova). Sembra che il giardino raffigurato da Magnasco, dato il panorama, sia quello di Villa Saluzzo Bombrini, nota anche come il Paradiso, antica villa nobiliare fatta edificare sul finire del Cinquecento, per i marchesi Saluzzo che, come quasi tutte le famiglie genovesi più in vista, avevano scelto Albaro come luogo per far costruire la loro dimora di piacere fuori dal centro della città. In seguito la proprietà passò alla famiglia Bombrini e nel corso del Novecento, lo stabile fu diviso in appartamenti: in uno di questi, abitava la famiglia di De André (il padre fu, tra l’altro, amministratore delegato dell’Eridania).

Possiamo però immaginarci il giovane De André più a suo agio tra le vie della zona del porto antico, che tra le ricche ville di Albaro, ed è proprio nei bassifondi di Genova che nasce una delle sue più belle canzoni, La città vecchia, ispirata dall’omonima lirica di Umberto Saba e che, come quest’ultima (sebbene la poesia di Saba fosse ambientata a Trieste), descrive una realtà fatta di prostitute, ladri, vecchi ubriachi, e tutta un’umanità che sguazza nel degrado, nei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”: ma proprio la loro condizione miserevole è la chiave per comprendere tutti questi personaggi che “se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. È come se De André ci chiedesse di provare non disgusto, ma compassione. Un’umanità che è ben lontana (o meglio: è tenuta ben lontana) dalla ricca borghesia, che anche Alessandro Magnasco critica, utilizzando guizzi rapidi di pennello per definire le figurette dei ricchi che festeggiano e si godono i loro attimi spensierati, quasi come se la loro presenza fosse un disturbo alla vista di un paesaggio dove, a quel tempo, si intravedevano quasi solamente campi lavorati. Per non parlare delle loro pose: sembrano teatranti che si agitano su un palcoscenico lontano da una realtà fatta di fatica, disagio, emarginazione.

La zona del porto di Genova come la vediamo oggi non è certo quella che De André vedeva all’epoca della composizione del suo brano La città vecchia, scritto nel 1962 e pubblicato tre anni dopo. All’inizio degli anni Novanta (per l’esattezza in occasione dell’Expo del 1992), il porto antico ha subito un’opera di pesante riqualificazione urbana e oggi è una delle zone di Genova dove è più piacevole intrattenersi: una passeggiata lunga, bella e suggestiva ci fa ammirare da un lato il mare e dall’altro la città che si abbarbica sulle colline, ci sono musei, ci sono negozi, locali, ristoranti, cinema, c’è l’Acquario. Capita però molto spesso di venire avvicinati da donne rom che chiedono l’elemosina, soprattutto nella parte della passeggiata che sta tra piazza Caricamento e il ponte degli Spinola.

Il mondo degli zingari ha affascinato sia Fabrizio De André che Alessandro Magnasco. Del cantautore ricordiamo, facendo sempre riferimento all’album Anime salve, la canzone Khorakhanè che ci parla proprio dei Khorakhanè, una tribù di rom musulmani originari dei Balcani, in particolare di Kosovo e Montenegro. De André ci descrive i Khorakhanè romanticamente, come un popolo sempre in viaggio, anche se “qualche rom si è fermato italiano, come un rame a imbrunire su un muro”. E il momento in cui gli zingari si “fermano”, è probabilmente quello preferito da Alessandro Magnasco, che nella sua carriera ha realizzato molto spesso dipinti a tema zingaresco.

Uno di questi dipinti è conservato agli Uffizi, ed è noto come Refezione di zingari. Gli zingari, raffigurati con il solito stile di Magnasco fatto di pennellate rapide che con pochi tocchi costruiscono le figure, sono qui impegnati a mangiare. Nel dipinto regna il disordine: i protagonisti sono accampati sulle scalinate di antiche rovine (allora come oggi, erano relegati ai margini delle città, il più lontano possibile dalle abitazioni), vediamo piatti e brocche appoggiati con noncuranza per terra, vediamo stoviglie gettate qua e là, vediamo persone in pose rozze e sbracate (come la figura sulla sinistra, che mangia facendosi cadere il cibo in bocca dall’alto sollevandolo con la mano, o quello vicino a lui, seduto con le gambe allungate sotto il misero tavolino), vediamo animali che mangiano assieme alle persone. È la poetica degli umili, che cerca di restituirceli in modo veritiero, senza filtri, con riferimenti sia al loro modo di essere che al loro modo per guadagnarsi da vivere (in De André i riferimenti sono al rame e alle giostre, in Magnasco invece abbiamo un pappagallino in primo piano, perché gli zingari all’epoca, come ancora oggi in certe occasioni, imbastivano improvvisati spettacoli di strada cercando di stupire il pubblico con animaletti ammaestrati).

Trattenimento in un giardino di Albaro (Genova, Palazzo Bianco) Refezione di zingari (Firenze, Uffizi) Interrogatorio dell'Inquisizione (Vienna, Kunsthistorisches Museum) Scena di pellegrinaggio (Genova, Palazzo Tursi)

Elaborare una poetica degli umili significa però anche toccare temi molto più sofferti: se in fondo l’accampamento degli zingari ci introduce a temi come il viaggio, la spensieratezza e, soprattutto, la libertà, al mondo c’è anche chi di questa libertà è stato privato, e talvolta anche in modo doloroso. Parliamo dei carcerati, e in questo caso sia la musica di De André che la pittura di Magnasco hanno la stessa valenza di denuncia sociale. Sempre delle condizioni delle carceri si parla: in un suo dipinto conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna e realizzato attorno al 1710 (ovvero stesso periodo del dipinto degli Uffizi), il pittore genovese ci mostra un brutale interrogatorio dell’Inquisizione che coinvolge diversi detenuti. Uno, al centro, è costretto a subire la tortura del tratto di corda, attraverso la quale lo sventurato veniva legato per i polsi con una fune e quindi sollevato per mezzo di una carrucola, facendo in modo che il peso del corpo gravasse sugli arti superiori. Una tortura che poteva causare danni permanenti, così come quella del cavalletto che vediamo a destra: in questo caso, il detenuto veniva fatto sedere sopra a un cuneo, con pesi che lo trascinavano verso il basso.

Magnasco pone l’accento sulla disumanità di questi trattamenti (come del resto quelli a cui sono sottoposti i detenuti a sinistra, legati al muro con un collare dalla catena cortissima), una disumanità acuita dal contrasto tra le sofferenze dei detenuti e la calma dei funzionari dell’Inquisizione che svolgono il loro lavoro. E l’inflessibilità e la mancanza di compassione di certi ambienti ecclesiastici nei confronti dei carcerati ci appaiono le stesse che De André canta nella sua Ballata del Michè quando dice che il protagonista della canzone “nella fossa comune sarà, senza il prete e la messa, perché d’un suicida non hanno pietà”. Una canzone che, come il dipinto di Magnasco, pone al fruitore il problema delle condizioni delle carceri e quindi una canzone che, a distanza di più di cinquant’anni (fu scritta nel 1961), continua ad avere un testo di forte attualità: è di pochi giorni fa la notizia secondo cui nel 2014 sarebbero aumentati i suicidi in carcere.

La critica a certe istanze della religione (in particolar modo, quelle espresse dai suoi apparati ufficiali) non può che portare sia Fabrizio De André, che Alessandro Magnasco, a guardare con maggior simpatia a una religiosità più schietta, più umile e quindi, per queste ragioni, più sincera. È difficile riassumere in poche righe la concezione della religione secondo i due artisti, ma valga, per De André, l’ultimo verso della sua canzone Il testamento di Tito, ovvero la visione dei dieci comandamenti secondo il ladrone buono crocifisso assieme a Gesù (che il cantautore considerava il più grande rivoluzionario di tutti i tempi): “Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”. È proprio l’amore verso il prossimo il sentimento che dovrebbe muovere la moralità e le azioni di un individuo, ma si tratta di un sentimento disatteso proprio da coloro che dovrebbero predicarlo. Ed è per questo che anche la religiosità di Alessandro Magnasco si allontana dai fasti solenni della Chiesa “ufficiale” per indagare invece il mondo dei frati in meditazione e dei pellegrini, più vicini al vero sentimento religioso.

Lo vediamo in un dipinto conservato sempre a Genova, ma a Palazzo Tursi: è una scena di pellegrinaggio in cui i pellegrini, malgrado la fatica, l’asperità del cammino (la scena è ambientata in un paesaggio montano), gli abiti logori, trovano comunque la forza di inginocchiarsi di fronte a una piccola cappella di montagna per pregare. Quanti tra gli alti prelati hanno un sentimento religioso così forte?

Alessandro Magnasco e Fabrizio De André sono due artisti che hanno molto in comune. Entrambi fuori dagli schemi, entrambi critici nei confronti della loro società, entrambi dalla parte degli umili e degli emarginati e per questo entrambi artisti di una modernità altissima (soprattutto se pensiamo ad Alessandro Magnasco e al tempo in cui produsse i suoi capolavori), che ci hanno proposto un’arte sempre attuale che si fa portatrice di messaggi forti e nobili. E a volte, girando per le strade di Genova (ma non solo, potremmo dire di tutte le città del mondo, perché la loro arte è un’arte universale), sembra quasi di percepire la loro presenza costante.

Ascolti suggeriti: La città vecchia, Khorakhanè, La ballata del Michè, Il testamento di Tito

Per approfondire l’arte di Alessandro Magnasco: Alessandro Magnasco - “Pittore di un carattere particolare nelle sue pitture”



Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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