La Cappella del Doge di Genova e i suoi affreschi: una storia della città per immagini


Ambiente più prezioso del Palazzo Ducale di Genova, la Cappella del Doge accoglie gli affreschi realizzati entro il 1655 da Giovanni Battista Carlone: il centro ideologico del potere veniva arricchito di dipinti che narravano alcuni dei più significativi episodî della storia della città.

Incastonata negli spazi monumentali del Palazzo Ducale di Genova, rinnovati negli anni Settanta del Settecento in chiave ormai neoclassica, si trova una delle cappelle secentesche più significative e meglio conservate di tutta l’antica Repubblica. O meglio, forse si dovrebbe dire che (proprio a causa dell’iconografia e delle scelte politiche qui esplicitate per immagini) più che alla cappella del Doge della Repubblica, ci si trova dinanzi alla Cappella della Regina di Genova. Così, infatti, la indicano i documenti d’archivio che raccontano la ricchissima decorazione “per la fabbrica et ornamento della Cappella Reale” da collocarsi (nella sua fase ancora oggi visibile integralmente) tra gli anni 1653 e 1657. In realtà, nel palazzo del Doge (o semplicemente Päxo, in lingua genovese) uno spazio adibito a cappella sive ecclesia palacii è documentato sin dal 1367, con significative riprogettazioni culminanti in una ristrutturazione architettonica (circa 1580) e, infine, nel trionfo decorativo degli anni Cinquanta del Seicento.

La decorazione seicentesca, però, assomma al suo interno non solo una valenza artistica, ma anche (soprattutto) una forte programmatica politica e culturale. Data al 1637, infatti, l’originale soluzione adottata dalla Repubblica di Genova di trasformare il proprio ordinamento politico in una monarchia, salvo poi intestare a Maria Vergine la corona e, dunque, non dover rendere conto del proprio operato a nessun monarca mortale, che non fosse il solito Doge biennale il cui potere era in realtà ben meno significativo nei fatti di quanto non apparisse in potenza. Concretamente però, l’escamotage doveva permettere alla piccola Repubblica (che aveva tenuto e in parte ancora teneva tra le mani gran parte della finanza Europea e non solo) di passare da pari alle altre teste coronate nel cerimoniale internazionale, senza subire quelle marginalizzazioni che, a partire dalle prime quiebras del 1607 e del 1627, si facevano sempre più frequenti soprattutto da parte dei Reali di Spagna, stizziti per i monumentali guadagni dei genovesi costituiti dagli enormi interessi lucrati sui prestiti concessi alla Corona. Data a pochi anni da questa decisione clamorosa, infatti, un’importante missione diplomatica alla corte spagnola condotta da Anton Giulio Brignole Sale, con lo scopo dichiarato di convincere Felipe IV a riconoscere ufficialmente Genova come una monarchia: l’aristocratico genovese, però, non solo non ebbe il successo sperato dal Senato della Repubblica (un successo su cui lui stesso, a quanto dicono le carte autografe, nutriva sin dall’inizio seri dubbi), ma in tre anni di permanenza a corte (1640-1643) riuscì a vedere solo due volte Sua Maestà.

E in entrambe non gli fu concesso d’entrare in argomento. Tuttavia, la grande “macchina” politica era stata messa in moto e per comunicare una tale epocale decisione era assolutamente necessario costituire de facto un’immagine nuova che potesse indicare il nuovo ruolo ricoperto da Maria nei confronti di tutti i genovesi. La Madonna Regina di Genova, che regge lo scettro e il Bimbo con in mano il cartiglio Et rege eos a indicarne il mandato di governo nei confronti della città, divenne immediatamente un’iconografia di propaganda da trasmettere urbi et orbi: Domenico Fiasella ne creò il prototipo e dipinti che ne raffiguravano l’effige sovrastante la città stessa cinta dalle poderose Mura Nuove terminate proprio nel 1635 vennero inviate alle comunità genovesi in tutta Italia, da Napoli, a Palermo, a Messina, a Roma, mentre tutte le rinnovate porte cittadine vennero dotate di immagini scultoree della Regina della Città. Addirittura, l’altar maggiore della Cattedrale di San Lorenzo ricevette una strepitosa fusione in bronzo (attribuita a Giovan Battista Bianco, ma molto probabilmente eseguita dal fiorentino Francesco Fanelli) della Madonna Regina, ai cui piedi si stende una minuziosa raffigurazione della Superba, in cui spicca, come detto, la ciclopica cinta muraria (all’interno della quale, ancora ai nostri giorni, la città è contenuta pressoché integralmente).

La Cappella del Doge di Palazzo Ducale (Genova) con gli affreschi di Giovanni Battista Carlone (1655). Veduta verso la parete di fondo
La Cappella del Doge di Palazzo Ducale (Genova) con gli affreschi di Giovanni Battista Carlone (1655). Veduta verso la parete di fondo


La parete di sinistra con la scena raffigurante Guglielmo Embriaco che porta a Genova le ceneri del Battista
La parete di sinistra con la scena raffigurante Guglielmo Embriaco che porta a Genova le ceneri del Battista


La parete con la scena raffigurante Cristoforo Colombo che pianta la croce sulla spiaggia di San Salvador
La parete con la scena raffigurante Cristoforo Colombo che pianta la croce sulla spiaggia di San Salvador


Dettaglio della parete di destra, raffigurante La Presa di Gerusalemme
Dettaglio della parete di destra, raffigurante La Presa di Gerusalemme


Il soffitto della Cappella del Doge.
Il soffitto della Cappella del Doge


Francesco Maria Schiaffino, Madonna Regina di Genova (1729; marmo; Genova, Palazzo Ducale, Cappella del Doge)
Francesco Maria Schiaffino, Madonna Regina di Genova (1729; marmo; Genova, Palazzo Ducale, Cappella del Doge)

Poteva, dunque, il centro ideologico del potere cittadino rimanere senza una precisa connotazione relativa a questo significativa nuova relazione tra la grandiosa storia della Città e la Madonna? Certamente no, per cui a mettere mano a questa nuova istanza decorativa venne chiamato quello che, alla metà del secolo, era il titolare della principale ditta artistica della città: Giovanni Battista Carlone. Lui e il fratello Giovanni avevano infatti decorato le intere navate della basilica dell’Annunziata del Vastato, il palazzo di Giacomo Lomellini (il Doge che respinse, contro ogni pronostico, l’assalto del Duca di Savoia Carlo Emanuele I alla Repubblica tra il 1625 e il 1627) e la chiesa di Sant’Antonio Abate a Milano, dove Giovanni era morto, anzitempo, nel 1631. Giovanni Battista aveva poi proseguito con mirabolanti imprese ad affresco in decine di altri siti urbani ed extraurbani, sviluppando di fatto i prodromi della stagione del trionfale barocco ligustico, per arrivare ai clamorosi episodi della Galleria di Enea nel palazzo Ayrolo Negrone in piazza Fontane Marose (circa 1650) e della chiesa di San Siro (circa 1651-1656). Tra queste due ultime, ciclopiche, imprese ad affresco si colloca la decorazione della Cappella del Doge, in via di conclusione già entro il 1655, dal momento che il letterato e politico Luca Assarino così ne tratta nella dedica indirizzata a Giovanni Battista Carlone del quarto libro dei suoi Giuochi di Fortuna, pubblicati a Venezia proprio in quell’anno: «Ma più d’ogne cosa fa oggigiorno testimonianza delle prerogative della vostra mano la real cappella di questo Serenissimo Senato, che attualmente state ora dipingendo, le figure della quale (senza iperbole) non so che di vita e moto, fanno restare immobili per lo stupore le pupille che arrivano ad affissarvisi».

E davvero l’impresa pittorica del Carlone è ancora oggi clamorosamente coinvolgente: entrati da una delle due ridotte porte situate sulla parete di fondo si viene accolti da uno spazio avvolto da una decorazione totalizzante. Di fronte si staglia il grande altare progettato e realizzato da Giulio De Ferrari secondo il contratto rogato nel 1653, che ospita la più tarda Madonna Regina di Genova, scolpita da Francesco Maria Schiaffino nel 1729, mentre gli elementi decorativi, le cartouche, le sculture e le erme realizzate in marmo e stucco nella struttura d’altare sono puntualmente evocate anche nella pittura, denunciando una evidente relazione progettuale tra le due imprese coeve e, con grande probabilità, la leadership del Carlone in questa operazione, vista anche la notevole esperienza ch’egli doveva aver ereditato in campo scultoreo e architettonico dal padre Taddeo, uno dei principali interpreti della tarda maniera in ambiente ligustico e vero “capostipite” della linea familiare che, da Rovio in val d’Intelvi, si era definitivamente stabilita a Genova. Di grande impatto sono le monumentali e opulente colonne in marmo rosso di Francia, sapientemente reiterate nella finzione dei trompe l’oeil del Carlone anche sui lati della cappella, a inquadrare le scene raffigurate al di là di illusorie logge che dilatano lo spazio della rappresentazione. Sempre tenendo di fronte l’altare, sulla destra, attraversato l’illusorio loggiato che prolunga la ricca decorazione pavimentale di marmi policromi ad intarsio, lo spettatore è catapultato, in prima linea, nell’assedio di Gerusalemme vittoriosamente condotto per Goffredo di Buglione dal genovese Guglielmo Embriaco nel 1099, che risolse la difficile situazione dell’esercito occidentale durante la prima crociata facendo smontare le navi della flotta per costruire le torri semoventi che permisero di prendere le mura della Città Santa. L’azzardo d’Embriaco valse ai genovesi privilegi e riconoscimenti, sia in Terra Santa, sia in patria e Guglielmo diventò una sorta di allegoria del valore della città stessa, egualmente capace di grande audacia guerriera, così come di calcolata considerazione dei rischi. Sulla parete di fronte, al di là di uno spazio illusorio in tutto e per tutto analogo, il loggiato s’apre invece su un pontile, a cui due nerboruti schiavi stanno facendo accostare una ricca scialuppa che porta un sempre riconoscibile Guglielmo Embriaco dinanzi all’arcivescovo di Genova. Il condottiero tende all’alto prelato una cassetta che contiene null’altro che le ceneri di San Giovanni Battista, predate a Cesarea dal contingente genovese nel 1101, di ritorno dalla spedizione a Gerusalemme. Sulla terza parete, quella dalla quale le porte immettono nella cappella, si trova invece un grande “quadro riportato”, circondato da una illusoria e spessa cornice dorata: al centro, un Cristoforo Colombo vestito alla moderna, gli occhi rivolti significativamente al cielo, pianta una grande croce sul suolo appena raggiunto dell’isola di San Salvador, nelle Indie Occidentali.

Veduta della Cappella del Doge
Veduta della Cappella del Doge


Guglielmo Embriaco consegna le ceneri del Battista al vescovo di Genova
Guglielmo Embriaco consegna le ceneri del Battista al vescovo di Genova


Dettaglio della Madonna Regina di Genova nel soffitto della Cappella
Dettaglio della Madonna Regina di Genova nel soffitto della Cappella


Papa Innocenzo II concede la dignità arcivescovile alla città di Genova (1133)
Papa Innocenzo II concede la dignità arcivescovile alla città di Genova (1133)


Consacrazione della Cattedrale di San Lorenzo (1118)
Consacrazione della Cattedrale di San Lorenzo (1118)


Donazione del Volto Santo di Edessa da parte di Giovanni V Paleologo al doge Leonardo Montalto (1362)
Donazione del Volto Santo di Edessa da parte di Giovanni V Paleologo al doge Leonardo Montalto (1362)


Donazione alla città di Genova di un frammento della Vera Croce da parte della famiglia De Fornari (1202)
Donazione alla città di Genova di un frammento della Vera Croce da parte della famiglia De Fornari (1202)


Dettaglio della Presa di Gerusalemme
Dettaglio della Presa di Gerusalemme


Dettaglio della scena dell’arrivo delle ceneri del Battista a Genova con i probabili ritratti di Giovanni Battista e Giovanni Carlone
Dettaglio della scena dell’arrivo delle ceneri del Battista a Genova con i probabili ritratti di Giovanni Battista e Giovanni Carlone

Gli elementi fondanti della relazione dell’ardire dei genovesi con la sfera del divino sono sostanzialmente tutti evocati, ma s’aggiungono, ai lati dell’altare stesso, sotto la reale loggetta creata dalle colonne corinzie, a destra il massacro dei Giustiniani di Chio per mano dei Turchi Ottomani (1566) e a sinistra la creazione dell’Ordine tridentino dei Chierici Regolari Minori da parte del padre genovese Giovanni Agostino Adorno (1588). Ai lati delle scene descritte si trovano grandi finte sculture in bronzo dei primi evangelizzatori della Liguria, come Nazario e Celso o lo stesso San Barnaba, al di sopra dei quali, in quattro cartouches, sono effigiati altrettanti episodi fondanti per la chiesa genovese, come la Consacrazione della Cattedrale di San Lorenzo (1118), il momento in cui PapaInnocenzo II concede la dignità arcivescovile alla città di Genova (1133), la Donazione alla città di Genova di un frammento della Vera Croce da parte della famiglia De Fornari (1202) e la Donazione del Volto Santo di Edessa da parte di Giovanni V Paleologo al Doge Leonardo Montalto, avvenuta nel 1362. L’architettura illusoria riconnette, poi, i finti loggiati a una complessa teoria di cariatidi che ospitano, assisi su tronetti, vescovi e illustri personalità del clero ligustico, a cui sovrintendono, con la sola esclusione del lato occupato dall’altare, tre illustri monache genovesi: santa Caterina Fieschi Adorno, la venerabile Battista Vernazza e la beata Maria Vittoria De Fornari Strata.

Sono poi alcuni meravigliosi gruppi di cantori e musici angelici, affacciati e seduti in aeree loggette decorate da illusorie volte affrescate con storie dell’Antico Testamento legate a Mosè e ad Abramo, a condurre al grande spazio centrale della volta, dove siede Maria su un trono di nubi, attorniata dai quattro santi protettori della città di Genova: san Giorgio, san Lorenzo, san Bernardo di Chiaravalle e san Giovanni Battista. Il Carlone rinuncia nella volta a qualsiasi tipo di illusionismo prospettico e presenta la scena come un grande quadro riportato, con le figure fedelmente devote allo spazio loro dedicato dall’artista all’interno dell’architettura ficta. Senza dubbio l’esigenza di una forte chiarezza espositiva nella gestione dello spazio narrativo della cappella, che ha l’arduo compito comunicativo di legare insieme episodi legati alla gloria civica ed elementi relativi all’ambito devozionale, spinse l’artista (sotto la guida di una committenza con le idee ben chiare in testa) a corredare ogni scena e ogni figura da una apposita didascalia per permetterne agevolmente l’identificazione, così come gran parte delle scelte iconografiche per la raffigurazione dei santi presenti sono tratte con evidente chiarezza da testi di una certa fama pubblicati all’epoca in area genovese. Questo bisogno di chiarezza risalta anche nell’ortodossia iconografica delle raffigurazioni, che arrivano a irrigidirsi in una paratassi piuttosto ingessata in particolare proprio nella volta, mentre la freschezza narrativa e cromatica tipica del Carlone trionfa negli episodi laterali e, in particolare, nei cori angelici, che poi altro non sono che una squisita allegoria di un coro reale, che doveva prendere posto, alla stessa altezza di quelli dipinti, nella tribuna della parete di fondo. Una funzione di recente recuperata all’uso, grazie alla Direttrice di Palazzo Ducale Serena Bertolucci, che ha voluto tributare alla Cappella il giusto interesse e le doverose attenzioni, compreso il prezioso restauro che ha interessato l’altare e la scultura della Madonna Regina di Francesco Maria Schiaffino. Evidenti sono comunque le tracce esecutive lasciate dalla ditta del Carlone, ben leggibili nei frequentissimi riporti da cartone con incisioni sull’intonaco a delineare i contorni delle figure: una peculiarità che sarà praticata senza soluzione di continuità anche dal figlio di Giovanni Battista, Giovanni Andrea, che sarà attivo in cantieri di sensazionale importanza come la Chiesa del Gesù di Roma e la Sala Verde di Palazzo Altieri, a fianco di personalità come Carlo Maratta e Giovanni Battista Gaulli.

Probabile ritratto di Giovanni Carlone
Probabile ritratto di Giovanni Carlone


Probabile ritratto di Giovanni Battista Carlone
Probabile ritratto di Giovanni Battista Carlone


Dettaglio delle incisioni
Dettaglio delle incisioni


Dettaglio delle incisioni
Dettaglio delle incisioni

Per la verità, le incisioni appaiono assai più insistite e frequenti, tanto da far pensare a una esecuzione affidata ai lavoranti (seppure senza dubbio strettamente controllata dal Carlone in persona) nei riquadri della Presa di Gerusalemme e in quello di Colombo pianta la croce sulla spiaggia di San Salvador, mentre sono più radi nella parete di sinistra, raffigurante Guglielmo Embriaco porta a Genova le ceneri del Battista. Di più, in quest’ultima scena (laddove le figure sembrano tracciate senza l’ausilio della traccia del cartone) le pennellate, pur trattandosi d’una esecuzione ad affresco, si fanno vibranti e cariche di materia pittorica, tanto da risultare ancora oggi rilevate e materiche, quasi che si trattasse di un dipinto ad olio. Ed è qui che mi pare di poter scorgere (ancora non intesi da alcuno) due meravigliosi ed eloquenti ritratti dei fratelli Carlone, che ben corrispondono con le incisioni lasciateci a loro memoria nei volumi realizzati da Raffaele Soprani e poi aggiornati da Carlo Giuseppe Ratti: Giovanni, morto ormai quasi venticinque anni prima, guarda malinconico lo spettatore con il volto magro ornato di baffi e pizzetto, vestito da chierico e reggendo in mano un cero, quasi a segnalarne la già avvenuta scomparsa; Giovanni Battista invece, all’apice della sua fortuna carriera che non si concluderà se non nel 1684, dal volto florido e dai capelli fluenti, è vestito quasi in abito da lavoro e distoglie lo sguardo, come è proprio del vivente, ancora incapace di “guardare dal quadro” verso il presente. Sebbene si debba sempre procedere con molta cautela nell’individuazione di eventuali autoritratti d’artista, vista l’enorme valenza politico-religiosa dell’opera e il prestigio che essa dovette conferire al pittore, sembra più che logico che Giovanni Battista abbia voluto lasciare una firma, a nome suo e dello scomparso fratello, nel luogo e nell’opera che egli considerava come vertice del proprio percorso artistico e professionale. I due, peraltro, “abitano” una porzione d’affresco che si trova separata dalla scena principale da una delle colonne a trompe l’oeil, mantenendo, dunque, una loro collocazione a metà tra lo spazio della raffigurazione e quello reale.

Quasi a dimostrare, se ve ne fosse stato ancora bisogno, che la barriera di una già immaginata virtualità dello spazio poteva facilmente essere infranta dall’arte pittorica. A dir la verità, una traccia ulteriore in tal senso il Carlone l’ha lasciata nella Cappella del Doge: a ben guardare, almeno quattro puttini a monocromo, dipinti a fingere altrettante sculture omologhe a quelle realizzate in marmo sugli acroteri dell’altare, hanno reali gambe modellate in stucco, che fuoriescono decisamente dalla parete andando a dare corpo all’illusione pittorica. Ad oggi, se si vuole escludere l’episodico tentativo di Lazzaro Tavarone con l’arco dell’Indio nell’affresco colombiano di palazzo Belimbau (1610), questo è sicuramente il primo tentativo riscontrabile a Genova di mettere insieme la plasticazione e la rappresentazione illusoria: una premiere che giunge a dieci anni dall’exploit romano della Cappella Cornaro, dove la regia di Gianlorenzo Bernini coordina le ricerche innovative di Guidobaldo Abbatini nella volta che sovrasta il gruppo scultoreo dell’Estasi di santa Teresa. Una conferma della ricezione per nulla tardiva degli stilemi romani anche in un centro che, come Genova, stava tornando a svolgere ruoli più periferici, ma che non per questo era divenuto incapace di raccogliere le cifre innovative suggerite dai più aggiornati linguaggi che il mondo delle arti proponeva nelle “piazze” di maggior grido.


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