Caravaggio alla corte del cardinal del Monte (II). La Medusa e le Furie di Tiziano e Michelangelo


La Medusa conservata agli Uffizi è uno snodo decisivo per le sorti dell’arte del Caravaggio, ma è anche uno spartiacque nella storia della pittura. Quest’opera ha però una storia iconologica e iconografica lunga, che viene da Michelangelo e Tiziano. Un contributo su questo tema.

Questo contributo è dedicato all’analisi della Medusa di Caravaggio e degli effetti che quest’opera ebbe sul mondo dell’arte. Per porre in maggiore evidenza questo dipinto, che rappresenta un fondamentale momento di svolta nella sua pittura, e dotarlo di un ulteriore valore, si è voluto estendere lo studio anche alle fonti, sia intellettuali che iconografiche, che hanno consentito al Caravaggio di creare un’opera di così grande importanza per la storia dell’arte. A questo scopo cercheremo di rendere palesi quegli intrecci fra diverse discipline (letteratura, filosofia, critica artistica) che rappresentano le diverse radici che, intrecciandosi, hanno permesso la realizzazione di questo dipinto. Questo ha finito per dotare la ricerca anche di un ulteriore valore: il lettore infatti così sarà messo in condizione di osservare come le immagini, partendo dalla loro origine, compiano un cammino che attraversa i secoli, le mode, le forme del pensiero assumendo spesso diversi valori. In questa maniera potremo verificare come le idee si muovono nel tempo passando liberamente da un autore all’altro, da una zona geografica all’altra, mutando parzialmente aspetto e talvolta anche significato a seconda delle personalità responsabili dei differenti apporti, mostrando così finalmente tutta la complessità di una trama che altrimenti rimarrebbe occulta.

La Medusa (fig. 1) è uno snodo decisivo per le sorti dell’arte del Caravaggio, infatti per la ferocia e la crudezza del soggetto questo quadro rappresenta un momento di rottura rispetto alla sensibilità che caratterizzava i suoi dipinti precedenti. La potenza di questa innovazione non sarà destinata ad essere ristretta solo all’ambito della sua opera: questo dipinto avrà rilevanti ripercussioni per l’intera storia dell’estetica, dato che la sua violenza accoppiata al suo intenso realismo infransero e mandarono definitivamente in frantumi quelle regole sul decoro e sull’equilibrio della composizione pittorica che furono oggetto della costante ricerca e divennero la regola seguita da tutti i maestri del rinascimento. Essa sarà destinata ad introdurre quel cambiamento del gusto che prenderà definitivamente corpo durante l’epoca barocca, sarà una pietra miliare destinata a trasformare il concetto di pittura che da questo momento in avanti non avrà più lo scopo di rappresentare il bello come accadeva nel Rinascimento: d’ora in avanti l’arte si proporrà di stupire, di colpire l’animo dello spettatore con qualsiasi mezzo anche il più repellente o strano. Questa nuova estetica non si farà scrupolo di utilizzare anche lo strumento dell’orrore pur di raggiungere il suo scopo, perché “del poeta è il fin la meraviglia”: questo verso del Marino rende bene l’essenza del nuovo spirito, e perfino ai giorni nostri noi possiamo vedere quanto questo assunto sia ancora vero.

Caravaggio, Medusa (1597-1598; olio su tela applicata su scudo di pioppo, 60 x 55 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
1. Caravaggio, Medusa (1597-1598; olio su tela applicata su scudo di pioppo, 60 x 55 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)

I disegni allegorici di Michelangelo

Michelangelo, oltre ad essere un grande pittore e scultore, fu anche un grande disegnatore e le sue invenzioni grafiche ebbero una notevole diffusione: tra i soggetti che godettero di maggior fortuna vi furono un gruppo di disegni che egli donò ad uno dei suoi amici, il gentiluomo romano Tommaso de’ Cavalieri, padre dell’importante musicista Emilio de’ Cavalieri: si tratta del Supplizio di Tizio, del Ratto di Ganimede, della Caduta di Fetonte e di un Baccanale di putti, ai quali anche se non vi sono prove certe alcuni autori aggiungono, a causa di affinità simboliche, un disegno raffigurante un Sogno. Un importante studioso di iconologia, Erwin Panofsky, avanzò la proposta che due di queste immagini andassero lette congiuntamente, poiché egli aveva intuito che il loro significato era legato alla cultura neoplatonica diffusa a Firenze nel ’400. Questi due disegni che furono creati nel 1533 circa, sono dotati di un singolare fascino che deriva dal loro carattere allegorico: si tratta del Supplizio di Tizio (fig. 2), titano che tentò di violentare Latona, e del Ratto di Ganimende (fig. 3), che raffigura il rapimento del giovane fanciullo da parte di Giove trasformato in Aquila.

Secondo le sue indicazioni il disegno di Tizio tormentato dall’avvoltoio che gli mangia il fegato sta a significare il tormento dell’amante lacerato dalla passione sensuale, come infatti è descritto dal Bembo negli Asolani (1505) ed anche successivamente dal Ripa (1593) nella immagine del Tormento d’amore. Di significato opposto è invece il rapimento di Ganimede che vuole rappresentare il rifiuto dei desideri terreni: Panofsky collega questo disegno al Commento del Landino sulla Divina Commedia, in questo caso l’aquila che lo rapisce è il simbolo della divina Carità mentre Ganimede rappresenta la mente umana che viene rapita dal divino dopo che essa ha abbandonato le passioni terrene. Panofsky mette questo disegno in relazione anche a un emblema dell’Alciato: Che l’uomo deve in Dio allegrarsi (Lione 1551). Anche questo autore del Cinquecento interpreta il Ganimede come un simbolo della mente umana rapita dal divino, e nel suo commento in lingua francese (Lione 1551) aggiunge che lo spirito dell’uomo immerso nella contemplazione è come se avesse abbandonato il corpo.

È opportuno aggiungere a queste prime indicazioni il fatto che anche il sommo apice della filosofia neoplatonica fiorentina, Marsilio Ficino, tratta specificatamente ed in maniera approfondita di questo aspetto e cioè del rapimento dell’uomo da parte del divino in un saggio dedicato a questo tema dal titolo Rapimento di Paolo al terzo cielo (1476) e nel Sopra lo Amore (1471). Nel Rapimento di Paolo Ficino chiarisce fin da subito che l’elevazione dell’uomo verso Dio è possibile solo per mezzo della Carità Divina: pensare di riuscire a compiere autonomamente questo cammino è da considerarsi un atteggiamento frutto del peccato di superbia (come si rileva anche nel pensiero degli Insensati): “No piaccia a Iddio che in me sia così superba impietà,che io habbia mai detto dessere quivi salito, perchè io non voglio in simili revelationi di me stesso gloriarmi: tutta la mia gloria altro no è che al Re di gloria, Iddio. Adunque, o Marsilio io no ascesi, ma si bene fui rapito in Cielo. I gravi elementi del mondo, non possono a le cose alte salire, se da le cose alte non sono elevati; gli abitatori della terra non possono a i Celesti gradi innalzarsi, se il Celeste padre prima non gli tira”. Questo è il motivo per cui per illustrare questo concetto si utilizza l’immagine del rapimento, un atto passivo, ed è dunque sotto questa luce che va correttamente intesa l’immagine del ratto di Ganimede. Ficino, proseguendo nel suo discorso, spiega che la via della salita dell’anima fino all’empireo (dove risiede Dio) si realizza per mezzo delle Virtù Teologali, ed infine termina il suo saggio con la stessa frase riportata nell’emblema dell’Alciato: “Che Iddio e lo stesso contento, e per lui solo ci rallegriamo, e per lui solo santamente ci rallegriamo”.

Dunque attraverso questa coppia di disegni, il Tizio ed il Ganimede, si vuole rappresentare due diverse maniere di affrontare la vita da parte dell’uomo, l’una guidata dalle pulsioni dei sensi, l’altra invece indirizzare ai bisogni spirituali. Ficino riprende il tema delle due strade, quella verso le cose terrene o verso le spirituali nel suo scritto Sopra lo Amore: “Siano dunque due Veneri nell’Anima, la prima celeste, la seconda vulgare: amendue abbino lo Amore: la celeste abbia lo Amore a cogitare la divina Bellezza: la vulgare abbia lo Amore a generare la Bellezza medesima nella materia del Mondo” (orazione sesta, capitolo VII), e ancora: “Finalmente per arrecare in somma, Venere, è di due ragioni: una è quella intelligenzia, la quale nella Mente Angelica ponemmo: l’altra è la forza del generare, all’Anima del Mondo attribuita. L’una e l’altra ha lo Amore simile, a sè compagno. Perchè la prima per Amor naturale a considerare la Bellezza di Dio è rapita: la seconda è rapita ancora per il suo Amore, a creare la divina Bellezza ne’ corpi mondani. La prima abbraccia prima in sè lo splendore divino: dipoi diffonde questo alla seconda Venere… L’uno e l’altro Amore è onesto, seguitando l’uno e l’altro divina immagine”(orazione seconda, capitolo VII). Sia la bellezza fisica che quella mentale trovano ambedue radice e sono generate dalla bellezza divina: questa è la vera sorgente e la realtà ultima di entrambe. L’intuizione che queste due opere, che furono donate insieme, abbiano un preciso valore simbolico e vadano lette congiuntamente trova un riscontro oggettivo ed una conferma in una sala del Palazzo Della Corgna a Castiglione del Lago, il cui programma iconografico fu probabilmente ideato dall’Insensato Cesare Caporali. Infatti proprio in questa sala, che era riservata alle riunioni degli Accademici Insensati, troviamo negli affreschi la riproduzione fedele (derivanti da stampe di traduzione) dei due disegni michelangioleschi che abbiamo appena visto, Ganimede (fig. 4) e Tizio (fig. 5), e a questi si aggiungono altre due ulteriori figure: Narciso (fig. 6) e Prometeo (fig. 7).

Michelangelo, Il supplizio di Tizio (disegno a matita nera, 190 x 330 mm; Windsor, Royal Library)
2. Michelangelo, Il supplizio di Tizio (1532; disegno a matita nera, 190 x 330 mm; Windsor, Royal Library)
Michelangelo, Il ratto di Ganimede (disegno a carboncino, 361 x 275 mm; Cambridge, Fogg Art Museum, Harvard University Art Museums)
3. Michelangelo, Il ratto di Ganimede (1532; disegno a carboncino, 361 x 275 mm; Cambridge, Fogg Art Museum, Harvard University Art Museums)
Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Ratto di Ganimede, dettaglio (affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
4. Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Ratto di Ganimede, dettaglio (1582-1583; affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Il supplizio di Tizio, dettaglio (affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
5. Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Il supplizio di Tizio, dettaglio (1582-1583; affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Narciso, dettaglio (affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
6. Niccolò Circignani detto il Pomarancio, Narciso, dettaglio (1582-1583; affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
Niccolò Circignani detto il Pomarancio, La punizione di Prometeo, dettaglio (affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
7. Niccolò Circignani detto il Pomarancio, La punizione di Prometeo, dettaglio (1582-1583; affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)

La distribuzione fisica decisa per queste opere assegna a ciascun personaggio una parete diversa, inoltre sono racchiusi in cornici di forma diversa: due sono quadrate e due sono rettangolari. Nel concreto, si vede Narciso opposto a Ganimede (cornici quadrate) e sulle altre due pareti opposte fra loro troviamo la punizione di Tizio e quella di Prometeo (cornici rettangolari): questi ultimi furono due peccatori dell’Ade antico accomunati da una sorte molto simile, l’uno viene sbranato da un avvoltoio e l’altro da un’ aquila.

Del significato di Tizio e Ganimede abbiamo appena parlato più sopra: quale è ora il senso delle altre due figure che sono state aggiunte? La loro valenza in questa sala va ricercata anche in questo caso nell’alveo della filosofia neoplatonica di Ficino in continuità con la lettura delle altre due. Anche il mito di Narciso ha infatti un valore simbolico che viene descritto da Ficino nella Orazione sesta del Sopra lo Amore, nei capitoli dal XVI al XI° dove viene appropriatamente inserito nel Discorso di come l’uomo si innalza verso Dio: “Narciso adolescente, cioè l’Anima dell’uomo temerario e ignorante, non guarda il volto suo: che si intende, che egli non considera la propria sustanzia e virtù sua: ma l’ombra sua nella acqua seguita, e sforzasi d’abbracciarla: cioè bada intorno alla Bellezza che vede nel corpo fragile, corrente, come acqua, la quale è ombra dello Animo: lascia la sua figura, e l’ombra mai non piglia”.

In questi capitoli il filosofo inizia il suo ragionamento sul tema della ascesi spirituale elencando in maniera chiara i passaggi che sono necessari per compiere questo cammino: “Adunque dal corpo a la Anima, da l’Anima a l’Angelo, da l’Angelo a Dio salire dobbiamo”. Per prima cosa dunque occorre abbandonare le passioni corporali cioè quelle dei sensi, ma questo non basta, non è sufficiente, infatti occorre eliminare anche le passioni per le doti intellettuali, poiché entrambe hanno la stessa radice e cioè l’amore per sé stessi (il cui simbolo è Narciso), ed entrambe mirano al soddisfacimento esclusivo dei propri interessi: solo se si supera entrambe queste barriere allora si ha del tutto lasciato alle spalle le passioni terrene. La bellezza a cui aneliamo e che le nostre passioni desiderano in realtà va riconosciuta e riscoperta per quello che è, la sua vera natura che risiede nella bellezza divina, non bisogna perciò amare la bellezza delle creature ma attraverso la bellezza di queste arrivare a desiderare la bellezza divina: “Adunque il fonte di tutta la Bellezza è Iddio. Iddio è il fonte di tutto lo Amore”. Narciso allora rappresenta in questo contesto l’uomo che iniziando il suo percorso di vita è attratto dalla bellezza che può essere sia intellettuale che fisica; egli immagina che raggiungendola otterrà la felicità, ma una volta raggiunta si accorge amaramente che questo non accade e il suo bisogno rimane insoddisfatto. Anche l’affresco che sta al centro del soffitto della sala tratta di questo tema: in alto è raffigurato il mito di Diana e Callisto che narra di come Diana vedendo Callisto mentre faceva il bagno nuda venne a scoprire che ella era incinta, una cosa che evidentemente i vestiti nascondevano, e questo allude al fatto che la nuda verità è celata sotto l’apparenza delle forme e solo eliminando queste si può raggiungere la realtà più intima. Ficino spiega così il meccanismo che imprigiona Narciso: “Amico quanto è egli però quello che tu ami? Ella è una superficie di fuori: anzi è un poco di colore, quello che ti rapisce: anzi è una certa lievissima riflessione di lumi e di ombre. E forse più tosto una vana immaginazione ti abbaglia: in modo che tu ami quello che tu sogni più tosto che quello che tu vedi”.

Quello che Ficino ha qui enunciato è un concetto che diventerà fondamentale nell’epoca barocca, anzi ne sarà un un pilastro portante (“La vita è sogno”), e le nostre scelte sono spesso il frutto della nostra immaginazione. Il filosofo in questo passo riflette sul fatto che molto spesso noi siamo attirati dalle apparenze degli oggetti terreni, che possono avere sia una consistenza materiale come la ricchezza o la bellezza, ma possono anche avere una natura più astratta come nel caso del potere, della fama: questi sono gli oggetti del nostro desiderio e noi attribuiamo loro un’importanza che in realtà, in concreto, essi in definitiva non hanno. Noi immaginiamo che le cose che desideriamo potranno soddisfare i nostri bisogni più intimi e così le carichiamo di un potere irragionevole, ma una volta raggiunte ci accorgiamo che queste non sono in grado di soddisfare le nostre aspettative e che quindi non hanno il valore che noi ad esse avevamo arbitrariamente attribuito: la amara verità finale è che ciò che abbiamo inseguito non erano altro che i nostri sogni, la nostra immaginazione, ossia il riflesso di noi stessi, una verità di cui il cardinal Maffeo Barberini è del tutto consapevole e che si riflette nelle sue opere. Superando quindi il primo gradino/ostacolo che è rappresentato dal rimanere intrappolati nella ricerca della bellezza corporale si rischia poi di cadere nel secondo trabocchetto, e cioè di desiderare e di fermarsi alla bellezza dell’animo nei suoi diversi aspetti e cioè voler raggiungere la bellezza delle virtù morali o di quelle intellettuali, ma anche questa ricerca non porterà a nulla e lascerà il ricercatore insoddisfatto: “Platone dichiara in questa orazione, la bellezza dello animo nella verità e nella Sapienza consistere: e quella di Dio agli uomini concedersi. Una verità medesima a noi data da Dio per vari suoi effetti, vari nomi di virtù acquista...Onde due generazioni di virtù si anoverano cioè virtù morali e intellettuali: le quali sono più nobili, che le morali: le intellettuali sono Sapienza, Scienza e prudenza; Le morali, Giustizia, Fortezza, e Temperanza” (dal Sopra lo Amore). Anche le virtù dell’Animo, pur avendo un carattere positivo, non costituiscono altro che uno dei gradini per arrivare finalmente alla contemplazione della Virtù ultima, solo un passaggio che serve a raggiungere la Virtù Celeste che è quella divina in cui risiede l’unità della creazione, un concetto che è fondamentale anche nelle ricerche degli Accademici Insensati. Lasciato finalmente dietro di sé anche il desiderio della bellezza dell’Animo, secondo Ficino si arriva ad inseguire la bellezza dell’Angelo e poi finalmente quella Divina: “però è necessario che la detta luce angelica esca da uno principio dello Universo, il quale essa Unità si chiama: La luce adunque di essa Unità in tutto semplicissima è la infinita Bellezza...la pulcritudine infinita, infinito Amore richiede. Per la qual cosa io ti prego, Socrate mio, che tu ami le creature con certo modo e termine: Ma il creatore ama con Amore infinito: Et guardati quanto tu puoi che nello Amare Iddio non abbi né modo né misura alcuna”.

Da questo discorso sulla elevazione dell’animo fino ai suoi gradi superiori deriva che la figura di Narciso rappresenta il grado iniziale di un percorso irto di ostacoli, ed il suo valore simbolico che abbiamo appena spiegato è confermato sia dal testo dell’Alciati, dove Narciso è l’emblema della Philautia (amor di sé: nel suo commento si ammonisce sul fatto che l’autosoddisfazione è la radice della distruzione della mente), e la stessa cosa accade nell’ Iconologia del Ripa per il quale Narciso è l’Amor di sé. Il primo principale problema che si trova ad affrontare chi vuole intraprendere il percorso della salita è quindi proprio quello di rimanere intrappolato nell’amore di sé, cioè rimanere bloccato nelle forme del soddisfacimento del proprio piacere che può essere di due tipi sia fisico che intellettuale. Nel primo caso vuol dire restare ancorato ai piaceri corporali e quindi al più basso stadio evolutivo: questa sorta di prigionia prevede la continua ricerca della propria soddisfazione fisica senza mai trovare un vero appagamento, quindi si è condannati a vagare da un piacere all’ altro senza sosta. Questa sorte è rappresentata da Tizio che subisce il castigo di Giove per aver ricercato il piacere erotico, per questo venne incatenato ad una roccia con un avvoltoio che gli mangia il fegato che ha la proprietà di ricostituirsi in funzione del ciclo lunare. Il suo supplizio quindi si rinnova continuamente, proprio come il bisogno di nuovi piaceri fisici mai si estingue.

L’altro tipo di errore è quello che compie l’uomo che ha superato l’ostacolo dei bisogni corporali ma poi purtroppo finisce per rimanere avvinghiato al piacere delle capacità intellettuali, attraverso le quali pensa di poter autonomamente raggiungere la contemplazione della Divinità. Come abbiamo già visto questo è impossibile: questo passo non può avvenire se non per mezzo della Grazia (si tratta di un rapimento non una salita con le proprie gambe), per questo motivo l’uomo rimane imprigionato nelle forme della bellezza del proprio animo e non prosegue più oltre. Questo secondo tipo di errore (simile al primo) è rappresentato simbolicamente dal mito di Prometeo che subì una sorte simile a Tizio: anch’egli venne incatenato ad una rupe ed un’aquila che gli mangia il fegato che continuamente ricresce, essa è il simbolo di una sete di conoscenza che mai si appaga. Il valore di Prometeo viene anch’esso descritto dal Ficino nelle sue Lettere: è colui che avendo gustato una particella della divinità è condannato alla continua ricerca della beatitudine che ha provato, ma questo bisogno non potrà mai essere soddisfatto se non per intervento divino: “Tale sembra essere quell’infelicissimo il quale, dopo aver conquistato il fuoco celeste, cioè la ragione, istruito dalla sapienza divina di Pallade, proprio per questa ragione sta sulla sommità del monte, cioè nella rocca della contemplazione, per i continui morsi dell’avidissima aquila, cioè per lo stimolo della ricerca, a buon diritto è giudicato il più infelice degli uomini, finché non è condotto a quel luogo dal quale un tempo aveva sottratto il fuoco, per essere pervaso dalla totalità della luce, così come adesso da un solo raggio esiguo è stimolato verso la totalità del lume divino”.

Anche questa interpretazione allegorica è confermata nel testo dell’Alciati che utilizza Prometeo (fig. 8) come simbolo dell’uomo che vuole spingersi troppo in alto nella conoscenza delle cose e di Dio (esattamente come spiega Ficino): “Che quel, ch’è; sopra di noi, non appartiene a noi: Legato con saldissima catena/Sopra Caucaso ogn’hor Prometheo giace; /Ove gli rode con eterna pena /Il cuor mai sempre un’Aquila rapace. /Cosi d’alti pensier la mente piena /Suol esser resa senza haver mai pace/Di chi di saper troppo arde in desio /Siocco; e di riguardar nel seno a Dio”.

A questo punto abbiamo completato la lettura simbolica di tutte le quattro immagini contenute nella sala di Palazzo Della Corgna, e passiamo ad analizzare il terzo disegno di Michelangelo che fu donato al Cavalieri, e che illustra il mito di Fetonte (fig. 9), il figlio di Apollo che voleva raggiungere le più alte sfere e guidare il carro del sole, ma venne fulminato da Zeus.

Anche la leggenda di Fetonte ritorna precisamente nella filosofia del Ficino, ed è riportata in un’altra delle sue lettere, che è collegata esplicitamente al Rapimento di Paolo (dove si tratta del valore simbolico del ratto di Ganimede). In questa lettera indirizzata a Lorenzo il Magnifico, egli riflette sulle speculazioni filosofiche fatte nel Rapimento di Paolo ed ammette di essere incorso nel secondo tipo peccato di cui abbiamo parlato, quello della superbia intellettuale, dato che si è voluto spingere troppo in alto nel cercare di comprendere cose al di sopra delle proprie possibilità come fece Fetonte, e perciò è stato punito con la cecità. Il significato del disegno Michelangiolesco con Fetonte è quindi del tutto simile al valore simbolico di Prometeo. I tre disegni di Michelangelo donati al Cavalieri illustrano quindi il cammino di un uomo innamorato del piacere sensuale (Tizio), il cammino di un uomo innamorato del piacere intellettuale (Fetonte), ed infine – attraverso il ratto di Ganimede – la strada corretta dell’uomo, quella dell’umiltà e dell’amore per il divino, in maniera del tutto simile a quanto accade negli affreschi di Castiglione del Lago.

Vi è inoltre da osservare che negli affreschi del palazzo ritorna puntualmente l’immagine michelangiolesca del Fetonte (fig. 10); infatti in un’altra sala del palazzo questa immagine è stata ripresa dal disegno di Michelangelo (fig. 9), e la sala si chiama appunto “di Fetonte” e fa parte di un gruppo di stanze affrescate dal Pomarancio con la collaborazione di Giovanni Antonio Pandolfi, un pittore di cui parleremo ancora in seguito.

Alciati, Prometeo incatenato, immagine tratta dal libro Emblemata (XVI secolo)
8. Andrea Alciati, Prometeo incatenato, immagine tratta dal libro Emblemata (XVI secolo)
Michelangelo, La caduta di Fetonte (carboncino su carta, 312 x 215 mm; Londra, British Museum)
9. Michelangelo, La caduta di Fetonte (1533 circa; carboncino su carta, 312 x 215 mm; Londra, British Museum)
Niccolò Circignani detto il Pomarancio, La caduta di Fetonte, dettaglio (affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
10. Niccolò Circignani detto il Pomarancio, La caduta di Fetonte, dettaglio (1582-1583; affresco; Castiglione del Lago, Palazzo della Corgna, Sala degli Insensati)
Andrea Alciati, La caduta di Icaro, immagine tratta dal libro Emblemata (XVI secolo)
11. Andrea Alciati, La caduta di Icaro, immagine tratta dal libro Emblemata (XVI secolo)
Michelangelo, Il sogno (carboncino, 389 x 269 mm; Londra, Courtauld Institute)
12. Michelangelo, Il sogno (carboncino, 389 x 269 mm; Londra, Courtauld Institute)

Probabilmente qualcuno tra gli Insensati doveva essere a conoscenza del valore simbolico di tutte queste immagini ed anche del loro legame con la filosofia neoplatonica: questa conoscenza potrebbe essere pervenuta all’interno del circolo per il tramite di Aurelio Orsi, che faceva parte della corte Farnese che era stata frequentata anche da Michelangelo durante il suo soggiorno romano. L’Alciati, per spiegare la stessa morale del Fetonte utilizza un mito molto simile, quello di Icaro (fig. 11) che si è spinto troppo in alto come appunto fece anche il figlio di Apollo e finì per precipitare.

Per riassumere ora in sintesi il significato completo delle figure della sala, Narciso rappresenta il gradino più basso della condizione umana, quando si ha la percezione di un bisogno inappagato e si pensa che la soddisfazione di questo bisogno innato consista nell’appagamento dei propri desideri. Egli dunque rincorre il fascino delle cose materiali come Tizio o l’amore per le doti intellettuali come Prometeo. Tizio e Prometeo in realtà sono simili, infatti entrambi perseguono un fine egoistico, entrambi mirano a soddisfare il proprio ego, e per questo motivo cercano di soddisfarlo correndo dietro ai loro miraggi, ai propri sogni; a questo tipo di uomini manca la dote più importante, il requisito fondamentale per sperare di colmare quel vuoto che non riescono mai a riempire, ovvero l’Umiltà. Solo il percorso di Ganimede è la condizione perfetta, che permette di raggiungere la conoscenza della divinità per mezzo della Grazia Divina che egli ricerca in tutti i modi con umiltà e fatica; questo significa che chi in maniera non egoistica va alla ricerca di qualcosa di diverso da sé, che alla fine proprio per questa sua qualità gli verrà concesso, rappresenta l’esatto contrapposto a Narciso che sta sulla parete opposta e che simboleggia invece l’uomo che è concentrato solo su se stesso: sul proprio piacere sensuale o sulla propria intelligenza. Le pareti intermedie con il supplizio dei due peccatori rappresentano invece le punizioni per chi intraprende un cammino sbagliato, solo chi segue il percorso virtuoso di Ganimede verrà premiato.

Le due ulteriori figure addizionali che sono state introdotte nella stanza di Castiglione del Lago, Prometeo e Narciso, rappresentano dunque a livello di significato un corollario a corredo del ciclo ideato da Michelangelo nei suoi disegni donati al Cavalieri. Lo stesso schema infatti si riflette nei tre disegni di Michelangelo, dove Tizio rappresenta l’uomo imprigionato nei desideri corporali, Fetonte quello che è intrappolato nei desideri intellettuali e Ganimede invece il percorso corretto.

La filosofia neoplatonica ficiniana rappresenta senza dubbio un punto interpretativo privilegiato per la lettura di tutte queste opere, perché comprende e ne fornisce la chiave di lettura unificante. Narciso, Ganimede, Prometeo, Fetonte, sono tutte immagini simboliche che hanno un valore ben preciso nel pensiero del Ficino, e tra l’altro gli servono tutte per spiegare la stessa cosa, il processo di ascesi verso il divino. A questa prima fondamentale evidenza si aggiungono le spiegazioni dell’Alciato che forniscono le stesse interpretazioni di questi miti e dunque un’altra fonte umanistica indipendente conferma a livello di tradizione simbolica il significato di Prometeo, Ganimede, Narciso, e Icaro. Da ultimo, ma non meno importante, vi è il fatto che questa interpretazione delle immagini della sala è da ritenersi corretta perché, come abbiamo visto, essa è del tutto coerente con le idee degli accademici, che appunto vi si riunivano. Del resto gli Insensati sono perfettamente consapevoli che la tipologia della loro ricerca li accomuna alla filosofia platonica, come il Massini dichiara nelle sue Lezioni Accademiche (uno dei suoi fondatori aveva addirittura scelto il soprannome di Platoni), mentre Dionigi Crispolti, fratello di Cesare, il principe della Accademia, nella sua dissertazione sopra l’impresa di Paolo Mancini scrive che egli “spera, mediante gli essercitii di questa nobilissima accademia, ravvivare in se stesso quella virtù” che venne meno quando l’“animo fu infuso nel suo corpo”, e il Bovarini nella sua lezione Sulla Vergogna si riallaccia ai contenuti del Fedro. È dunque del tutto coerente l’utilizzo di queste immagini simboliche nella decorazione della loro sala.

Vi è infine un ultimo disegno di Michelangelo, anch’esso collegabile a quelli donati al Cavalieri, che merita la nostra attenzione e che si chiama Il sogno (fig. 12), da una definizione del Vasari: qui si vede una figura angelica che discende dal cielo per risvegliare un uomo addormentato circondato da varie altre tumultuose figure, le quali sono da interpretarsi come l’oggetto dei suoi sogni, delle sue immaginazioni. Il significato tradizionale dell’opera è stato tramandato da Hieronymus Tetius (Aedes Barberinae ad Quirinalem Descriptae, 1642) che nella sua descrizione dei palazzi Barberini definisce questa invenzione come un’allegoria della mente umana che si ridesta alla Virtù dal sonno in cui il vizio lo aveva immerso. Il protagonista è circondato dalle rappresentazioni dei sette vizi capitali che lo intrappolano in questi desideri per beni e felicità immaginarie, egli sta appoggiato sul una sfera che rappresenta il mondo, e sotto di lui vediamo delle maschere che sono ancora una volta rappresentative dell’inganno. Questa interpretazione può essere sovrapposta al passo di Ficino che abbiamo appena analizzato più sopra: “E forse più tosto una vana immaginazione ti abbaglia: in modo che tu ami quello che tu sogni più tosto che quello che tu vedi”. I suoi desideri terreni in realtà non sono altro che immagini dei suoi sogni, che lo guidano verso il nulla. Dunque anche questo disegno che raffigura il Sogno deve essere interpretato come il corredo ed il completamento del discorso di tipo neoplatonico iniziato da Michelangelo con gli altri tre disegni donati al Cavalieri: l’uomo, per arrivare alla verità ed alla felicità, deve abbandonare tutte le illusioni che si è lui stesso fabbricato, sia quelle di tipo sensuale che quelle intellettuali.

Las Furias di Tiziano

I disegni di Michelangelo divennero ben presto molto famosi e le loro immagini ebbero una grande diffusione per mezzo delle stampe: per questo motivo i loro esempi furono ripresi ed assimilati nelle opere di numerosi artisti posteriori, e fra questi vi fu anche Tiziano Vecellio che, verso la metà del Cinquecento, realizzò un importante ciclo di dipinti per la corona spagnola, composto da quattro tele di grandi dimensioni che raffiguravano le punizioni inflitte ai peccatori dell’ade antico: Tizio (fig. 13), Sisifo (fig. 14), Tantalo, e Issione. Le loro figure mitologiche sono tramandate nelle Metamorfosi di Ovidio: in questo testo per la prima volta troviamo tutti e quattro questi trasgressori riuniti insieme.

Dei dipinti realizzati da Tiziano, purtroppo ci rimangono solo Tizio e Sisifo, poiché Issione e Tantalo furono distrutti in un incendio, tuttavia del Tantalo conosciamo almeno l’iconografia attraverso una incisione realizzata da Giulio Sanuto (fig. 15), dell’Issione invece neppure quella, poiché non siamo a conoscenza di una stampa direttamente riconducibile a questo quadro. Il ciclo fu commissionato da Maria d’Asburgo nel 1548 per commemorare il successo militare di suo fratello Carlo V sulla lega di Smalcalda e venne destinato ad abbellire il suo palazzo reale a Binche in Belgio, terra che allora era sotto il dominio spagnolo: le quattro tele adornavano il salone di rappresentanza della residenza.

Dal punto di vista iconografico le immagini ideate da Tiziano mostrano che egli conosceva le figure dipinte da Michelangelo nella cappella Sistina; il cadorino ebbe sicuramente modo di vederle durante il suo soggiorno a Roma, e anche i contemporanei si erano accorti di questo legame, infatti già nel 1571 Giovanni Battista Venturino da Fabriano notava la vicinanza artistica delle tele di Tiziano con le figure affrescate nella Cappella Vaticana. Questa relazione viene confermata anche in tempi più recenti da uno studioso del Tiziano, Paul Joannides, che avvicina la figura di Sisifo (fig. 14) ad un personaggio che porta un fardello nel Diluvio universale (fig. 16); in aggiunta a questa si deve tenere in considerazione anche quest’altra figura appartenente al Giudizio (fig. 17) come modello per il Sisifo, mentre la parte superiore del Tantalo (fig. 15) riprende quella del San Bartolomeo presente nel Giudizio di Michelangelo (fig. 18).

Nel disegno della Punizione di Tizio del 1532 (fig. 2) donato dal Buonarroti a Tommaso de’ Cavalieri abbiamo poi un altro riferimento sicuro per la figura di Tizio dipinto dal Vecellio (fig. 13): alla sua ideazione molto probabilmente ha contribuito anche la conoscenza dell’affresco di Michelangelo con il Martirio di San Pietro della Cappella Paolina, la sua lavorazione data infatti proprio agli anni della permanenza di Tiziano a Roma, tra il 1545 e il 1546 (fig. 19). Vi è infine da aggiungere che il significato allegorico delle sofferenze causate dall’amore sensuale, di cui abbiamo parlato più sopra riguardo ai disegni di Michelangelo (Bembo), nell’ambito della letteratura spagnola si estese ben presto anche ai dipinti di Tiziano. Un primo riflesso del significato simbolico relativo a queste immagini può essere rinvenuto nelle opere letterarie di Lope de Vega, Juan de Jaurengui e soprattutto nei lavori di Miguel de Cervantes (fig. 20) che assorbe questo valore allegorico sia nella prima parte del Don Chisciotte che nella Galatea.

Cervantes risiedette stabilmente in Italia a partire dal 1569, e nel 1571 prese parte come soldato alla battaglia di Lepanto al servizio di Marcantonio Colonna: egli ebbe certamente ottimi rapporti con questa famiglia nobiliare dato che dedicò al Cardinale Ascanio Colonna, il fratello della marchesa Costanza, proprio la Galatea (1582). Miguel de Cervantes fu amico anche del marchese Ascanio I della Corgna, il proprietario del palazzo di Castiglione del Lago che egli conobbe durante la battaglia di Lepanto, ma soprattutto strinse amicizia con il poeta Cesare Caporali, l’accademico insensato che contribuì a creare il ciclo di affreschi di Castiglione del Lago. Dunque non è probabilmente un caso che nella Galatea di Cervantes si ritrovi il tema della transitorietà del piacere terreno e della disillusione d’amore, temi tipici degli Insensati, un significato che si ritrova anche negli affreschi di Castiglione. Il poeta perugino Caporali dunque, a conti fatti, si dimostra una figura di primo piano per la sua capacità di intrecciare relazioni con importanti poeti del suo tempo, ed evidentemente era tenuto in grande considerazione anche sotto il profilo artistico-poetico come dalle deduce dalle nelle parole encomiastiche che gli dedica Giovanni Lomazzo. Addirittura il Cervantes si ispirò ad un poema del Caporali, il Viaggio di Parnaso, per il suo omonimo Viage del Parnaso, dove fa espresso riferimento proprio alla persona del Caporali.

Tiziano, Tizio (1548 circa; olio su tela, 253 x 217 cm; Madrid, Prado)
13. Tiziano, Tizio (1548 circa; olio su tela, 253 x 217 cm; Madrid, Prado)
Tiziano, Sisifo (1548 circa; olio su tela, 237 x 216 cm; Madrid, Prado)
14. Tiziano, Sisifo (1548 circa; olio su tela, 237 x 216 cm; Madrid, Prado)
Giulio Sanuto, Tantalo, da un dipinto perduto di Tiziano (acquaforte, 448 x 353 mm)
15. Giulio Sanuto, Tantalo, da un dipinto perduto di Tiziano (1565 circa; acquaforte, 448 x 353 mm; Amsterdam, Rijksmuseum)
Michelangelo, Diluvio universale, dettaglio dell'affresco della Cappella Sistina
16. Michelangelo, Diluvio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell'affresco della Cappella Sistina
17. Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell'affresco della Cappella Sistina
18. Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
Michelangelo, Martirio di san Pietro, dettaglio dell'affresco della Cappella Paolina
19. Michelangelo, Martirio di san Pietro, dettaglio dell’affresco della Cappella Paolina

Lo spagnolo non fu certo estraneo allo spirito ironico del perugino e possedeva nella sua biblioteca personale copia dei suoi testi, inoltre conosceva in maniera approfondita gli Asolani del Bembo dove come abbiamo visto la figura di Tizio assume il valore simbolico delle sofferenze d’amore; dunque potrebbe essere stato proprio Cervantes, il più anziano fra i poeti spagnoli che abbiamo appena citato, a diffondere questo significato allegorico in Spagna. Ma è nei Paesi Bassi e cioè nel luogo dove erano originariamente conservate, che le opere di Tiziano trovarono la più vasta eco dal punto di vista iconografico: molti artisti olandesi infatti dipinsero, disegnarono ed incisero temi derivanti dal ciclo tizianesco, e in alcuni casi furono addirittura allievi del cadorino, come avvenne per Cornelis Cort e Dirk Barendsz. Il ciclo trovò una accoglienza molto favorevole, in special modo tra gli artisti della scuola di Harleem tra i quali spicca senza dubbio la figura di Hendrick Goltzius che eseguì una sua versione dipinta del Tizio (1618) chiaramente ispirata al quadro di Tiziano e soprattutto incise a bulino, tecnica nella quale fu un maestro assoluto, alcune opere derivanti dal ciclo. Nel 1577 realizzò una stampa con le punizioni infernali (fig. 21) che è piuttosto importante per il nostro discorso, infatti al suo interno si trovano rappresentate tutte le quattro immagini dei peccatori di Tiziano, dunque questa stampa ci permette di ricostruire anche l’aspetto del perduto Issione. In primo piano nella sua parte centrale possiamo notare la stessa posa del Sisifo, a sinistra vediamo Tizio, mentre a destra si trova Tantalo, ed infine sempre in primo piano nella parte superiore troviamo raffigurato un peccatore trattenuto a testa in giù che deve forzatamente riflettere la perduta figura di Issione.

Dato che in questa stampa le figurazioni dei tre peccatori di cui conosciamo l’immagine sono fedelmente aderenti alle immagini originali di Tiziano, ne consegue che deve esserlo anche l’Issione, del quale attraverso questa incisione abbiamo finalmente una indicazione concreta della Iconografia. Questa ipotesi viene confermata anche dalla vicinanza della posa di questa figura con l’opera di uguale soggetto realizzato dal Ribera (fig. 22), che studiò molto attentamente “le Furie”, dato che furono trasferite a Madrid nel 1566. A ulteriore riprova di questa identificazione possiamo notare che, come avvenne nel caso delle altre figure del ciclo di Tiziano, anch’essa trae origine dalle invenzioni michelangiolesche, in particolare da questo gruppo del Giudizio Universale (fig. 23), con una figura a testa in giù, trattenuto per le ginocchia e le braccia incrociate sopra il capo.

Goltzius, nel 1588, realizzò una ulteriore serie di quattro incisioni ispirate al ciclo di Tiziano, aventi ancora per soggetto quattro peccatori del mito antico (Issione, Tantalo, Fetonte, Icaro), che Caravaggio ebbe sicuramente modo di vedere. Queste incisioni ebbero un notevole successo ed ancora oggi sono fra le sue opere più apprezzate. Qualche anno dopo, nel 1590, egli soggiornò in Italia dove rimase fino al 1591, e durante il suo tour si recò a Roma, dove studiò le opere di Michelangelo e Raffaello e collaborò con il pittore Gaspare Celio.

A partire dalla fine del XVI secolo il ciclo di dipinti di Tiziano cominciò ad essere chiamato in Spagna con l’appellativo di “Las Furias” e così venne chiamato anche il salone di rappresentanza dove erano conservate: “Sala de las Furias”. Questo avvenne apparentemente senza una ragione comprensibile dato che le figure mitologiche dei peccatori non hanno nessuna attinenza con le Furie della mitologia Greca. A mio avviso la ragione di questo apparentamento deve essere rinvenuta nel Trattato dell’arte della pittura scultura ed architettura (1584) di Giovanni Paolo Lomazzo. Infatti nel settimo ed ultimo libro di questo trattato lo scrittore fornisce dei modelli per le immagini più frequentemente utilizzate dai pittori. In particolare nel capitolo XXXII che tratta “Della forma da dare alle tre furie infernali”, troviamo le indicazioni degli esempi da utilizzare in questo caso: “Questa descrizione dell’inferno che io ho sommariamente cavato da Dante ha seguitato il Buonarrotto e in disegno il fratello di Taddeo Zuccaro si come dissi nel altro libro, e oltre loro Tiziano rappresentando le cose maggiori del naturale e divinamente coloritele come con Prometeo legato al monte Caucaso, lacerato da l’aquila, Sisifo che portava un sasso grandissimo Tizio stracciato dall’avvoltoio, e Tantalo ch’egli dipinse alla regina Maria sorella di Carlo quinto e l’unico Leonardo Vinci, il quale dimostrò le forme degli animali e serpi viventi in mostri mirabili, dipingendo fra le altre cose sopra una rotella la horribile faccia di luna delle furie infernali, la quale fu mandata a Ludovico Sforza duca di Milano, doppi la quale ne fece poi un altra che ora si trova in Fiorenza...Così se ne possono rappresentare nel giudizio tremendo di Cristo, come in diversi altri gesti molto osservato nel suo Buonarroti, e forme, facendo in loro secondo i suoi atti il corpo con facce sdegnose e fiere, de le quali molte se ne possono immaginare... ”.

Nel testo del Lomazzo si indica chiaramente (e anche precisamente) che il ciclo commissionato da Maria d’Asburgo a Tiziano è da prendere come riferimento per realizzare gli atteggiamenti fisici e le espressioni delle Furie, stabilendo così un nesso diretto tra queste figure mitologiche ed il ciclo tizianesco destinato a diventare un loro exemplum: in questo modo i dannati di Tiziano divennero Las Furias, e gli altri modelli proposti allo stesso scopo da Lomazzo furono le due Meduse di Leonardo e i dannati di Michelangelo raffigurati nel Giudizio Universale.

Artista ignoto, Ritratto di Miguel de Cervantes (olio su tela)
20. Artista ignoto, Ritratto di Miguel de Cervantes (1600 circa; olio su tela; Madrid, Real Academia de la Historia)
Hendrick Goltzius, I dannati dell'inferno (bulino, diametro 262 mm)
21. Hendrick Goltzius, I dannati dell’inferno (1577 circa; bulino, diametro 262 mm)
José de Ribera, Issione (olio su tela, 301 x 220 cm; Madrid, Prado)
22. José de Ribera, Issione (1632; olio su tela, 301 x 220 cm; Madrid, Prado)
Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell'affresco della Cappella Sistina
23. Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina

La Medusa di Caravaggio

Caravaggio, nel periodo passato presso la residenza, del Cardinal del Monte dipinse sia lo scudo con la Medusa che l’affresco con Giove, Nettuno e Plutone: in quest’ultimo caso trasse l’ispirazione dalle immagini dei peccatori tizianeschi tramandate nelle versioni a stampa realizzate da Goltzius. Infatti se confrontiamo il Giove dell’affresco Ludovisi (fig. 24) con la incisione di Issione, presa in controparte (fig. 25), non potremo mancare di cogliere la certezza della sua derivazione.

Mina Gregori poi non solo conferma che il Caravaggio ha preso spunto dal ciclo realizzato da Goltzius, ma aggiunge anche il fatto che il pittore conosceva pure il ciclo originale di Tiziano: infatti, a giudizio della studiosa, l’aquila del Tizio tizianesco e la maniera in cui si avvinghia al suo corpo gli servirono da guida nella realizzazione dello stesso animale per la figura di Giove. Anche Sybille Ebert-Schifferer concorda sul fatto che Caravaggio conoscesse il ciclo dell’olandese e ne ravvisa i riflessi nel di poco successivo Martirio di San Matteo. Per cercare di spiegare come sia stato possibile che Caravaggio sia venuto a conoscenza di questi modelli, possiamo in primo luogo osservare che le stampe di Goltzius ed i modelli del ciclo tizianesco circolavano all’interno della bottega dell’Arpino, inoltre non dobbiamo dimenticare che Caravaggio fu a bottega dal Peterzano che era stato un allievo proprio di Tiziano. Per l’impostazione degli altri personaggi dell’affresco, Nettuno e Plutone, si deve invece piuttosto far riferimento agli esempi degli affreschi in prospettiva verticale realizzati in San Paolo Converso a Milano da Antonio e Vincenzo Campi, un cantiere in cui aveva lavorato anche il Peterzano, o al Mercurio affrescato da Camillo Procaccini nel Ninfeo di Pirro Visconti. Possiamo inoltre aggiungere che molto probabilmente per l’ideazione della espressione del Nettuno (fig. 26) egli si servì dell’invenzione contenuta in un disegno michelangiolesco molto famoso, quello di un’anima dannata.

Questo disegno venne regalato da Michelangelo a Gherardo Perini e conobbe una larga diffusione attraverso le molte traduzioni a stampa finendo col diventare l’exemplum perfetto per la rappresentazione del dolore estremo. La sua riproduzione più famosa è una copia d’epoca conservata al Gabinetto dei disegni e delle Stampe degli Uffizi (fig. 27) che venne studiata approfonditamente da Berenson, che ce la descrive così: “Testa scapigliata di un’anima dannata che urla di rabbia o di dolore, incorniciata da panni svolazzanti come vele investite dal vento”: lo studioso la mise in relazione col Giudizio universale, come appare del resto logico per il tema trattato e ne suggerì un accostamento con una testa di un demonio (non di un dannato) a sinistra del viso di Minosse (fig. 28), una cosa del tutto ragionevole, anche se mi pare che questa prova grafica sia complessivamente da avvicinare alla figura che urla, con il mantello ed i capelli scossi dal vento (esattamente come nel disegno), di un peccatore punito (quindi di un’anima dannata) affrescato nel Diluvio universale della cappella Sistina (fig. 29).

È piuttosto naturale pensare che Caravaggio conoscesse l’iconografia di questo disegno o più probabilmente avesse visto direttamente il personaggio del Diluvio nella cappella Sistina, un luogo che egli conosceva molto bene; l’affresco con gli dei risale al periodo in cui era più profondo in lui l’interesse e lo studio delle teste urlanti che appaiono molto spesso nelle sue composizioni di quegli anni. Occorre aggiungere che questa prova grafica storicamente è conosciuta con un diverso appellativo, e cioè “la furia”: anch’essa dunque veniva chiamata esattamente come i dannati di Tiziano. Così infatti fu descritta in un inventario mediceo degli anni Sessanta del Cinquecento (anteriore al trattato di Lomazzo): “un viso quasi che di furia”. A questo punto sorge spontaneo chiedersi l’origine di questo soprannome, che nel caso di questo disegno michelangiolesco non può evidentemente derivare dal Trattato del Lomazzo. Volgendo lo sguardo alla maniera in cui il modello di questa immagine si diffuse attraverso le incisioni, possiamo osservare che essa venne utilizzata dal Rosso Fiorentino nella realizzazione di un disegno di una Furia infernale poi tradotto a stampa da Giacomo Caraglio nel 1524 (fig. 30).

Per cui molto probabilmente l’inventario Mediceo, a causa della traduzione a stampa fatta dal Rosso e da Caraglio, rende per la prima volta noto l’utilizzo di questo modello michelangiolesco relativo ai dannati del Giudizio per la realizzazione delle figure delle Furie. Fu dunque l’utilizzo del disegno michelangiolesco dell’anima dannata come modello per la stampa della Furia a dare origine alla tradizione di chiamare il volto del dannato ideato da Michelangelo “la Furia”; successivamente il Lomazzo suggerì di utilizzare tutte le immagini dei dannati michelangioleschi come modello per rappresentare le tre, e a causa della vicinanza espressiva egli estese questo uso anche alla Medusa leonardesca e al ciclo tizianesco.

Caravaggio, Giove, dettaglio della pittura a olio su muro al Casino dell'Aurora
24. Caravaggio, Giove, dettaglio della pittura a olio su muro al Casino dell’Aurora
Hendrick Goltzius, Issione (bulino, diametro 321 mm)
25. Hendrick Goltzius, Issione (1588; bulino, diametro 321 mm)
Caravaggio, Nettuno, dettaglio della pittura a olio su muro al Casino dell'Aurora
26. Caravaggio, Nettuno, dettaglio della pittura a olio su muro al Casino dell’Aurora

Michelangelo fu per il Caravaggio una pietra di paragone ineludibile ed egli forse voleva anche proporsi al pubblico romano come il nuovo Michelangelo: il suo amico e letterato Marzio Milesi compose una poesia su questo tema, e in effetti gli affreschi romani di Michelangelo rappresentarono per Caravaggio una sorgente di derivazione privilegiata per tutta la durata della sua carriera. Seguendo questo filo diversi studiosi – Sybille Ebert-Schifferer, Mina Gregori e Klaus Kruger – hanno proposto che il disegno con la furia michelangiolesca sia servito per ispirare anche la Medusa di Caravaggio; oltre a questo esempio è logico pensare che il pittore dovette sicuramente servirsi per la sua ideazione anche dell’analogo precedente della rotella con la Medusa dipinta da Leonardo. Entriamo così nella parte conclusiva del nostro discorso che tratta di come Caravaggio utilizzò per i suoi dipinti anche il terzo ed ultimo modello iconografico proposto dal Lomazzo nel suo passo sulle Furie, dopo che – come abbiamo visto – egli utilizzò sia i dannati di Tiziano che il dannato michelangiolesco. Il Caravaggio infatti impiegò tutti e tre gli esempi proposti dal Lomazzo nei suoi dipinti: dunque appare a questo punto molto verosimile che il pittore conoscesse perfettamente il brano del teorico milanese, dato che ne accolse per intero i suggerimenti. La rotella con la Medusa (fig. 1) del Caravaggio (diametro 55 cm) venne con tutta probabilità commissionata dal Cardinal del Monte per farne dono al Granduca Ferdinando I de’ Medici al fine di risarcire la perdita di quella dipinta da Leonardo che faceva parte delle collezioni medicee e che nel 1587 era già andata dispersa. Il dipinto del Caravaggio venne per la prima volta inventariato il 7 settembre 1598 e probabilmente fu donato dal Cardinale al Granduca nel corso di un lungo viaggio con varie tappe che il porporato iniziò il 13 aprile 1598, e che lo portò a Firenze il 25 luglio del 1598. Se quindi il Caravaggio ebbe il compito di misurarsi con il precedente leonardesco appare del tutto ragionevole che egli abbia preso spunto da questo per poi realizzare una sua versione del tema con quelle tinte forti e realistiche che caratterizzavano la sua “maniera”.

Dato che noi non possediamo una iconografia certa dell’immagine leonardesca, la critica ritiene in linea generale che una incisione di Cornelis Cort (fig. 31) rappresenti la riproduzione più aderente all’opera originale e appunto da questa fa discendere l’aspetto di quella caravaggesca.

Dalla testimonianza del Lomazzo però noi sappiamo che Leonardo realizzò non una, bensì due Meduse, una prima che era conservata a Milano ed una seconda a Firenze e questo racconto appare del tutto corretto, anche nella sequenza esecutiva: infatti il Vasari nella sua vita di Leonardo, redatta circa una quindicina d’anni prima del trattato del lombardo, riporta la stessa notizia e cioè che una prima Medusa venne donata da Leonardo a suo padre, Ser Piero da Vinci. Fu realizzata su una rotella di legno di fico piatta: “Lionardo, arrecatosi un giorno tra le mani questa rotella, veggendola torta, mal lavorata e goffa la dirizzò col fuoco, e datala a un torniatore, di roza e goffa che ella era, la fece ridurre delicata e pari. Et appresso ingessatala et acconciatala a modo suo, cominciò a pensare quello che vi si potesse dipignere su, che avesse a spaventare chi le venisse contra, rappresentando lo effetto stesso che la testa già di Medusa”. Piero poi la rivendette ad alcuni mercanti che a loro volta la rivendettero al Duca di Milano: “Appresso vendé ser Piero quella di Lionardo secretamente in Fiorenza a certi mercatanti, cento ducati. Et in breve ella pervenne a le mani del duca di Milano, vendutagli 300 ducati da detti mercatanti”. Leonardo successivamente realizzò una seconda opera con il soggetto della Medusa, che per la verità Vasari ci dice essere un quadro e non una rotella, conservata nella collezione di Cosimo I de’ Medici: “Vennegli fantasia di dipignere in un quadro a olio una testa d’una Medusa con una acconciatura in capo con uno agrupamento di serpe la più strana e stravagante invenzione che si possa immaginare mai; ma come opera, che portava tempo, e come quasi interviene in tutte le cose sue, rimase imperfetta. Questa è fra le cose eccellenti nel palazzo del duca Cosimo”.

A questo punto quale era l’aspetto delle immagini dipinte da Leonardo e quale servì da esempio per il Merisi? Appare logico, e più probabile, che il pittore abbia in primo luogo avuto accesso a qualche immagine relativa a quella conservata a Milano: per trovarne gli esempi occorrerebbe dunque cercarne le tracce tra i pittori operanti in quell’area. Ora, esiste a Cremona un affresco realizzato da Giulio Campi nel 1537, una scena notturna raffigurante la Sant’Agata in carcere, dove se osserviamo bene troveremo la figura di un piccolo scudo tondeggiante sottile e piatto (fig. 32, ringrazio l’architetto Flavio Cassarino che ha concesso l’uso di questa bella immagine che permette di cogliere perfettamente il dettaglio dell’affresco), appunto una rotella, contenente un viso di Medusa che corrisponde all’oggetto che stiamo cercando. Il fondo è dipinto di verde e il tondo è racchiuso da una linea decorativa dorata, il volto ha una forte connotazione tridimensionale che gli permette di staccarsi ed uscire diagonalmente dal piano dello scudo, proiettandovi sopra la sua ombra (a sinistra), esattamente come avviene nella rotella di Caravaggio anche per quanto riguarda il particolare della bocca è aperta e distorta, tutti questi elementi rendono questa immagine complessivamente l’esempio iconografico più vicino a quello realizzato da Caravaggio (o quantomeno più vicino rispetto all’incisione di Cort).

Da Michelangelo, La Furia (1525 circa; disegno, 357 x 251 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
27. Da Michelangelo, La Furia (1525 circa; disegno, 357 x 251 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
28. Michelangelo, Giudizio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
Michelangelo, Diluvio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
29. Michelangelo, Diluvio universale, dettaglio dell’affresco della Cappella Sistina
Jacopo Caraglio (da Rosso Fiorentino), La Furia (1524 circa; bulino, 247 x 183 mm)
30. Jacopo Caraglio (da Rosso Fiorentino), La Furia (1524 circa; bulino, 247 x 183 mm)
Cornelis Cort, La Medusa (bulino, 334 x 226 mm)
31. Cornelis Cort, La Medusa (bulino, 334 x 226 mm)
Giulio Campi, Sant'Agata in carcere, dettaglio (1537 circa; affresco; Cremona, Sant'Agata)
32. Giulio Campi, Sant’Agata in carcere, dettaglio (1537 circa; affresco; Cremona, Sant’Agata)
Artista ignoto, Le tre Furie (olio su tela, 64 x 50,8 cm; Ubicazione sconosciuta)
33. Artista ignoto, Le tre Furie (olio su tela, 64 x 50,8 cm; Ubicazione sconosciuta)

E per quanto riguarda quella conservata a Firenze? Ho cercato di dare una risposta anche a questa domanda e facendo alcune ricerche nell’Archivio della Fondazione Zeri, è emersa questa foto delle Furie (fig. 33). Se osserviamo bene quella di sinistra, Tesifone, troveremo un volto davvero molto simile a quello realizzato da Caravaggio. Si tratta di una tela di 64 per 50,8 cm, passata da Sotheby’s nel 1965 (fig. 33): il dipinto è classificato da Zeri come anonimo fiorentino del XVI secolo, potrebbe essere anche una derivazione dall’esemplare caravaggesco, ma se così non fosse allora questo dipinto potrebbe davvero riflettere l’aspetto del quadro di Leonardo, in mancanza di altre notizie dovremo accontentarci per il momento di questa traccia.

La Medusa del Caravaggio fu un dipinto che suscitò molta eco all’epoca e come tale fu oggetto di due componimenti ecfrastici da parte dei più importanti poeti barocchi, così infatti su di essa si espresse il Marino (1601): “Hor qua i nemici fian, che freddi marmi/ Non divengan repente/In mirando, Signor, nel vostro scudo/ Quel fier Gorgone, e crudo,/ Cui fanno orribilmente/ Volumi viperini/ Squallida pompa e spaventosa à crini?/ Ma che! Poco fra l’armi/ A voi fia d’huopo il formidabil mostro:/ Ché la vera Medusa è il valor vostro”, e poi il Murtola (1604), “È questa di Medusa / La chioma avvelenata / Di mille serpi armata? / Sì sì, non vedi, come /Gli occhi ritorce e gira?/Fuggi, che se stupore agli occhi impetra /Ti cangerà anco in pietra”. La medusa viene generalmente interpretata con un valore apotropaico, si tratta cioè di un oggetto in grado di repellere il male, ma accanto a questa interpretazione ad sensum si è fatta strada una ulteriore e più precisa lettura che è stata avanzata sia da Friedlander che da Moir, che fanno riferimento alla Iconologia del Ripa. Infatti, il perugino quando parla della Ragione ci dice “che la Vittoria che si ha de li inimici, che combattono l’uomo interiore, figurato secondo il corpo e la chiarezza di Christo, fa diventar gli Huomini stupidi alle ragioni del senso, come la testa di Medusa faceva restar medesimamente stupidi quelli che la guardavano”. Questi studiosi dunque, alla luce di questo passo e coerentemente con caratteristiche umane della persona dell’ ex-cardinale de Medici, interpretano il dipinto come il simbolo della Vittoria della Virtù sopra i sensi: “In a symbolic-philosophic sense, the enemies of man are within himself, and Ripa in his Iconologia define the head of Medusa as a symbol of the victory of reason over the senses, the natural foes of “virtù”, which like physical enemies are petrified when faced with Medusa” (Friedlander), “Ripa afferma nella Iconologia che la Medusa simbolizza il trionfo della ragione sui sensi per amore della virtù” (Moir). Anche Eugenio Battisti la interpreta in modo simile mettendo in luce il suo valore di ammonimento per chi la riceve in dono, essa infatti serve ad avvertire il suo proprietario a stare in guardia contro le lascivie del mondo. Ritorna dunque anche in questo caso una interpretazione allegorica del tutto in linea con le figure dei due porporati e con gli interessi degli Accademici Insensati: la vittoria sui sensi attraverso il rifiuto di soggiacere ad essi. Dal punto di vista pittorico, con questo dipinto il Caravaggio comincia anche la sua personale riflessione sul tema della costruzione dello spazio nei dipinti, che sarà uno dei filoni fondamentali della sua arte. Il concetto di spazio che egli elabora in questo caso è illusorio e molto particolare perché, con estremo realismo, egli cerca di creare l’illusione che la testa si proietti al di fuori del spazio fisico su cui è stata dipinta, e cioè verso l’osservatore, come descrive correttamente Moir: “Di enorme effetto, comunque, è lo straordinario trompe l’oeil grazie al quale la superficie convessa dello scudo appare concava, con la testa che, sospesa davanti ad esso, sembra affacciarsi sullo spazio reale, in modo tale che il sangue possa sgocciolarsi sul pavimento sottostante e il fetido alito che esalerebbe la vera Medusa (ma non certo questo giovane che simula il terrore) possa colpire la sensibilità dell’ osservatore”. Il problema che si pone qui il Caravaggio è quello di creare una immagine che sia illusionisticamente presente allo spettatore, in modo da colpire con forza la sua sensibilità: vuole dargli la sensazione di essere proprio di persona davanti alla Medusa da cui sgorga il sangue. L’opera è stata dunque congegnata con lo scopo di stupire con il suo orrore chi la osserva, ed è proprio attraverso la calcolata violenza di questa scena che il Caravaggio compì un gesto rivoluzionario: quest’opera è infatti un vero e proprio spartiacque della pittura. I suoi dipinti fino a questo momento (a parte la smorfia del Ragazzo morso dal ramarro) erano tutti intrisi da una sottile e pervasiva atmosfera di tranquillità: pensiamo al Suonatore di liuto, alla Buona ventura, al Ragazzo con canestro di frutta o al Concerto, tanto per citarne alcuni, le sue figure sembravano immerse in uno spazio fermo, intriso di un sentimento di pacatezza che mostra il suo culmine nella Fuga in Egitto. Nella Medusa il paradigma cambia completamente; il Merisi qui mette in scena in modo molto realistico (ed è questa la sua forza), l’orrore, la violenza del sangue, che di lì a poco tempo si trasformeranno nelle opere successive anche in violenza del contrasto di luce, anche se “Michele incominciò ad ingagliardire gli scuri” già nel periodo del servizio presso il del Monte. In questa immagine il grido angosciante della Medusa rimane fissato per sempre dalla sospensione dell’azione causata dal suo trasformarsi in pietra, il suo urlo raggelato assume così la connotazione di un grido perpetuo, incessante. Il suo effetto mozzafiato derivato dalla sospensione della azione qui operata dal Caravaggio, trova una corrispondenza che la amplifica nel senso di sospensione fisica di cui è stata dotata la testa che è stata posta sapientemente in uno spazio vuoto dove non appoggia su nulla: essa quindi si trova in una situazione dichiaratamente irrealistica.

Con questo dipinto la sua arte comincia a pervenire a completa maturazione, si sta aprendo verso nuove direzioni che il pittore inseguirà oramai fino alla fine. Come dice bene il poeta Murtola, la Medusa è un dipinto che è stato creato appositamente per stupire l’osservatore, il suo tema raccapricciante finisce per scontrarsi radicalmente e totalmente con quegli schemi del decoro in pittura imposti da Giovanni Andrea Gilio nel suo Dialogo dove si ragiona degli errori e degli abusi de’ Pittori circa l’historie (1561) dove si fa addirittura una aperta critica anche alle figure del Giudizio di Michelangelo; i canoni ed i confini dell’estetica contemporanea saranno completamente stravolti e ridefiniti da questo dipinto del Caravaggio. Quest’opera viene così ad assumere la rilevanza di una pietra miliare della pittura e più in generale di tutti i fatti artistici del suo secolo. Il Marino che vide la rotella durante una visita a Firenze nel 1601, fu il primo ad avere la sensibilità necessaria per avvertire con precisione la forza e la importanza di questo cambiamento del gusto, operato dal Caravaggio. Perfino nella pittura del “divino” Guido si avvertirono i riflessi della rivoluzione operata dal Merisi, sia nel modo “tenebroso” e quasi caravaggesco di organizzare la luce ma anche nel modo di narrare il racconto nelle sue opere; un fatto che con avvedutezza e intelligenza ancora il Marino registrò nella sua Strage degli Innocenti di Guido Reni: “Che fai Guido? che fai? / La man, che forme angeliche dipigne,/ tratta or opre sanguine? Non vedi tu, che mentre il sanguinoso / stuol de’ fanciulli ravivando vai nova morte gli dai? O ne la crudeltate anco / pietoso Fabro gentil, ben sai / ch’ancor Tragico caso e caro oggetto, e che spesso l’orror va col diletto”. Anche per Guido dunque “l’orror va col diletto” e cioè lo spettatore viene attratto e quasi imprigionato dalla violenza dell’orrore che colpisce il suo animo, dal brivido e dall’ansia che genera la scena; egli si nutre di queste forti emozioni ed in questo trova piacere, si tratta probabilmente di una liberazione catartica nei confronti delle sue paure.

Nel paradigma che è venuto così a generarsi troviamo il filo conduttore più profondo e genuino non solo della poetica del Marino ma a ben vedere anche del barocco, infatti “È del Poeta il fin la meraviglia”, cioè lo stupore, il saper catturare lo spettatore è l’acme dell’arte il suo scopo ultimo, che l’artista vuole ottenere anche a costo di utilizzare rappresentazioni angoscianti. Il Marino arriverà ad una più compiuta formulazione di questo concetto in un altro componimento più tardo sempre dedicato alla Strage degli innocenti (1632). Il contrasto tra il canone estetico classico e quello che si evidenzia nella Medusa del Caravaggio si cristallizza sinteticamente in questo verso del Marino dal valore iconico: “Contro il furor che val bellezza”. La calma e placida bellezza rinascimentale viene sopraffatta e definitivamente annientata dalla potenza delle violente emozioni ricercate dal Barocco. Elisabeth Cropper fu colpita dalla forza della Medusa, ma non fu la sola studiosa moderna ad essere affascinata dalla sua potenza: in tempi recenti ad intuire la numinosità di questo dipinto furono anche Lionello Venturi, Sebastian Schütze e Miguel Falomir che ne compresero la portata; ma fu il francese Louis Marin che più di tutti ebbe ad insistere con convinzione su questo argomento e cioè sull’importanza di questo dipinto.

Dobbiamo dunque infine a questo punto concludere che quest’opera creò una radicale frattura nella storia dell’arte mutando l’indirizzo della pittura in direzione dell’interesse per la violenza espressiva; successivamente il pittore rafforzerà questo indirizzo aumentando la violenza del contrasto di luce, e la sua rivoluzione quindi venne a iniziarsi proprio in casa del Cardinal Del Monte. Uno dei primi pittori assieme a Reni che fu profondamente colpito dalla nuova estetica proposta dal Caravaggio fu Rubens, anch’egli realizzò una sua versione della Medusa e cercò di accogliere i nuovi canoni caravaggeschi all’interno della sua opera pittorica: citiamo solo alcuni esempi come la perduta Giuditta ed Oloferne, la Deposizione, la Caccia al leone ed alla tigre, il Prometeo, il Piccolo Giudizio universale. Tutti gli artisti, sia italiani che stranieri che vennero in Italia in quel periodo, dovettero in qualche modo confrontarsi con questa idea rivoluzionaria, tutti quelli che l’accettarono completamente divennero “caravaggeschi”; questo nuovo gusto arrivò a toccare i suoi apici estremi, perfino certe volte repellenti, nelle opere del Ribera. Insomma, la Medusa del Caravaggio segnò il definitivo trapasso da una rappresentazione pittorica indirizzata a rappresentare un mondo perfetto, un modello di un ideale da raggiungere, ad un’altra che all’opposto riflette un mondo concreto ed estremamente realistico, dominato da forti sensazioni ed intensi tormenti, con un gusto quasi espressionistico. Si aprì così il vaso di Pandora da cui uscirono quelle intricate e violente passioni che ancora oggi afferrano e soggiogano il nostro animo.


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