I martiri di piazzale Loreto di Aligi Sassu, una delle più note opere della Resistenza


Nel 1952, Aligi Sassu esponeva alla Biennale di Venezia uno dei suoi dipinti più noti, “Guerra civile”, meglio noto come “I martiri di piazzale Loreto”. Descrive una famigerata strage repubblichina contro i partigiani ed è diventata una delle più note opere della Resistenza.

Alle otto e un quarto di mattina dell’8 agosto del 1944, un camion appartenente ai tedeschi che occupavano Milano fu oggetto di un attentato che, stando ai verbali della Guardia Nazionale Repubblicana, non provocò alcune vittime tra i soldati nazisti, ma costò la vita a sei cittadini milanesi e il ferimento di altri undici. Non si giunse mai ad appurare chi furono gli autori dell’attentato, e per di più si trattò di un attentato anomalo, come ha ricostruito lo storico Massimo Castoldi: aveva colpito un obiettivo tutt’altro che strategico, e per giunta in circostanze del tutto insolite (come la presenza di un solo soldato tedesco a bordo del veicolo, il che significava lasciare un automezzo militare praticamente incustodito), e non aveva tenuto conto dell’eventuale coinvolgimento della popolazione (tanto che provò solo vittime innocenti).

Non si sa, dunque, se si trattò di una messinscena ordita dagli stessi nazisti (che comunque, ha fatto notare lo storico Luigi Borgomaneri, non avevano bisogno di attuare delle simulazioni per avviare rappresaglie) oppure, forse più probabilmente, di un qualche elemento sciolto che prese una sconsiderata iniziativa individuale senza considerare le conseguenze. Sta di fatto che la rappresaglia dei nazisti fu durissima, poiché all’alba del 10 agosto, appena due giorni dopo l’attentato, il capitano delle SS Theodor Saevecke ordinò ai fascisti milanesi di prelevare quindi partigiani dal carcere di San Vittore e di farli fucilare in piazzale Loreto. La fucilazione venne eseguita da un plotone di militari fascisti della legione Ettore Muti, comandati dal capitano Pasquale Cardella. I quindici partigiani vennero fucilati alle sei della mattina, dopodiché i loro cadaveri vennero esposti in piazzale Loreto fino alle otto di sera, a scopo intimidatorio, come avvertimento alla popolazione, con un cartello che li identificava come assassini, e con i passanti che venivano obbligati a fermarsi a osservare lo scempio. Il più giovane aveva ventun anni, il più anziano cinquantadue. Il poeta Franco Loi, all’epoca quattordicenne, era stato testimone oculare e avrebbe poi raccontato: “C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno, la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche; [...] ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati!”.

Questa “vertigine” è il soggetto di uno dei più celebri dipinti della Resistenza, I martiri di piazzale Loreto di Aligi Sassu (Milano, 1912 – Pollença, 2000), opera eseguita poco dopo la strage, esposta in seguito alla Biennale di Venezia del 1952 (con il titolo Guerra civile, riscuotendo peraltro numerosi apprezzamenti) e subito acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma dietro suggerimento del critico e storico dell’arte Giulio Carlo Argan, per la somma di 309.300 lire, corrispondenti a circa 6.000 euro attuali. L’opera si trova tuttora nel museo romano. Nel dipinto, basato su una nota fotografia della strage, si vedono i corpi dei partigiani giacenti per terra, coperti di sangue, a simboleggiare le vittime dell’oppressione nazista. Sassu, fervente antifascista, incarcerato nel 1937 per la sua militanza (sarebbe rimasto in galera per circa un anno: nel luglio del 1938 venne poi graziato dal re), decide d’interpretare la fotografia con una composizione dai toni carichi e vibranti, utilizzando cromie forti e contrasti accesi per trasmettere all’osservatore l’intensità e la tragedia dell’evento. Ne risulta dunque un’opera in grado di comunicare una densa carica emotiva e politica, tesa a evidenziare il sacrificio di quanti lottavano contro l’occupazione nazista e al contempo a ricordare coloro che persero la vita nella lotta per la libertà. Predominano i toni del rosso, colore simbolo del sangue versato dai partigiani, della fede politica di Sassu e anche della sua arte.

Aligi Sassu, Guerra civile (I martiri di piazzale Loreto) (1944; olio su tela, 116 x 200 cm; Roma, Galleria Nazonale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Aligi Sassu, Guerra civile (I martiri di piazzale Loreto) (1944; olio su tela, 116 x 200 cm; Roma, Galleria Nazonale d’Arte Moderna e Contemporanea)
La foto che testimonia la strage di piazzale Loreto del 10 agosto del 1944
La foto che testimonia la strage di piazzale Loreto del 10 agosto del 1944

Sassu raccontò in seguito di essersi recato direttamente sul luogo per osservare quello che i repubblichini, su ordine dei nazisti, avevano fatto. “Fu in forza dell’angosciata confidenza di un amico”, avrebbe poi detto Sassu, “che andai là, sul posto dell’eccidio: ‘Aligi, hanno fatto una strage e i cadaveri sono ancora nella piazza’. Così mi trovai con il cuore gonfio di orrore e di commozione, impotente tra gente impotente, spettatore impietrito del ludibrio a cui i militi repubblichini avevano sottoposto i corpi di quei generosi nostri fratelli. Me ne tornai sconvolto; giunto nella casa di via Bagutta volli subito fissare sulla tela la memoria di quel sacrificio, volli immediatamente celebrare in pittura quanto avevo visto. Ma non avevo una tela e per tante ragioni non avrei potuto procurarmene una sul momento. Allora cominciai a dipingere sopra un altro mio quadro che rappresentava un ciclista. Dopo due giornate di lavoro conclusi I martiri di piazzale Loreto, un’opera che divento tra le più rappresentative e le più note di quel periodo; opera acquistata da Argan per la Galleria d’Arte Moderna a Roma. L’ho già detto, quelle scene mi avevano sconvolto. Eppure vi era in me, nel fuoco che mi agitava mentre dipingevo, nell’ansia che mi riempiva il petto mentre cercavo di esprimere quel che avevo visto, una tristezza immensa. Pensai, alla fine, che da quei corpi insanguinati e inerti si levasse un muto ammonimento per tutti gli italiani e, anzi, per tutti gli uomini: non di vendetta o di rancorosa ricerca dei torti e delle ragioni, ma di pace, di giusta pace”.

In realtà non sappiamo fino a che punto sia attendibile il racconto di Sassu, dal momento che risulta difficile immaginare che subito dopo il 10 agosto circolassero già fotografie della strage: addirittura, secondo lo storico Sergio Luzzatto, andrebbe rivista la datazione dell’opera, la cui fonte è unicamente la testimonianza dell’artista (anche perché, come ha notato il sopra ccitato Castoldi, dipingere un’ingombrante tela di due metri per uno e mezzo avrebbe esposto l’artista a enormi rischi, in quanto, qualora trovata durante un’ispezione da un fascista o da un nazista, “avrebbe significato in quei mesi arresto immediato, e forse fucilazione o deportazione”). Castoldi ha tuttavia sottolineato come nel dicembre di quell’anno la fotografia a cui s’ispirò l’artista venne adoperata per un volantino che fu appeso alle acciaierie Falck nel dicembre del 1944. La prima attestazione dell’opera risale invece al 1951, quando se ne parlò per la prima volta sul quotidiano Milano Sera, che pubblicò una dichiarazione di Sassu, nella quale l’artista riferiva di aver dipinto I martiri di piazzale Loreto “nell’agosto del 1944, subito dopo avere visto il ludibrio che la canaglia repubblichina faceva dei corpi dei nostri fratelli. Eppure vi era in me, nel fuoco e nell’ansia che mi agitava, nel cercare di esprimere quello che avevo visto, una grande pace e non odio, ma una tristezza immensa. Da quei corpi sanguinanti e inerti sorgeva un ammonimento ed un monito a tutti gli uomini. Pace”.

Qualunque sia stata l’effettiva data di realizzazione dell’opera, I martiri di piazzale Loreto rimane uno dei più noti e celebrati testi visivi della Resistenza, oltre che “uno dei capolavori più emozionanti di Aligi Sassu”, come ebbe a scrivere Mario De Micheli. La scelta di rappresentare l’eccidio dei partigiani vuol essere non soltanto un modo per trasmettere la memoria del tragico evento, oltre che una sorta di personale tributo di Aligi Sassu alle vittime della strage e un’esortazione contro le atrocità dell’oppressione e della tirannia. Sassu, col suo dipinto, operò un vero ribaltamento delle intenzioni dei fascisti, che avrebbero poi fatto diffondere la foto da cui è tratta l’opera, sempre come monito alla popolazione. Quella che era una minaccia diventa una testimonianza. L’aria gelida della fotografia s’accende con una pittura dai toni sfaldati, che trasfigura l’immagine documentaria d’una strage in una commemorazione che, pur senza discostarsi dalla foto e pur senza perdere accenti di realismo, attraverso un denso espressionismo carica l’immagine di partenza di un significato del tutto opposto. Il torvo messaggio intimidatorio diventa così un’elegia sentita, a cavallo tra esigenza di fedeltà al fatto storico e necessità di costruire un mito.


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