Il marmo di Carrara nell'arte. Storia del suo utilizzo nei monumenti


Una breve storia dell’uso del marmo di Carrara nell’arte dall’antichità ai giorni nostri, con particolare riguardo ai monumenti.

Il poeta romano Claudio Rutilio Namaziano, attivo nel quinto secolo dopo Cristo, è stato tra i primi a registrare, nella letteratura, la meraviglia che tutti provano di fronte alle Alpi Apuane e al marmo bianco che macchia di bianco queste montagne al confine tra Toscana e Liguria. Nel De Reditu Suo (“Del suo ritorno”), opera in cui Namaziano parla del viaggio di ritorno a Roma compiuto partendo dalla Gallia, la sua terra d’origine (il poeta era di Tolosa), scrive a proposito della tappa a Luni: “Advehimur celeri candentia moenia lapsu: Nominis est auctor Sole corusca soror. / Indigenis superat ridentia lilia saxis, / Et levi radiat picta nitore silex. / Dives marmoribus tellus, quae luce coloris / Provocat intactas luxuriosa nives” (“Siamo arrivati velocemente a quelle mura candide: il loro nome è quello della sorella che splende della luce del sole. Con i sassi indigeni supera i gigli sorridenti, e la pietra splende di una luce lieve. Terra ricca di marmi, che con la sua luce dei colori sfida sontuosa la neve immacolata”). Per Rutilio Namaziano, in sostanza, quello che oggi conosciamo come “marmo di Carrara” era in grado, con la sua luce, di rivaleggiare con i gigli e con la neve. In questi celebri versi si può apprezzare un sentimento ch’è possibile riscontrare nella storia recente del marmo apuano, ovvero gli ultimi cinquecento anni, dal Rinascimento in avanti, quando il materiale estratto dalle cave di Carrara diventa particolarmente amato per le sue caratteristiche intrinseche, vale a dire la sua lucentezza, il suo candore, la sua brillantezza, che hanno rappresentato elementi estremamente rilevanti per la monumentalità moderna, anche perché le proprietà estetiche del marmo potevano essere associate facilmente a valori positivi (basti pensare al bianco come sinonimo di purezza). Sebbene sia improprio rifarsi a un poeta latino per sottolineare un concetto che si afferma in età moderna, va comunque ricordato che questi versi sono stati molto citati, soprattutto nell’Ottocento, per decantare le qualità del marmo apuano, la cui escavazione comincia dopo il 155 a.C., data del definitivo assoggettamento dei liguri apuani ai romani.

Naturalmente i romani non furono i primi a scolpire in marmo, dal momento che le prime sculture di marmo che conosciamo provengono dalle Grecia antica: la Kore di Nikandre, una statua della metà del VII secolo avanti Cristo, rappresenta il primo esempio noto di scultura in marmo raffigurante un essere umano a grandezza naturale. La scultura in marmo è tuttavia ancora più antica: ci sono pervenuti, per esempio, diversi piccoli manufatti della civiltà cicladica realizzati anch’essi in marmo (si tratta di statuette votive di piccole dimensioni, realizzate in marmo per il fatto che nelle Cicladi questo materiale si trovava in grande abbondanza). Lo stesso termine “marmo” è di origine greca: deriva da mármaros, che significa “pietra splendente”, anche se la sua lucentezza, in età antica, non era la caratteristica che aveva fatto innamorare del marmo i greci prima e i romani poi. L’abbondanza dell’uso del marmo nella statuaria antica è dovuta a fattori molto più prosaici: in Grecia e nelle sue isole, infatti, si trovava marmo in abbondanza, e di conseguenza era un materiale facile da trasportare e da lavorare, tanto che gli scultori greci si sarebbero specializzati in questo materiale.

Occorre infatti tener presente che i greci e i romani coloravano le loro statue: l’idea delle sculture greche e romane col marmo lasciato nella sua colorazione naturale in realtà è frutto di un equivoco storico che, dal Rinascimento, ha resistito molto duramente sino ai giorni nostri, perché è difficile sradicare dal nostro immaginario l’idea che le statue antiche fossero bianche: in realtà, si potrebbe dire banalizzando un poco, poiché greci e romani aspiravano al naturale, e poiché il naturale è colorato, greci e romani non potevano lasciare che le loro statue rimanessero bianche. Col passare dei secoli, le statue antiche, sepolte nella terra o esposte agli agenti atmosferici, perdevano il colore, e di conseguenza, ritrovate a secoli di distanza, in condizioni tutt’altro che ottimali, si presentavano nel colore naturale del marmo, e quindi bianche. Di recente molti esperti d’arte antica si sono prodigati per trasmetterci la corretta immagine delle statue antiche: è il caso dell’archeologo tedesco Vinzenz Brinkmann, che ha immaginato una serie di riproduzioni dipinte di celeberrime statue dell’antichità (come l’Afrodite Cnidia o l’Augusto di Prima Porta oggi ai Musei Vaticani) per una mostra cominciata nel 2003 alla Gliptothek di Monaco di Baviera e che da allora ha girato il mondo: intitolata Gods in Color, è stata organizzata, tra gli altri, presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, alla Liebieghaus di Francoforte, all’Università di Heidelberg, al Museo Archeologico di Madrid, al Museo Medievale di Stoccolma, al Museo Archeologico Nazionale di Atene, al Getty di Los Angeles e in diversi altri istituti.

Kore di Nikandre (650 a.C. circa; marmo di Nasso, altezza 180 cm; Atene, Museo Archeologico Nazionale)
Arte greca, Kore di Nikandre (650 a.C. circa; marmo di Nasso, altezza 180 cm; Atene, Museo Archeologico Nazionale)
Copia romana da Prassitele,  Afrodite Cnidia (originale del 360 a.C. circa; marmo, altezza 205 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino)
Copia romana da Prassitele, Afrodite Cnidia (originale del 360 a.C. circa; marmo, altezza 205 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio-Clementino)
Arte romana, Augusto di Prima Porta (inizi del I secolo d.C.; marmo, altezza 204 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Braccio Nuovo)
Arte romana, Augusto di Prima Porta (inizi del I secolo d.C.; marmo, altezza 204 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Braccio Nuovo)
Ricostruzione dell'Afrodite Cnidia a colori
Ricostruzione dell’Afrodite Cnidia a colori (di Vinzenz Brinkmann)
Ricostruzione dell'Augusto di Prima Porta a colori (di Vinzenz Brinkmann)
Ricostruzione dell’Augusto di Prima Porta a colori (di Vinzenz Brinkmann)

Una delle opere romane più antiche in marmo si trova al Museo Archeologico Nazionale di Luni ed è la base della statua dedicata a Marco Claudio Marcello, il generale che nel 155 a.C. riesce a sconfiggere definitivamente i liguri apuani: è proprio a partire da questa data che i romani cominciano a sfruttare intensamente il marmo delle cave di Carrara, che inizialmente viene adoperato soprattutto come materiale da costruzione (visitando Luni ci si accorgerà facilmente di come diversi elementi, come colonne e basi, siano realizzati in marmo). Sarà dunque necessario qualche tempo, ovvero fino alla metà del primo secolo avanti Cristo, affinché il marmo lunense diventi materiale diffuso anche a Roma, e sempre con impiego nell’architettura, in sostituzione dei materiali tradizionali come il legno e il cotto.

Quando si parla di “arte romana” occorre ricordare che si parla di un’arte che conosce diversi sviluppi: inizialmente, come si può vedere osservando il Fregio della Basilica Emilia, è un’arte che sostanzialmente imita quella greca. La Grecia viene occupata dai romani nel 146 a.C.: un fatto storico dal valore culturale notevole poiché i romani iniziano a sviluppare una vera passione per l’arte greca e diventano fieri e assidui importatori di statue greche, anche perché almeno fino alla tarda età repubblicana Roma non avrà un’identità artistica definita né svilupperà una sensibilità artistica coerente e spontanea, tanto meno esisteranno programmi di sviluppo di una civiltà artistica propriamente detta: per questa ragione, fino a poco prima della nascita dell’impero, si tratta sostanzialmente di un’arte di imitazione. Il ruolo del marmo è però già chiaro e definito: già nell’età di Cesare avere statue di marmo, o la casa decorata con elementi in marmo, viene considerato segno di prestigio.

La situazione cambia notevolmente in età imperiale: con il nuovo ordinamento dello stato, subisce una trasformazione anche, fin dai tempi di Augusto, la politica culturale di Roma. Prima dell’impero, l’arte andava avanti sostanzialmente da sola, non esisteva un progetto culturale coerente, e come anticipato si trattava per lo più di una scultura d’imitazione. Con l’impero la situazione muta, dal momento che una delle prime esigenze di Augusto è quella di dotare l’impero di una precisa identità culturale, con lo scopo di consolidare l’autorità dell’impero e il suo prestigio. Il progetto di Augusto passa anche attraverso le lettere (si pensi per esempio all’Eneide), e proprio sotto Augusto comincia un’arte di stampo celebrativo che vede nel marmo uno dei suoi materiali privilegiati. Il marmo comincia dunque a essere fortemente richiesto non solo per l’edilizia pubblica, ma anche per quella privata, e naturalmente questa richiesta è alla base della fortuna di Luni. Ed è proprio in quest’epoca che si sviluppa in maniera chiara una forte monumentalità in marmo, peraltro originale, perché l’arco di trionfo è un’invenzione romana, nata in epoca augustea, che non aveva nessuna funzione pratica, ma unicamente celebrativa, ed era dunque la massima espressione dell’idea tipicamente romana di “monumento”, ovvero un’arte pubblica per ricordare e celebrare un evento in cui la collettività si riconosceva. Una funzione peraltro esaltata dal fatto che gli archi di trionfo erano isolati dalle altre architetture, per rendere ancora più chiaro il loro valore simbolico. Per esempio, nel caso dell’arco di Tito, il più antico arco di trionfo che esista a Roma (sebbene in Italia ne esistano di più antichi), l’intento era quello di celebrare il trionfo dell’imperatore Tito contro i giudei nel 70 d.C., e come spesso accaduto nel corso della storia romana non viene fatto erigere dal diretto interessato, ovvero da Tito, bensì dal suo successore, Domiziano, ultimo imperatore della dinastia dei Flavi, che con questa opera intendeva celebrare suo fratello Tito, il quale all’epoca della realizzazione di questo monumento (a partire dall’81 d.C.) era già stato divinizzato. Gli archi di trionfo possono essere considerati opere a metà tra architettura e scultura, perché erano non soltanto strutture imponenti e ben riconoscibili nel contesto urbano, ma venivano anche finemente decorati dai migliori artisti, con pannelli che illustravano imprese del personaggio a cui l’arco veniva dedicato: in questo caso, il trionfo di Tito, che viene incoronato dalla personificazione della Vittoria, e il corteo dei soldati delle sue legioni che portano a Roma il bottino della guerra giudaica (si vedono dunque le opere che i romani portarono via dal tempio di Gerusalemme, a cominciare dal candelabro a sette bracci).

Base della statua di Claudio Marcello (155 a.C. circa; marmo lunense; Luni, Museo Archeologico Nazionale)
Base della statua di Claudio Marcello (155 a.C. circa; marmo lunense; Luni, Museo Archeologico Nazionale)
Fregio della Basilica Emilia (primi decenni del I secolo a.C.; marmo pentelico, altezza 75 cm; Roma, Museo Nazionale Romano)
Fregio della Basilica Emilia (primi decenni del I secolo a.C.; marmo pentelico, altezza 75 cm; Roma, Museo Nazionale Romano). Foto Wikimedia/Folegandros
Arco di Tito (81-inizi del II secolo d.C.; marmo pentelico e marmo lunense, 19,21 x 13,50 m; Roma, Fori imperiali)
Arco di Tito (81-inizi del II secolo d.C.; marmo pentelico e marmo lunense, 19,21 x 13,50 m; Roma, Fori imperiali)

La caduta dell’impero romano coincide anche con un periodo piuttosto sfortunato per le cave di marmo, dal momento che per secoli l’escavazione viene praticamente azzerata, e nei pochi casi in cui si costruisce col marmo si opera attraverso il reimpiego di materiale precedentemente utilizzato, attraverso la spoliazione di edifici antichi. Era molto frequente, per esempio, reimpiegare colonne per la costruzione delle chiese, o anche utilizzare sarcofagi come altari. Per assistere a una nuova fioritura del marmo occorrerà aspettare l’anno Mille, quando l’escavazione riprenderà a ritmi sostenuti: è interessante notare che il Duomo di Carrara è il più antico edificio realizzato interamente in marmo apuano dopo l’antichità, anche se non è il più antico in senso lato a fare uso del marmo apuano, dal momento che, prima del Duomo di Carrara, il marmo delle cave lunensi viene largamente impiegato in San Miniato al Monte a Firenze o nel Duomo di Pisa: la cattedrale pisana, in particolare, è la prima costruzione dopo l’antichità in cui si fa ricorso all’utilizzo del marmo dando nuovo avvio all’attività di escavazione.

Nel Medioevo comincia anche il mito (o almeno tale è per gli abitanti di Carrara) dei grandi artisti che si recano personalmente in città per scegliere i marmi da cui sarebbero nati i loro capolavori. Il primo di cui si ha notizia è Nicola Pisano, che nel 1265 si trasferisce per qualche tempo a Carrara per contrattare la fornitura dei marmi che sarebbero serviti per il pulpito del Duomo di Siena e per organizzare il trasporto (i blocchi sarebbero stati dunque estratti a Carrara e inviati a Pisa, città dove sarebbero stati lavorati visto che Nicola Pisano lì risiedeva), e infine la spedizione a Siena. Il mito dell’artista che arriva a Carrara e sceglie i blocchi coinvolgerà poi tante altre figure, su tutte quella di Michelangelo Buonarroti che ha soggiornato diverse volte a Carrara per scegliere i marmi che avrebbero dato vita ai suoi capolavori: la prima volta a poco più di vent’anni, nel 1497, quando riceve l’incarico di scolpire la Pietà vaticana per il cardinale francese Jean Bilhères de Lagraulas. Inizialmente destinata alla cappella di Santa Petronilla, che si trovava vicino alla basilica di San Pietro, viene poi trasferita dentro alla basilica nel 1517, e ancor oggi è lì che la ammiriamo. Curiosamente Michelangelo si reca per la prima volta a Carrara in un momento dell’anno non particolarmente indicato per salire alle cave, ovvero nel mese di novembre: è possibile dunque immaginare la fatica che si faceva all’epoca per ascendere alle cave, resa ancor più epica per il fatto che i mezzi del tempo non erano certo quelli moderni. Tutti aspetti che hanno contribuito ad alimentare il mito di Michelangelo che sfida gli elementi, sfida le forze della natura, sfida la materia, e riesce a cavare dal marmo le sue opere immortali.

Per arrivare alla rinascita del monumento come lo intendevano gli antichi, ovvero come struttura o come opera celebrativa svincolata da un contesto architettonico, ci sarà da aspettare invece Donatello, il primo artista moderno a realizzare un monumento in questa accezione. Si tratta del monumento al Gattamelata, il condottiero Erasmo da Narni, realizzato tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta del Quattrocento, e ancora oggi lo si può vedere a Padova di fronte alla basilica di Sant’Antonio: è il primo monumento equestre eretto dopo l’antichità, e celebra un condottiero che aveva combattuto per la Repubblica di Venezia (lo Stato in cui all’epoca si trovava Padova), e per innalzarlo si sarebbe resa necessaria un’apposita autorizzazione del Senato della Repubblica, per il fatto che la celebrazione sulla pubblica piazza di un personaggio moderno, per giunta scomparso da poco, era un fatto totalmente nuovo per l’epoca, e di conseguenza sarebbe stato indispensabile fare in modo che la decisione di erigere il monumento derivasse da un processo partecipato. L’opera, infatti, era stata commissionata non dalla Repubblica, bensì dal figlio di Erasmo da Narni, ma poiché il monumento sarebbe stato posto su una piazza pubblica, la realizzazione di questa scultura sarebbe divenuta materia di dibattito pubblico. Il monumento al Gattamelata non è comunque la prima statua equestre in senso lato, dal momento alcune opere come le statue equestri dei signori di Verona sono di molto precedenti, ma erano state concepite per decorare la sommità delle arche (le loro sepolture monumentali), e si trattava quindi di monumentalità funebre.

Il primo caso importante di monumentalità in marmo in una piazza pubblica è il David di Michelangelo, scolpito da un unico blocco di marmo precedentemente sbozzato (prima da Agostino di Duccio e poi da Antonio Rossellino), anche se è interessante rilevare che il David non nasce inizialmente come monumento, perché doveva decorare uno dei contrafforti del Duomo di Firenze. È dunque un caso molto interessante di opera che cambia completamente di significato poco dopo la sua realizzazione: siamo nel 1504, Michelangelo ha quasi finito di scolpire l’opera, e a Firenze si pone il problema di dove sistemarla dato che in relazione alla sua ubicazione prevista erano sorte diverse problematiche (il progetto iniziale prevedeva infatti la realizzazione di altre dieci opere delle stesse proporzioni, ed era diventato impensabile per ragioni di tempistiche e costi). Inoltre, si trattava pur sempre di una statua di cinque metri d’altezza, quindi si poneva il problema di sollevarla alla quota inizialmente stabilita, e sorgeva per di più una questione di natura artistica: il David era un’opera tanto fuori dall’ordinario da essere considerata “sprecata”, per così dire, per una collocazione a ottanta metri d’altezza. La Repubblica di Firenze raduna dunque una commissione, formata dai più grandi artisti del tempo (tra gli altri: Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, Filippino Lippi, Piero di Cosimo, il Perugino, Lorenzo di Credi), e si decide per l’idea di Filippino Lippi, ovvero ubicare l’opera vicino all’ingresso di Palazzo Vecchio (dove oggi si trova la copia ottocentesca), al posto della Giuditta di Donatello che, altro caso interessante, era stata concepita inizialmente come decorazione per una fontana (o almeno questa è l’ipotesi più accreditata) e poi, dopo la cacciata, dei Medici, committenti dell’opera, nel 1494 sistemata in piazza della Signoria a significare la vittoria sulla tirannide. Anche il David di Michelangelo subisce un cambio di significato in questi termini, dal momento che, posto sulla pubblica piazza, non rappresentava più un’opera di carattere religioso, ma diventava un monumento “laico”, simbolo delle virtù civili della Repubblica fiorentina: la forza e l’intelligenza della città, la vittoria della Repubblica sulla tirannide, il coraggio nell’affrontare i nemici.

Duomo di Pisa (1062-1093)
Duomo di Pisa (1062-1093)
San Miniato al Monte (XI secolo). Foto di Visit Tuscany
San Miniato al Monte (XI secolo). Foto di Visit Tuscany
Duomo di Carrara (XI-XIV secolo). Foto di Finestre sull'Arte
Duomo di Carrara (XI-XIV secolo). Foto di Finestre sull’Arte
Nicola Pisano, Pulpito del Duomo di Siena (1265-1268; marmo di Carrara, 350 x 200 cm; Siena, Duomo). Foto di Francesco Bini
Nicola Pisano, Pulpito del Duomo di Siena (1265-1268; marmo di Carrara, 350 x 200 cm; Siena, Duomo). Foto di Francesco Bini
Donatello, Monumento equestre al Gattamelata (1445-1453; bronzo, 340 x 390 cm; Padova, Piazza del Santo)
Donatello, Monumento equestre al Gattamelata (1445-1453; bronzo, 340 x 390 cm; Padova, Piazza del Santo)
Arche Scaligere (XIV secolo; marmo di Candoglia e Rosso di Verona; Verona, Piazza delle Arche Scaligere)
Arche Scaligere (XIV secolo; marmo di Candoglia e Rosso di Verona; Verona, Piazza delle Arche Scaligere)
Michelangelo, David (1501-1504; marmo, altezza 517 cm compresa la base; Firenze, Galleria dell’Accademia)
Michelangelo, David (1501-1504; marmo, altezza 517 cm compresa la base; Firenze, Galleria dell’Accademia)

La storia della monumentalità pubblica, peraltro, continua sempre a Firenze, dove, qualche decennio più tardi, raggiunta una certa stabilità politica, Cosimo I diventa il primo sovrano moderno ad avviare un intenso programma di celebrazione pubblica dello Stato, con monumenti eretti da lui e dai suoi successori non solo a Firenze ma in tutte le città del granducato, per esaltare la potenza medicea. Il primo di questi monumenti viene eretto prima ancora che Cosimo diventi granduca: corre l’anno 1562 e l’opera è la colonna della Giustizia di piazza Santa Trinita, che utilizza una colonna di reimpiego (proveniva dalle Terme di Caracalla e viene donata all’allora duca di Toscana da papa Pio IV). Poi, nel 1581, le viene aggiunta una statua in porfido rosso di Francesco del Tadda raffigurante la Giustizia (da cui il nome), con intenti chiaramente celebrativi. Naturalmente, in questo programma celebrativo dei Medici, il marmo assume un ruolo importante: uno degli esempi più noti è il Monumento dei Quattro Mori di Livorno, che celebra la vittoria dei Cavalieri di Santo Stefano sui corsari barbareschi (i mori pertanto non sono schiavi come si potrebbe credere, bensì pirati catturati durante una guerra, e varrà la pena sottolineare che i corsari barbareschi riservavano lo stesso trattamento ai loro nemici, bianchi). Il monumento è sormontato dalla statua di Ferdinando I de’ Medici, realizzata a partire dal 1595 da Giovanni Bandini, che la scolpisce direttamente a Carrara, e poi innalzata nel 1617 dal suo successore Cosimo II. I mori sono invece in bronzo e sono opera di Pietro Tacca, scultore carrarese che peraltro molto curiosamente si sarebbe specializzato nel bronzo, invece che nel marmo, il materiale locale.

Con un balzo di centocinquant’anni si arriva a Johann Joachim Winckelmann, che in un noto passaggio della sua Storia dell’arte nell’antichità del 1764 scrive: “L’essenza della bellezza non è il colore ma è la forma. Poiché il bianco è il colore che respinge la maggior parte dei raggi luminosi, e di conseguenza quello percepito più facilmente, un bel corpo sarà tanto più bello quanto più sara bianco”. Possiamo forse individuare in Winckelmann il principale responsabile della nostra percezione dei monumenti antichi, dal momento che è sua la concezione di un ideale di purezza destinato, da un lato, a diventare fondante per l’estetica neoclassica, e dall’altro a condizionare la stessa idea moderna di monumento. Come ricordato sopra, i pigmenti che gli antichi usavano per colorare le statue in marmo erano facilmente deperibili, e di conseguenza all’epoca del loro ritrovamento era comune pensare che le statue in antico fossero bianche. Inoltre, Winckelmann accordava una particolare predilezione al bianco, e di conseguenza si può agevolmente comprendere perché, quando si pensa alle statue antiche, è quasi spontaneo pensare subito a statue in marmo bianco, pure, eteree, bellissime: un’immagine che ha condizionato tutta l’estetica neoclassica e che di conseguenza ha fatto sì che i monumenti più belli dell’epoca venissero realizzati in marmo bianco. Un condizionamento che, peraltro, continua anche al giorno d’oggi, visto che anche noi contemporanei riteniamo molto più conforme alla nostra sensibilità lasciare bianca una statua in marmo, evitando dunque di colorarla.

Così, nel Settecento, la città di Carrara diventa un centro importante perché la monumentalità in marmo conosce una eccezionale diffusione in tutto il mondo. Le cave sono attive come mai prima di allora, e gli artisti prendono a frequentarle con una certa intensità (si pensi per esempio ad Antonio Canova, autore di molti dei monumenti celebrativi più importanti del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento). In epoca neoclassica fiorisce anche quella scuola locale che Carrara, nel corso della sua storia, fino ad allora non aveva mai avuto (uno dei più interessanti prodotti di tale scuola è il monumento a Benjamin Franklin di Filadelfia, realizzato da uno scultore carrarese, Francesco Lazzerini), dal momento che i primi scultori carraresi importanti, attivi nel Seicento (Pietro Tacca, Giuliano Finelli, Andrea Bolgi, Domenico Guidi e tanti altri) avrebbero lavorato tutti lontano Carrara. Il primo artista ad aprire una bottega di una certa importanza in città sarebbe stato Giovanni Baratta, nel 1725: è un evento importante, perché Baratta riesce a dar vita a una tradizione di lavorazione artistica del marmo nello stesso luogo in cui il marmo veniva estratto e sbozzato. In seguito, la nascita dell’Accademia di Belle Arti nel 1769 e la continua richiesta di marmi cominciata nella seconda metà del secolo avrebbero contribuito alla fioritura di una scuola locale molto impegnata soprattutto nell’Ottocento, con sculture che uscivano dalle botteghe degli scultori di Carrara e partivano per tutto il mondo.

Altro periodo di intenso uso del marmo di Carrara nella monumentalità pubblica è il Ventennio fascista: il più famoso monumento in marmo è probabilmente l’obelisco del Foro Italico, il complesso sportivo interamente progettato dall’architetto carrarese Enrico Del Debbio, che lo avrebbe tenuto occupato dal 1927 al 1932. Il Foro Italico nasce in relazione al culto, tipicamente fascista, per il vigore e la prestanza fisica, in conseguenza del quale lo sport viene considerato un momento molto importante della vita del fascista. Il Foro Italico doveva ispirarsi alle architetture della Roma imperiale: ecco perché la scelta dell’obelisco che, per quanto forma celebrativa originaria dell’Egitto, avrebbe conosciuto una vasta diffusione a Roma. Il blocco da cui viene scolpito l’obelisco del Foro Italico sarebbe passato alla storia come il “Monolite”, il più grande blocco che sia mai stato cavato a Carrara in tutti i suoi secoli di storia (era un blocco da 300 tonnellate), ed è interessante rilevare, peraltro, che tutte le operazioni necessarie alla sua estrazione e al suo trasporto sarebbero divenute funzionali alla propaganda del regime, tant’è che in città ci fu anche chi avrebbe commentato con certa ironia l’evento: leggenda vuole che un certo Gregorio Vanelli, un personaggio della Carrara del tempo, avrebbe definito l’operazione “la più grande segata del secolo”, con un doppio senso ben comprensibile ai locali (“segata” inteso come atto del segare il marmo, ma nel dialetto carrarese è l’equivalente dell’italiano “cazzata”).

Colonna della Giustizia (colonna del III secolo d.C., statua di Francesco e Romolo del Tadda del 1581; granito e porfido rosso; Firenze, piazza Santa Trinita)
Colonna della Giustizia (colonna del III secolo d.C., statua di Francesco e Romolo del Tadda del 1581; granito e porfido rosso; Firenze, piazza Santa Trinita)
Giovanni Bandini (statua di Ferdinando I) e Pietro Tacca (Mori), Monumento dei Quattro Mori (1595-1626; marmo e bronzo; Livorno, piazza Micheli). Foto di Giovanni Dall’Orto
Giovanni Bandini (statua di Ferdinando I) e Pietro Tacca (Mori), Monumento dei Quattro Mori (1595-1626; marmo e bronzo; Livorno, piazza Micheli). Foto di Giovanni Dall’Orto
Antonio Canova, Napoleone come Marte Paficitatore (1803-1806; marmo di Carrara, altezza 340 cm; Londra, Apsley House, Wellington Collection). Foto di Jörg Bittner Unna
Antonio Canova, Napoleone come Marte Paficitatore (1803-1806; marmo di Carrara, altezza 340 cm; Londra, Apsley House, Wellington Collection). Foto di Jörg Bittner Unna
Francesco Lazzarini, Monumento a Benjamin Franklin (1789; marmo di Carrara, altezza 248,9 cm; Filadelfia, The Library Company)
Francesco Lazzarini, Monumento a Benjamin Franklin (1789; marmo di Carrara, altezza 248,9 cm; Filadelfia, The Library Company)
Carlo Franzoni, Clio, musa della Storia (1819; marmo di Carrara; Washington, Campidoglio)
Carlo Franzoni, Clio, musa della Storia (1819; marmo di Carrara; Washington, Campidoglio)
Enrico Del Debbio, Obelisco del Foro Italico (1932; marmo di Carrara; Roma, Foro Italico)
Enrico Del Debbio, Obelisco del Foro Italico (1932; marmo di Carrara; Roma, Foro Italico)
Carrara, 1928, trasporto del monolite per l'obelisco del Foro Italico
Carrara, 1928, trasporto del monolite per l’obelisco del Foro Italico
New York, Hall del World Trade Center (1970-2001)
New York, Hall del World Trade Center (1970-2001)
Cyprien Gaillard, Untitled (2010; marmo di Carrara, 19 x 12 x 2,5 cm; Carrara, Museo delle Arti)
Cyprien Gaillard, Untitled (2010; marmo di Carrara, 19 x 12 x 2,5 cm; Carrara, Museo delle Arti)

Oggi, la formula del monumento celebrativo come quelli visti sinora non è più in uso, dal momento che la società odierna ha trovato altri modi per eternare e celebrare la memoria dei personaggi di rilievo e dei potenti, e una di queste modalità è la costruzione di edifici importanti, poiché le preferenze oggi si sono spostate dalla scultura all’architettura. In sostanza, se un tempo era la scultura a incarnare tutti i desideri di continuità e le ambizioni all’eternità coltivate dall’essere umano, nel mondo contemporaneo è invece l’architettura a farsi carico di queste aspirazioni, e sono i grandi edifici e i grandi complessi architettonici a essere diventati probabilmente i simboli più evidenti della contemporaneità. Ci sono poi altre forme di monumentalità: per esempio certi film che di fatto celebrano determinati personaggi, più che ricostruirne le vicende in senso critico, sono diventati una forma di monumento contemporaneo che arriva al pubblico in modo forse anche più semplice e diretto di quanto non farebbe una statua innalzata su di una piazza.

L’impiego del marmo comunque continua ancor oggi, dal momento che è diventato uno dei materiali impiegati nelle decorazioni degli ambienti degli edifici contemporanei, ed è ancora molto ricercato anche per gli edifici più importanti, realizzati dai grandi architetti che molto spesso impiegano il marmo per gli apparati decorativi dei loro edifici. Per esempio, era realizzato in marmo di Carrara l’ingresso delle torri gemelle di New York. Uno dei frammenti di quella hall, peraltro, è diventato un’opera d’arte di un artista francese contemporaneo, Cyprien Gaillard, che sostiene di averlo ricevuto in dono dall’ingegnere che ha guidato lo smaltimento dei detriti delle torri gemelle. Durante il recente dibattito attorno ai monumenti, si è a lungo discusso di come i monumenti cambino significato nel corso dei secoli se non degli anni, e questo frammento, conservato nelle collezioni comunali di Carrara, è un chiaro esempio di come un monumento, parte del quale costruito in marmo di Carrara, abbia cambiato il proprio significato: da materiale che celebra il potere economico del principale centro finanziario del mondo, lo stesso materiale è diventato simbolo della memoria che dura in eterno, simbolo dell’arte che sopravvive alla barbarie, e simbolo anche del ritorno, dal momento che il marmo è tornato a Carrara e oggi lo si può ammirare al Museo delle Arti della città dei marmi.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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