Il nuovo lavoro di Maurizio Faleni risplende nella grande sala del suo studio di Livorno, sotto la luce d’un mattino d’inizio giugno ch’esalta le superfici in alluminio dei suoi Living Works, opere viventi, il più recente capitolo d’una ricerca che, da sempre, s’interroga sulle radici dell’espressione artistica, sulle ragioni del colore, sui modi in cui i colori toccano certe zone del nostro cervello e della nostra psiche, sull’ignoto, sul sovrasensibile. Nella grande sala di Villa Rodocanacchi, dove da anni Faleni ha installato il suo studio, tra le pareti scrostate d’un frammento della Livorno ottocentesca ch’è sopravvissuto in mezzo ai morsi della speculazione edilizia e dell’espansione urbanistica, la luce del sole interpreta, esalta, decanta la poesia dei suoi nuovi lavori. Lavori che, va detto fin da subito, prima o poi ci auspichiamo che escano dallo studio e incontrino un pubblico che ne rilevi la forza, la bellezza, la complessità, l’originalità, l’aderenza a un cammino che Faleni, artista da annoverare tra i più significativi astrattisti italiani contemporanei, ha sempre visto come una forma d’esplorazione e, al contempo, di resistenza.
Se prima il fulcro della ricerca di Faleni era il colore, adesso è la luce. Se prima i lavori di Faleni erano carichi d’una sacralità che si manifestava in una fusione panica all’essere umano e alla natura per mezzo del colore, adesso per mezzo della luce i suoi lavori aprono a una nuova forma d’estasi, a una nuova forma d’evocazione del mistero, della grandezza, di quello ch’esiste oltre il sensibile. Adesso, dice l’artista, non è più la pittura al centro del suo lavoro: siamo noi, al centro del suo lavoro. Non s’avverte però alcuna rottura col lavoro precedente: è, semmai, la naturale conseguenza. L’alluminio, il materiale che domina la produzione di Faleni, la lastra da tipografia, viene trattato con procedimenti chimici che accentuano l’opacità naturale della materia ma al contempo trattengono impressioni di luce e producono bande colorate che animano il lavoro, si rivelano o si nascondono secondo l’angolo dalle quali le si guarda, e allo stesso tempo l’opera si modifica al variare delle condizioni di luce dello spazio che le ospita, al variare della posizione del riguardante, al passaggio di chi altri si trova nella stessa stanza. Ne consegue che i Living Works di Faleni sono opere impossibili da fotografare. Sono opere viventi: sfuggono alla macchina, cambiano aspetto, non intendono farsi imbrigliare. È come se da sole, e senza proferir parola, intendessero dimostrare che non è data facoltà di vederle, guardarle, comprenderle, apprezzarle se non le si osserva dal vivo.
Maurizio Faleni non nasconde che l’impraticabilità d’una cattura col mezzo fotografico rientra, in qualche modo, nelle intenzioni da cui è scaturita questa serie di opere su alluminio. Lo ha scritto in un testo ciclostilato che mi consegna quando vado nel suo studio a vedere i lavori, terminati a maggio di quest’anno. Gesto romantico, quello di consegnare un foglio ciclostilato a chi viene a vedere un tuo nuovo lavoro. Ma Maurizio Faleni è un artista romantico. Anticonvenzionale, determinato, refrattario alle mode, totalmente coinvolto nella sua ricerca. E il testo che mi consegna è una specie di manifesto del suo nuovo lavoro, è l’inaugurazione, per sua stessa ammissione, d’una fase nuova della sua ricerca. “Nell’era della sorveglianza e dell’iperconnessione, i monocromi in alluminio riflettente diventano un atto critico di resistenza. Privati di colore e pittura, questi pezzi non offrono una narrazione visiva, ma invitano lo spettatore a confrontarsi con la propria immagine, restituita solo in modo sfocato, imperfetto. Sono superfici che non assorbono, ma rimandano indietro frammenti di realtà, interrogando la costruzione identitaria e il nostro rapporto con l’ambiente circostante”.
Vien quasi naturale pensare agli specchi di Pistoletto, da cui tuttavia i Living Works di Faleni sono separati da una lontananza siderale. Se gli acciai lucidati a specchio erano un invito a riflettere su se stessi, sulla collettività, sul proprio ruolo nella società e nel mondo, oltre che un dialogo tra l’opera stessa e la realtà concreta che la circonda, tra l’opera e lo spazio, tra se stessi e il mondo, le lastre d’alluminio di Faleni annullano l’immagine riflessa e rimettono in discussione quello che Pistoletto voleva far emergere. Nell’alluminio non c’è un’immagine specchiata. C’è un’ombra, un fantasma, un’impressione. C’è il confine tra l’essere e il non essere. C’è l’impossibilità di vedere con chiarezza quello che ci sta attorno. C’è l’idea di vivere sotto un diluvio d’impulsi, stimoli, immagini che rischiano di confondere la percezione, di far diventare sempre più permeabili le frontiere che separano il vero dal falso, la sostanza dall’apparenza, l’autentico dal non autentico. Faleni dice allora che l’opera può essere intesa anche come una denuncia dell’alienazione collettiva: “l’alluminio”, spiega, “riflette un’immagine ma non la restituisce mai nitidamente, sottolineando come l’umanità sia intrappolata in una condizione di perenne incertezza e instabilità”. Un commento sul vuoto del presente: è così che Faleni chiama i suoi Living Works. “Il riflesso di ciò che siamo non appartiene più a noi, ma è frammentato e distorto da dinamiche di potere che non possiamo controllare”. Non esiste più un collegamento diretto tra noi e la nostra storia, non esiste più un collegamento potente come quello d’uno specchio, non esiste più neppure una separazione netta tra noi e la materia. Sono da leggere forse in questo senso le tante imperfezioni che Faleni decide di non nascondere: graffi, segni, ammaccature, bozzi, sporcizia che rinviano alla casualità, al disordine, al caos, e poi persino la numerazione industriale della lastra, che l’artista ha deciso di lasciare in evidenza perché è parte della storia del prodotto.
Quando s’entra nella grande sala dello studio di Maurizio Faleni allestita coi Living Works che occupano tutte le pareti, s’ha quasi la sensazione di trovarsi in cielo. Non è però un paradiso, non è un cielo metafisico, un cielo trascendente. Il contrario: è il cielo che abbiamo sopra di noi, è il cielo che osserviamo col piglio del fenomenista più che con l’atteggiamento del mistico, è il cielo che guardiamo per trovare altro dietro le nuvole. Nelle bande colorate che solcano le superfici d’alluminio si vede l’arcobaleno. E come è per l’arcobaleno, anche i riflessi sulle superfici d’alluminio cambiano d’intensità a seconda della posizione da cui li guardiamo.
Se prima le opere di Faleni potevano sembrare continuazione e rinnovamento d’una precisa tradizione del colore che vedeva in Rothko e Jenkins i suoi più importanti riferimenti, nei nuovi lavori s’avvertono, per certi versi, l’eco lontana dello spazialismo (anche perché, secondo i riflessi, la superficie dell’alluminio pare quasi estroflettersi), in particolare lo spazialismo di Fontana, soprattutto nell’accezione dell’opera (del taglio, in particolare) come mezzo per tornare alla realtà, al quotidiano che ci avvolge, e l’eco più vicina della pittura di Claudio Olivieri, che intendeva l’arte come strumento per oltrepassare il visibile, per mostrare ciò che non si può percepire, per consentire al riguardante di spingersi di là dai sensi. Olivieri diceva che “è attraverso la pittura che l’invisibile permea il visto della propria promessa”, tuttavia al contempo “la pittura è anche corpo, fisicità, presenza”. E Faleni si colloca, pertanto, come raffinato continuatore d’una linea dell’astrazione italiana che ha sempre inteso indagare questi fenomeni senza però mirare al trascendente, senza aspirare a idee di ascesi: è ricerca di ciò ch’esiste al di là di quello che si vede. Nell’arte di Faleni, il colore, e adesso la luce, sono sempre mezzi che servono per connettere il sensibile col sovrasensibile. Esiste forse una comunanza di vedute: come nella pittura di Olivieri, così nell’alluminio di Faleni la luce non restituisce immagini nitide e definite. Come nella pittura di Olivieri, così nell’alluminio di Faleni siamo illuminati da un bagliore d’infinito che si rivela tramite i sensi. La differenza è che con Faleni l’immagine, per la natura della sua opera, è ancor più sfuggente perché frammentata e parziale, perché apre a una moltiplicazione infinita, perché l’impossibilità di catturare un’immagine stabile apre a un’infinità di variazioni senza offrire conclusioni, perché non esiste una sola opera: ne esistono infinite, dal momento che ogni momento in cui s’osserva l’opera è unico, personale, irripetibile, irriproducibile. Nell’opera dell’artista livornese risuona la voyance di Merleau-Ponty, il vedere che “rende presente ciò che è assente”, il “vedere più di quanto si veda”, l’accesso “a un essere di latenza”, l’invisibile inteso come “il rilievo e la profondità del visibile”.
E per Faleni, la sfocatura vuol essere anche un invito alla consapevolezza. Sfocatura, dice, è “possibilità”. I suoi Living Works, dice, sono anche provocazioni: “osservando il riflesso, lo spettatore è chiamato a interrogarsi sul proprio ruolo in questo sistema”. Non ci sono però verità definite. Non c’è la realtà immota, ferma, parziale che s’osserva dentro uno specchio. C’è una superficie che riflette una realtà sfuggente, intima, sospesa, una realtà nella quale anche noi entriamo, malgrado non ci troviamo più al centro: siamo una sorta di epifenomeno del reale, non ci riconosciamo. Ci viene accordata, tutt’al più, la facoltà di ritrovarci, ammesso che ci si riesca. I Living Works di Maurizio Faleni sono vedere oltre il visibile.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).