La Pietà di Palestrina: la più celebre opera “non di Michelangelo”


La Pietà di Palestrina (Firenze, Galleria dell'Accademia), un tempo ritenuta opera di Michelangelo, è stata oggi eliminata dal catalogo del grande artista toscano.

Era il 1756 quando lo storico prenestino Leonardo Cecconi, nella sua Storia di Palestrina, dava conto di una Pietà che allora si trovava nella chiesa di Santa Rosalia, e per la precisione nella cappella Barberini: era descritta come “una statua rappresentante la Vergine addolorata con Gesù morto nel seno”, ma soprattutto veniva indicata, per la prima volta in assoluto, come un “abbozzo del celebre Buonarroti”. Inizia così la storia della cosiddetta Pietà di Palestrina, una delle opere più discusse del Cinquecento. E il perché di tante discussioni sorte intorno a questa singolare scultura è presto detto: malgrado in molti l’abbiano attribuita a Michelangelo (Caprese, 1475 - Roma, 1564), le fonti coeve tacciono al riguardo. Non esistono documenti dell’epoca di Michelangelo che la citino, e nessuno dei suoi biografi ne parla: di fatto, se fosse davvero un’opera del grande artista toscano, sarebbe l’unica Pietà di cui nessuno dei suoi contemporanei abbia mai scritto qualcosa.

Attribuito a Michelangelo, Pietà di Palestrina
Attribuito a Michelangelo, Pietà di Palestrina (1547-1559 circa; marmo, altezza 251 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia)

Ovviamente, non abbiamo neppure idea di come l’opera possa essere finita nella chiesa di Santa Rosalia a Palestrina. Sappiamo solo che lì si trovava nel momento in cui Cecconi scriveva la sua Storia, e che lì rimase fino al 1939, quando entrò a far parte della raccolta della Galleria dell’Accademia di Firenze, dove è tuttora conservata (per l’esattezza, si trova nella Galleria dei Prigioni: è l’ultima scultura che vediamo prima del David). L’ingresso avvenne, peraltro, in modo piuttosto “sofferto”: a ricostruire la vicenda nei dettagli è stato, nel 2011, lo storico dell’arte Adriano Amendola. La famiglia Barberini, che stava attraversando un periodo di forte crisi economica, aveva deciso da qualche anno di vendere diversi pezzi della propria collezione per ottenere liquidi: tra le opere destinate a finire sul mercato c’era anche la Pietà di Palestrina. Maria Barberini, principessa di Palestrina, iniziò a prendere accordi con un mercante tedesco, Rudolf Heinemann, per trattare la cessione del gruppo scultoreo, la cui destinazione finale sarebbe stata il Metropolitan Museum di New York. Lo Stato, tuttavia, bloccò l’esportazione: la commissione che valutò il caso era infatti restia a far uscire l’opera dall’Italia. Non solo perché non ci si voleva privare di un’opera di Michelangelo (all’epoca in tanti erano propensi a ritenere l’opera di mano del maestro, sebbene fossero già stati sollevati molti dubbi), ma anche perché la vicenda diventò presto un caso politico. Per l’Italia fascista sarebbe stata una pessima mossa lasciare che l’opera finisse negli Stati Uniti: il rischio consisteva nel fatto che la cessione sarebbe potuta passare per un segno di debolezza in politica estera. Inoltre, acquisirla ed esporla in un museo italiano sarebbe stata un’efficace mossa di propaganda favorevole al regime. Il problema era che lo Stato non aveva soldi da spendere per acquistare l’opera: come ricorda Amendola, Mussolini ebbe dunque l’idea di “invitare gentilmente” l’industriale lombardo (ma genovese d’adozione) Gerolamo Gaslini, all’epoca imputato in un processo per frode fiscale, a corrispondere la somma per l’acquisto della Pietà (quattro milioni e mezzo di lire). Gaslini trattò direttamente con Mussolini e gli consegnò il denaro: il dittatore spacciò l’ingresso dell’opera nelle raccolte statali per un suo dono munifico (in un noto articolo sulla scultura scritto nel 1939 dal grande storico dell’arte Pietro Toesca, che fece parte della succitata commissione, si legge: “Un capolavoro di Michelangelo è donato all’Italia dal DUCE, offerta devota a Lui di un cittadino che vuole tacere anche il proprio nome”) e poté così passare anche come, usando le parole di Amendola, “salvatore del patrimonio artistico espressione dell’identità civile italiana”.

Dettaglio della Pietà di Palestrina
Dettaglio della Pietà di Palestrina


Base con attribuzione a Michelangelo
La base della scultura con l’attribuzione a Michelangelo

Dal 1939, come detto, la Pietà di Palestrina si mostra agli occhi degli incantati visitatori della Galleria dell’Accademia di Firenze, e da allora la domanda che ronza in testa a quanti la osservano è: “ma si tratta davvero di un’opera di Michelangelo?”. Di questo avviso furono, oltre ai più antichi commentatori come il Cecconi di cui si diceva all’inizio, anche alcuni tra i più grandi storici dell’arte della prima metà del Novecento. Prima di analizzare le posizioni della critica cerchiamo però di vedere più da vicino questo enigmatico gruppo scultoreo. L’opera consta di tre figure: la Vergine e Gesù, come da più classica iconografia della Pietà, e un terzo personaggio sulla destra, la cui identità non è facilmente individuabile. Le sue proporzioni appaiono più esili rispetto a quelle dell’energica Madonna che con la sua mano nervosa e mascolina sorregge il muscoloso corpo del figlio: i lineamenti appaiono effeminati, pertanto i primi studiosi che s’occuparono della Pietà di Palestrina pensarono si trattasse della Maddalena, personaggio che, del resto, compare sempre nelle scene del compianto sul Cristo morto (meno frequente è invece l’evenienza di trovarla nelle pietà). Ma non sarebbe da scartare neppure l’ipotesi che vorrebbe identificare nel personaggio a destra la figura di san Giovanni Evangelista, il più giovane degli apostoli di Cristo, che nelle iconografie di compianti, ultime cene e in generale episodi evangelici in cui è presente, si contraddistingue sempre per i suoi tratti efebici e molto delicati.

Osservando l’opera si possono notare molti particolari interessanti. Ciò che forse ci colpisce di più, è il fatto che l’opera si trova in uno stato di abbozzo, come rilevava anche Leonardo Cecconi. Il lato posteriore è completamente liscio (l’opera era da addossarsi a una parete, posizione in cui in effetti si trovava nella chiesa prenestina), ma alcune forature e i rimasugli di certi motivi decorativi lascerebbero supporre che il pezzo di marmo da cui fu ricavata la scultura fosse anticamente un elemento inserito in un complesso più ampio: segno che lo scultore che realizzò la Pietà non lavorò su un marmo che arrivava direttamente da una cava, bensì su quello che con ogni probabilità era il frammento di un architrave appartenente a un’architettura antica (non sarebbe, del resto, un caso raro). Sono molti i particolari che paiono appena abbozzati: la testa della Madonna (l’artista ha scolpito sommariamente i tratti del volto: sul resto del capo sembra che lo scultore abbia lavorato poco o niente), il corpo e la gamba della figura di destra, la parte superiore del braccio della Madonna, il suo corpo, il lato posteriore del braccio destro di Cristo. Malgrado tutto ciò, appare viva la tensione dello sforzo: la gamba della figura di destra si piega per reggere il corpo di Gesù, le cartilagini della mano di Maria si irrigidiscono, la sua gamba destra si protende in avanti per offrire un sostegno aggiuntivo, gli sguardi, pur se appena accennati, comunicano dolore e fatica. Il corpo esanime di Gesù (“atletico” lo definì Toesca), rifinito e levigato soprattutto nella parte superiore del corpo, presenta muscolature e dettagli anatomici ben delineati: realistico l’abbandono degli arti inferiori che strusciano per terra in modo scomposto dato che nessuno li sorregge.

Particolare della Pietà di Palestrina
Particolare della Pietà di Palestrina


I volti di Gesù e Maria
I volti di Gesù e Maria

Un’opera come la Pietà di Palestrina non poté non suscitare la grande curiosità di pressoché tutti i più grandi studiosi della prima metà del XX secolo. Il primo a occuparsene fu il francese Albert Grenier, che nel 1907 scrisse il primo articolo dedicato al gruppo (Une “Pietà” inconnue de Michel-Ange à Palestrina, pubblicato sulla Gazette des beaux-arts): secondo lo studioso transalpino, molti elementi erano da considerarsi rivelatori della mano di Michelangelo (la “violenza del sentire dell’artista”, la “cura tormentata per i dettagli”, il “sentimento profondo dell’insieme”, e anche le sproporzioni, come quelle fortissime tra il torace e le gambe di Cristo, che per Grenier sono volute), benché il totale silenzio delle fonti non deponesse a favore dell’attribuzione. Di ciò, Grenier si avvedeva perfettamente: tuttavia, riteneva che tale silenzio fosse l’unico argomento contro l’assegnazione a Michelangelo della Pietà di Palestrina. Dello stesso avviso si dimostrò il già citato Pietro Toesca: il suo articolo, pur aprendosi con toni encomiastici nei confronti del Duce, ebbe il merito di cercare sostegni per l’attribuzione a Michelangelo all’interno della produzione grafica del grande artista. In particolare, Toesca volle trovare degli “strettissimi” rapporti di parentela con la Pietà in un foglio conservato all’Ashmolean Museum di Oxford (inventario WA1846.88): lo studioso ravvisava nell’abbandono del Cristo e nella forza della figura che lo sostiene i principali motivi di tangenza tra il disegno e la scultura. Anche Valerio Mariani concordò con le tesi di Toesca: lo studioso romano volle anche trovare agganci negli affreschi della Cappella Sistina, e in particolare nel Giudizio universale, dove la figura del risorto in basso a sinistra che viene sollevato da un angelo che lo tiene sotto le ascelle rivelerebbe notevoli somiglianze col gruppo di Palestrina. A favore dell’attribuzione si schierò anche Adolfo Venturi, che sulla Pietà scrisse un articolo in occasione della prima esposizione a Firenze nel 1939.

Michelangelo, Studio per una Deposizione
Michelangelo, Studio per una Deposizione (1555 circa; disegno a sanguigna su carta, 37,5 x 28 cm; Oxford, Ashmolean Museum)


La Pietà di Palestrina a confronto col gruppo del Giudizio Universale
La Pietà di Palestrina a confronto col gruppo del Giudizio Universale

Non furono pochi coloro che, al contrario, espressero perplessità sul nome di Michelangelo o, quanto meno, sulla totale esecuzione da parte del maestro. Fin da subito: già nel 1908 il tedesco Henry Thode aveva avanzato riserve in quanto, pur non avendo visto l’opera dal vivo ma avendola giudicata da fotografie, la riteneva di una qualità non all’altezza di una scultura di Michelangelo (soprattutto la Madonna gli era apparsa troppo goffa per essere stata prodotta dalla mano del maestro). Lo spirito era comunque quello dell’artista toscano: probabile, secondo Thode, che si trattasse di un imitatore. Alla voce di Thode se ne aggiunsero presto altre: per esempio quella di Anny E. Popp, che nel 1926 pubblicò un articolo nel quale giungeva alle stesse conclusioni del suo collega, ovvero che la Pietà di Palestrina fosse opera di un imitatore, oppure quella di Rudolf Wittkower, che pensò al lavoro di un allievo. Un parere che inflisse un duro colpo ai sostenitori dell’attribuzione michelangiolesca giunse nel 1951 da uno dei più grandi esperti di sempre dell’arte di Michelangelo, l’ungherese Charles de Tolnay (che, peraltro, diresse la Casa Buonarroti dal 1965 al 1981), il quale scrisse che l’opera altro non era se non “una mescolanza di motivi di diverse opere di Michelangiolo”, e nello specifico che “il cadavere del Cristo e la Vergine sono copie della prima versione della Pietà Rondanini”, che “la Santa Maddalena è una copia (all’inverso) della Maddalena della Pietà del Duomo”, e che “l’esecuzione, debolissima nei particolari, è probabilmente da attribuirsi a un allievo di Michelangiolo”. E ancora: “non si nota transizione tra il realismo delle parti dettagliate e le parti incompiute”, “il modellato della superficie è assai diverso dagli originali di Michelangiolo”, “il blocco è appiattito, quando per contro sappiamo che Michelangiolo avrebbe scelto un blocco di maggiore spessore”. All’opinione di Tolnay ne seguirono altre che cercarono di fornire una “mediazione”: in questo solco troviamo, per esempio, Franco Russoli e Luigi Grassi, secondo i quali l’idea alla base dell’opera era da attribuire a Michelangelo, ma l’esecuzione a un suo collaboratore. Parallelamente ci fu anche chi tentò di proporre un nome alternativo: per esempio, John Pope-Hennessy, che nel 1964 pensò addirittura a un’opera di un artista del Seicento, Niccolò Menghini, oppure Alessandro Parronchi, che avanzò nel 1968 il nome di Francesco da Sangallo. Uno dei pareri che possiamo considerare definitivi giunse da parte di Giorgio Bonsanti nel 1987: sulla guida della Galleria dell’Accademia, lo studioso scrisse che l’opera è probabilmente “una cosciente imitazione del mondo poetico michelangiolesco, visto però dal suo esterno e che soffre della sua intraducibilità”, aggiungendo che “il gruppo plastico risulta altamente problematico e pertanto del più grande interesse, forse non nella documentazione dell’attività personale di Michelangelo, ma certamente di quella di una stretta cerchia di seguaci che si abbeveravano al suo complesso mondo di pensiero”.

Da allora la fortuna critica della Pietà di Palestrina è precipitata: il nodo sullo scultore che la eseguì non è ancora stato risolto, ma non sembra esserci nemmeno molto interesse per un gruppo scultoreo che ormai è stato eliminato dal catalogo delle opere di Michelangelo e che alla Galleria dell’Accademia viene presentato genericamente come “attribuito a Michelangelo”. Oltre tutto, rimangono ancora da sciogliere i dubbi circa la presenza dell’opera a Palestrina: dal momento che si trovava nella chiesa annessa al Palazzo dei Barberini, è ipotizzabile che la scultura sia giunta nella cittadina ai piedi dei monti Prenestini dopo il 1630, quando il feudo di Palestrina passò dai Colonna ai Barberini. Ma niente vieta di pensare l’opposto, cioè che l’opera appartenesse invece ai Colonna e fosse passata ai Barberini assieme a tutto il palazzo di Palestrina: negli archivi non sono stati trovati documenti che possano trasmettere anche solo qualche indizio. Ovviamente, stante il totale silenzio delle fonti, è anche difficile formulare una datazione: i più sono comunque propensi a posizionarla negli anni Cinquanta del Cinquecento (nelle didascalie di questo articolo s’è utilizzata la datazione della guida ufficiale dell’ultima Galleria dell’Accademia, curata da Franca Falletti). Possiamo però tranquillamente evitare di credere a quel “Michelangiolo” iscritto con granitica convizione sulla base della Pietà.

Bibliografia di riferimento

  • Roberta Iacono (a cura di), La chiesa di Santa Rosalia. La cappella dei principi Barberini a Palestrina, Edizioni Articolo Nove, 2015
  • Franca Falletti, Marcella Anglani, Gabriele Rossi Rognoni, Galleria dell’Accademia. Guida ufficiale, Giunti, 2012 (prima edizione 1999)
  • Adriano Amendola, Michelangelo: un affare di Stato in Maria Giulia Aurigemma, Dal Razionalismo al Rinascimento. Per i quaranta anni di studi di Silvia Danesi Squarzina, Campisano Editore, 2011 (download)
  • Giorgio Bonsanti, La Galleria dell’Accademia, Scala, 1987
  • Eugenio Battisti, Michelangelo scultore, De Agostini, 1981
  • Umberto Baldini, L’opera completa di Michelangelo scultore, Rizzoli, 1973
  • Charles de Tolnay, Michelangelo: The final period, Princeton University Press, 1969
  • Henry Thode, Michelangelo, kritische Untersuchungen über seine Werke, G. Grotesche Verlagsbuchhandlung, 1908


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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