Critica d'arte: la pura visibilità e le origini del formalismo (Konrad Fiedler, Heinrich Wölfflin)


Una delle teorie più influenti della storia della critica d'arte fu quella della pura visibilità, alle origini del formalismo di Heinrich Wölfflin.

Chi ha (o ha avuto) a che fare con la storia della critica d’arte, prima o poi si dev’essere per forza imbattuto nella figura di Konrad Fiedler (Öderan, 1841 - Monaco di Baviera, 1895), uno dei massimi filosofi dell’arte vissuti nel XIX secolo: a lui va il merito di aver elaborato una teoria artistica fondamentale, destinata a influenzare gran parte dei critici e dei connoisseur anche a decenni di distanza. Si tratta della teoria della pura visibilità: il concetto non è dei più semplici e proveremo a parlarne nei toni più chiari possibili. Si può partire da lontano: chi ha studiato Platone si ricorderà senz’altro che, per il filosofo greco, l’arte era mimesi, ovvero imitazione della natura, della realtà. Ecco: la teoria della pura visibilità va in senso totalmente opposto. Per Fiedler (che organizzò sistematicamente il suo pensiero in alcuni trattati, tra i quali va ricordato soprattutto SUlla valutazione delle opere d’arte figurativa, del 1876) l’arte non può configurarsi come imitazione della realtà per il fatto che ognuno di noi percepisce la realtà in modo diverso dagli altri. Bisogna partire da un presupposto fondamentale: esiste una realtà che prescinde dalle opere d’arte, e di conseguenza un artista, quando crea un’opera d’arte, creerà un mondo nuovo, che sarà unicamente frutto delle sue percezioni e del suo gesto. Nel saggio Sulla valutazione, Fiedler si esprime chiaramente: “Ciò che l’arte crea non è un secondo mondo a fianco di un altro che esisterebbe comunque senza di essa, ma attraverso la coscienza artistica essa produce il mondo per la prima volta”. Dunque, per Fiedler, l’opera d’arte “non è espressione di qualcosa che esisterebbe anche senza di essa”, ovvero espressione della realtà, bensì è “la coscienza artistica stessa che in alcuni casi giunge al più alto sviluppo concesso all’individuo”.

Konrad Fiedler
Hans Thoma, Ritratto di Konrad Fiedler (1884; olio su tela, 100 x 75 cm; Berlino, Nationalgalerie)
Ogni artista sviluppa una propria coscienza artistica che si esprime nella attività dell’artista stesso. Un’attività di libera creazione (e non di imitazione, dunque) che l’artista può condurre con il mezzo che ha a sua disposizione per percepire la realtà: la reine Sichtbarkeit, ovvero la pura visibilità. Quest’ultima è da intendersi (banalizzando) come l’attività conoscitiva dell’artista, che parte dal dato percepito, lo rielabora interiormente e lo organizza sotto forma di strutture formali, e permette di giungere all’espressione artistica. Ciò che distingue l’artista dall’uomo normale, dal non-artista, è proprio la capacità di trasformare l’attività conoscitiva in espressione. E l’arte ha inizio laddove i dati che provengono dalla realtà e che vengono rielaborati dalla mente si trasformano in gesto, prendono forma, diventano opera e creazione. Ricaviamo da tutto ciò due considerazioni fondamentali, anche per la critica successiva. La prima consiste nel fatto che l’attività artistica è per Fiedler più importante della stessa opera in quanto è l’attività stessa il contenuto dell’opera: “Nell’opera d’arte l’attività formativa trova la sua conclusione esterna, il contenuto dell’opera d’arte non è altro che lo stesso formare”. La seconda: l’attività artistica che, ricordiamo, è al tempo stesso attività conoscitiva e formativa, non può superare i limiti dell’individuo. L’artista, in altri termini, non riesce mai a esprimere pienamente la propria attività interiore, frutto di complicati processi, nell’opera d’arte: se l’artista ha dunque un’immagine nella mente, non è detto che quell’immagine si concretizzi poi pienamente nell’opera. Abbiamo pertanto un elemento in più per comprendere quanto sia importante, per Fiedler, l’attività dell’artista, piuttosto che il risultato.

Uno dei principali meriti di Fiedler e di coloro che elaborarono le sue teorie (pensiamo soprattutto a due artisti: il pittore Hans von Marées e lo scultore Adolf von Hildebrand) consiste nell’aver spostato, a proposito dell’opera d’arte, l’attenzione dal contenuto verso la forma. È da qui che si origina il metodo noto come formalismo, attraverso il quale una vasta schiera di storici dell’arte iniziò ad approcciarsi alle opere e agli artisti indagando principalmente, appunto, la forma, e assegnando al contenuto un ruolo di importanza inferiore. Alle origini del formalismo nella critica d’arte possiamo porre, oltre alla figura di Alois Riegl (della quale avevamo già parlato: anche lui abbracciò le teorie di Fiedler), quella di uno dei più importanti storici dell’arte di sempre, lo svizzero Heinrich Wölfflin (Winterthur, 1864 - Zurigo, 1945), che prese le mosse proprio dalla concezione fiedleriana dell’arte (ma che ricavò suggestioni anche dai lavori di Hildebrand, con il quale intrattenne per altro un carteggio). Il pensiero di Wölfflin trovò una sistemazione organica in un’opera fondamentale della sua maturità: Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, “Concetti fondamentali della storia dell’arte”, del 1915. Si tratta forse del più importante lavoro dello studioso svizzero ai fini della comprensione del suo metodo.

Heinrich Wölfflin
Heinrich Wölfflin

Riassumendo, Wölfflin intendeva fornire un metodo per analizzare le forme visive dell’attività artistica: in sostanza, ciò che interessa a Wölfflin non è tanto l’oggetto in sé, quanto il modo in cui l’artista lo vede. Ed è bene sottolineare che, per Wölfflin, il modo in cui un artista osserva la realtà è sempre legato a un preciso periodo storico, che fissa dei canoni invalicabili: le opere prodotte in una certa epoca saranno pertanto soggette ai problemi di quell’epoca, e di quell’epoca utilizzeranno forme e linguaggi. Per Wölfflin, insomma, la forma è anche più importante della personalità dell’artista, che non può valicare i limiti (di gusto, di linguaggio) imposti dal proprio tempo, pur potendo comunque apportare novità. Si è parlato perciò di una “storia dell’arte senza nomi” proprio perché la personalità dell’artista diviene secondaria rispetto agli schemi fissati dall’epoca entro cui l’artista si muove. I modi a cui l’artista è legato sono dettati, secondo Wölfflin, da cinque coppie di concetti fondamentali, sui quali deve anche basarsi l’analisi, da parte del critico, dell’opera d’arte, in quanto ne determinano la forma. Le cinque coppie, per lo studioso svizzero, sono queste: lineare-pittorico, superficie-profondità, forma chiusa-forma aperta, molteplicità-unità, chiarezza assoluta-chiarezza relativa.

Vale la pena soffermarsi brevemente su queste cinque polarità per analizzarle un po’ più in profondità. La prima coppia, lineare-pittorico, riguarda strettamente la rappresentazione degli oggetti: lo stile lineare, fondato sul disegno, mira a fornire una rappresentazione il più possibile oggettiva e analitica di un elemento della realtà (e tende pertanto a delimitare finitamente gli oggetti, fornendo quasi la percezione che si possano toccare con mano), mentre lo stile pittorico, che conferisce una maggior importanza alla luce e ai colori, tende a una rappresentazione indefinita, in quanto interessato all’apparenza degli oggetti e al loro rapporto con l’ambiente circostante più che alla loro natura. Già da questa prima antitesi possiamo capire per quale ragione i formalisti ponessero in secondo piano il contenuto: proprio perché la stessa realtà poteva essere rappresentata in modo diverso da un artista dallo stile caratterizzato da forme lineari, e da un artista dotato di uno stile pittorico. Andando avanti, la contrapposizione tra superficie e profondità riguarda, come possiamo facilmente intuire, l’organizzazione degli elementi nello spazio: da una parte abbiamo un’arte che tende a disporre gli oggetti su piani ordinati, mentre dall’altra c’è un’arte che preferisce una dislocazione libera. Si passa dunque alla polarità forma chiusa-forma aperta: riguarda l’ordine che assumono gli oggetti all’interno della composizione. Se gli elementi di un’opera seguono una forma rigida (per esempio, un poligono geometrico), abbiamo la forma chiusa, e, al contrario, in un’opera d’arte i cui elementi varcano i limiti fisici dell’opera stessa, oppure si dispongono secondo un ordine irregolare e non rigoroso, abbiamo la forma aperta. Nella dicotomia tra molteplicità e unità, abbiamo uno stile in cui i vari elementi dell’opera d’arte, pur facendo parte di un’unica composizione, mantengono la propria indipendenza (molteplicità), contrapposto a uno stile in cui ogni elemento concorre a formare un complesso unitario, in cui gli oggetti non possono essere divisi gli uni dagli altri (unità). Infine, uno stile fondato sulla chiarezza assoluta tende a fornire all’osservatore scene fisse, finite e compiute, mentre lo stile votato alla chiarezza relativa predilige l’incompiutezza, la temporaneità e la transitorietà.

Per meglio comprendere come le cinque categorie si applicano ai dipinti, è necessario far riferimento a due dipinti, che vengono citati dallo stesso Wölfflin nei suoi “Concetti fondamentali della storia dell’arte”, come opere in totale contrapposizione tra loro: l’Ultima cena di Leonardo da Vinci in Santa Maria delle Grazie a Milano, e il dipinto sullo stesso soggetto di Giambattista Tiepolo attualmente conservato al Louvre. Per lo storico dell’arte svizzero, Leonardo rappresentava il più alto esempio dello stile classico sviluppatosi nel Rinascimento: troviamo, dunque, nella celebre pittura murale di Leonardo, i principi della linearità, della rappresentazione in superficie, della forma chiusa, della molteplicità e della chiarezza assoluta. L’Ultima cena di Tiepolo si colloca invece sull’altro fronte. Possiamo usare le parole dello stesso Wölfflin: "Benché non si possa paragonare con l’opera di Leonardo, l’Ultima cena di Tiepolo rappresenta il suo assoluto opposto [...]. Cristo non può essere separato dal gruppo di discepoli, posti in obliquo di fronte a lui, con i quali si relaziona e che, attraverso la loro massa e la coincidenza di lunghe ombre e di luce forte, ottengono visivamente il maggior risalto. Che ci piaccia o no, tutto fa sì che il nostro occhio sia guidato verso questo punto, e oltre alla tensione in profondità tra il gruppo in primo piano e la figura centrale dietro, gli elementi della superficie passano in secondo piano. È un qualcosa di totalmente diverso rispetto a ciò che accadeva con la figura, isolata, di Giuda negli artisti primitivi, in cui appariva come un’appendice patetica, incapace di guidare l’occhio in avanti". Tiepolo, che viene citato nel capitolo dedicato al contrasto tra superficie e profondità, è un chiaro pittore della profondità e dell’unità (a cui Wölfflin accenna nel passaggio in cui ci rende edotti del fatto che il Cristo non può essere separato dal resto della scena), un rappresentante dello stile pittorico, della forma aperta e della chiarezza relativa. Dati tali presupposti, si può facilmente intuire come il metodo di Wölfflin sia essenzialmente comparativo: dovendo procedere per analisi fondate su categorie in contrapposizione, ed essendo l’individualità dell’artista secondaria per lo storico dell’arte svizzero, ne consegue che, secondo il suo modo di vedere, lo studio della singola opera d’arte non ha molto senso. Anche perché non esisterebbero artisti capaci di incarnare appieno le specifiche di una singola categoria: non ci saranno dunque artisti puramente lineari, bensì artisti più lineari di altri. E da tali differenze dovrebbe dunque risaltare anche la personalità del singolo artista.

Leonardo da Vinci, Ultima cena
Leonardo da Vinci, Ultima cena (1494-1498; pittura murale, 460 x 880 cm; Milano, Santa Maria delle Grazie)

Giambattista Tiepolo, Ultima cena
Giambattista Tiepolo, Ultima cena (1745-1747 circa; olio su tela, 81 x 90 cm; Parigi, Louvre)

Il formalismo di Wölfflin sarebbe stato poi criticato da altri storici dell’arte, che mossero allo studioso svizzero diverse accuse: dalla sottovalutazione del contenuto rispetto alla forma (possiamo dire che, per Wölfflin, è la forma che spiega l’opera, mentre per gli studiosi che criticarono il suo approccio, a cominciare da Erwin Panofsky, è vero l’esatto contrario, ovvero sarebbe il contenuto che determina la forma), passando per la scarsa importanza attribuita da Wölfflin alla personalità del singolo artista e al contesto storico, fino ad arrivare all’eccessiva rigidità del suo schema.

Tuttavia, certo è che il contributo di Wölfflin è stato fondamentale per diversi aspetti. Basterebbe solo pensare a quanto sia stato utile per meglio comprendere il passaggio dall’arte rinascimentale all’arte barocca: proprio alla contrapposizione tra Rinascimento e Barocco, Wölfflin dedicò gran parte dei suoi studi. Uno dei suoi principali scritti sul tema, Renaissance und Barock, “Rinascimento e Barocco”, fu pubblicato nel 1888, quando Heinrich Wölfflin aveva appena ventiquattro anni. Ma non solo: gli studi di Wölfflin sul Barocco sono di grande importanza anche perché si ritiene che grazie a loro l’arte barocca sia stata rivalutata e che la dignità del Barocco sia stata riconosciuta pari a quella dell’arte rinascimentale. Wölfflin, del resto, era stato molto chiaro. Nell’introduzione dei suoi “Concetti fondamentali”, così scriveva: “quando il Barocco si allontana dagli ideali di Raffaello e Dürer, non si tratta di una differenza qualitativa. Si tratta semplicemente di un modo diverso di vedere il mondo”.

Bibliografia di riferimento

  • Raffaele Simongini, Estetica dell’immagine. Gli stili come forme della visione e della rappresentazione, libreriauniversitaria.it, 2010
  • Maria Rosaria De Rosa, Estetica e critica d’arte in Konrad Fiedler, Aesthetica, 2006
  • Jurgis Baltrušaitis, Maddalena Mazzocut, I percorsi delle forme: i testi e le teorie, Bruno Mondadori, 1997
  • Norman Bryson, Michael Ann Holly, Keith Moxey (a cura di), Visual Culture: Images and Interpretations, Wesleyan University Press, 1994
  • Francesco Starace (a cura di), Panofsky, von Simson, Woelfflin: studi di teoria e critica dell’architettura, Fratelli Fiorentino, 1982
  • Roberto Salvini, La Critica d’arte della pura visibilità e del formalismo, Garzanti, 1977
  • Heinrich Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, Bruckmann, 1915


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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