Come fece l'Italia a riottenere le opere requisite da Napoleone? Ecco la vera storia


Dopo la sconfitta di Napoleone, nel 1815, molte opere d’arte requisite durante le spoliazioni napoleoniche tornarono in Italia. Non fu però un processo semplice. Tutta la storia delle restituzioni.

Il 18 giugno del 1815, Napoleone veniva sconfitto dal duca di Wellington al termine di un feroce scontro che oppose la Francia alla Settima coalizione. Nella storia, la battaglia di Waterloo è considerata uno degli eventi spartiacque tra diverse epoche: terminava l’età napoleonica, cominciava l’epoca della Restaurazione. Per la storia dell’arte, la fine dell’età di Napoleone significò il ritorno ai loro paesi d’origine di molte opere d’arte che erano state requisite dalle armate francesi all’epoca dell’occupazione. Di restituzioni si cominciò a parlare fin dalle settimane che seguirono la prima abdicazione di Napoleone del 6 aprile 1814: anche se il Trattato di Parigi, firmato il 30 maggio del 1814 tra la Francia sconfitta e gli Stati membri della Sesta coalizione, non prevedeva il rientro delle opere frutto delle spoliazioni napoleoniche, la possibilità era stata comunque presa in considerazione dal re di Francia, Luigi XVIII, che decise di restituire opere che non erano state esposte nei musei francesi, eccezion fatta per la collezione del duca di Brunswick, al quale, dopo la guerra della terza coalizione, venne sottratta un’ottantina di opere. Luigi XVIII gliele restituì quasi tutte a titolo di ringraziamento, per averlo accolto ad Hannover durante il suo esilio.

In sostanza, le restituzioni erano già cominciate, seppur molto timidamente: servì però attendere la fine del Congresso di Vienna, terminato il 9 giugno 1815, perché la materia diventasse oggetto di dibattito e contese, anche se alla fine non venne definito un adeguato quadro giuridico per disciplinare il tema dei rimpatri delle opere. Il tema era tuttavia già delicato all’epoca, e sulle restituzioni nacque comunque un’accesa discussione: anche tra i vincitori si contava chi era scettico sull’opportunità di far tornare le opere dal Louvre ai paesi d’origine. Uno degli argomenti era la scarsa propensione a distruggere quella che era diventata una delle più spettacolari collezioni d’arte del mondo: addirittura, pare che i commissarî tedeschi incaricati dei rientri in patria delle loro opere si fossero dimostrati a disagio dinnanzi all’idea di devastare quel grande progetto di museo universale che i francesi avevano sognato. Ci fu poi chi propose di lasciare agli originarî proprietarî la facoltà di decidere se richiedere le opere o se venderle ai francesi a un prezzo equo, ci fu chi propose di scambiare le opere sequestrate da Napoleone con opere francesi, chi oppose argomenti di carattere legale e giuridico. Dall’altra parte, invece, c’erano anche degli Stati che, ancor prima della fine della guerra che avrebbe sancito la fine definitiva di Napoleone, avevano inoltrato formale richiesta di restituzione, oppure avevano pubblicato inventarî di oggetti requisiti dai francesi. Lo stesso Luigi XVIII si dimostrò però poco accondiscendente alle richieste, e la posizione iniziale della nuova amministrazione borbonica della Francia fu quella di non restituire le opere in quanto furono ritenute, a seguito delle guerre di conquista di Napoleone, proprietà francese (“La gloria dell’esercito francese”, disse Luigi XVIII in un discorso pronunciato al Parlamento il 4 giugno del 1814, “non è stata macchiata; i monumenti del suo valore rimangono, e i capolavori delle arti ci appartengono da questo momento con un diritto più forte del diritto di guerra”): una posizione che fu addirittura supportata dal Regno Unito, almeno inizialmente, e dalla Russia. Sia il Regno Unito sia la Russia (che sarebbe rimasta poi la sola ad appoggiare la posizione francese), non avevano però subito spoliazioni: in più, la posizione russa non era totalmente disinteressata, poiché la Russia aveva acquistato o ricevuto in dono opere che i francesi avevano requisito in Italia. Il più famoso di questi pezzi è probabilmente il Cammeo Gonzaga che venne spedito a Parigi dopo l’occupazione francese di Roma, e poi donato da Giuseppina Bonaparte allo zar Alessandro I.

Hubert Robert, Progetto per la trasformazione della Grande Galerie del Louvre (1796; olio su tela, 115 x 145 cm; Parigi, Louvre)
Hubert Robert, Progetto per la trasformazione della Grande Galerie del Louvre (1796; olio su tela, 115 x 145 cm; Parigi, Louvre)
Antonio Canova e bottega, Ritratto di Napoleone Bonaparte (1803-1822?; marmo, altezza 76 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Antonio Canova e bottega, Ritratto di Napoleone Bonaparte (1803-1822?; marmo, altezza 76 cm; San Pietroburgo, Ermitage)
Thomas Lawrence, Ritratto del duca di Wellington (1815-1816; olio su tela, 91,5 x 71 cm; Londra, Apsley House, Wellington Museum)
Thomas Lawrence, Ritratto del duca di Wellington (1815-1816; olio su tela, 91,5 x 71 cm; Londra, Apsley House, Wellington Museum)

Il quadro cambiò rapidamente dopo la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo: se prima del ritorno dell’ex imperatore dei francesi le potenze europee si erano dimostrate più concilianti con la Francia, dopo i Cento Giorni e Waterloo l’atteggiamento mutò in maniera radicale. Il Trattato di Parigi aveva diviso la Francia in diverse zone d’occupazione gestite dalle potenze alleate (l’occupazione durò dal giugno 1815 al novembre 1818), e dopo il ritorno e la definitiva sconfitta di Napoleone cominciò a prevalere un senso di rivalsa tra le potenze europee: addirittura, lo studioso Henry de Chennevières, nel 1889, si spinse a dire che “senza l’epopea dei Cento Giorni, vissuta come un sanguinoso tradimento […], il Louvre avrebbe preservato le sue immense conquiste”. Luigi XVIII decise dunque di accettare le richieste di restituzione anche perché la Francia avrebbe continuato a subire per qualche tempo la costante minaccia militare degli eserciti occupanti: basti ricordare che a Parigi (che sulla base della suddivisione del trattato era occupata dall’esercito della Prussia, entrato nella capitale francese l’8 luglio), una compagnia di granatieri prussiani occupò il Louvre su ordine del capo di stato maggiore Friedrich von Ribbentropp, perché il direttore del museo, Dominique Vivant Denon, che aveva svolto l’incarico di commissario dell’esercito napoleonico durante le spoliazioni, si era rifiutato di indicare agli occupanti i luoghi in cui erano custodite le opere che Napoleone aveva requisito in Prussia. Vivant Denon, peraltro, per un breve periodo fu anche tenuto in stato d’arresto dai prussiani.

Se dunque durante il Congresso di Vienna non si discusse in maniera approfondita di restituzioni, poiché non era questa la priorità per le potenze europee, dopo la fine dei lavori la questione diventò sempre più urgente, tanto che venne ampiamente discussa durante la conferenza ministeriale che si tenne a Parigi nell’estate del 1815, dal 12 luglio al 21 settembre. A prevalere fu la mutata posizione britannica: se infatti, come detto, prima di Waterloo il Regno Unito non si era dimostrato favorevole alle restituzioni, dopo la battaglia finale i britannici posero enfasi sui legami tra un bene e il proprio paese d’origine in virtù del suo legame culturale. Questa posizione, di fatto una importante novità in fatto di politiche culturali poiché mai prima d’allora l’esistenza d’un vincolo culturale tra un’opera e il suo paese d’origine era stata esplicitamente riconosciuta in sede diplomatica, veniva enunciata in una lettera che Lord Castlereagh, ministro degli esteri britannico, inviava al primo ministro Robert Banks Jenkinson. Nella lettera, Lord Castlereagh scriveva che “soltanto il principio della restituzione può riconciliare la politica con la giustizia”. Questa posizione sarebbe stata poi fissata nero su bianco in sede ufficiale da una lunga nota che lo stesso Lord Castlereagh inviava agli alleati in data 11 settembre 1815: “in base a quale principio”, si domandavano i delegati inglesi, “privare la Francia delle sue recenti acquisizioni territoriali e preservare le spoliazioni appartenenti a quei territorî che tutti i conquistatori moderni hanno invariabilmente rispettato in quanto inseparabili dal paese a cui appartenevano?”. Alla fine della conferenza, tra le potenze vincitrici il principio della restituzione delle opere aveva prevalso su quello dell’integrità delle collezioni francesi formatesi a seguito delle spoliazioni. Da parte francese, le restituzioni furono accettate, seppur con estrema riluttanza e sempre sotto la minaccia dell’uso della forza da parte delle potenze occupanti, anche sulla base di un calcolo politico: il ministro degli esteri Talleyrand ritenne infatti che accondiscendere alle richieste di rimpatrio degli oggetti sequestrati da Napoleone fosse un modo per normalizzare le relazioni diplomatiche tra la Francia e le altre potenze europee.

Ad ogni modo, il processo di restituzione non andò avanti incontrastato. Da una parte, Vivant Denon e altre personalità della cultura protestarono per la distruzione di una raccolta formata con l’intento di far diventare Parigi la capitale culturale del mondo, mentre dall’altra chi era contrario alle restituzioni opponeva ragioni giuridiche, sostenendo l’argomento secondo il quale le opere erano giunte in Francia a seguito di accordi con i paesi che le armate napoleoniche avevano occupato, oppure a causa dello status giuridico, riconosciuto anche a livello internazionale, dei paesi occupati, per esempio il Belgio, che era diventato parte integrante della Francia, ragion per cui si sosteneva che i francesi avessero potuto disporre delle opere in terra belga come meglio credessero (per le ragioni giuridiche e culturali delle spoliazioni, confronta anche l’articolo dedicato). Le proteste però non furono sufficienti a fermare il flusso di opere d’arte che, a partire dal luglio del 1815, cominciarono a tornare verso i paesi d’origine. Le prime restituzioni furono quelle verso gli Stati tedeschi, verso l’Austria, verso la Spagna, verso gli attuali Belgio e Paesi Bassi e verso i territorî italiani che il Congresso di Vienna aveva assegnato agli austriaci (Venezia e Milano) o a famiglie legate all’Austria (la Toscana, Parma e Piacenza, Modena). In autunno cominciarono anche le restituzioni al resto del territorio italiano.

E., La balance politique, caricatura del Congresso di Vienna (maggio 1815; stampa, 315 x 435 mm; Oxford, Biblioteca Bodleiana)
E., La balance politique, caricatura del Congresso di Vienna (maggio 1815; stampa, 315 x 435 mm; Oxford, Biblioteca Bodleiana)
Thomas Lawrence, Ritratto di Lord Castlereagh (1809-1810; olio su tela, 74,3 x 61,6 cm; Londra, National Portrait Gallery)
Thomas Lawrence, Ritratto di Lord Castlereagh (1809-1810; olio su tela, 74,3 x 61,6 cm; Londra, National Portrait Gallery)
Antonio d'Este, Busto di Antonio Canova (1832; marmo, 50,5 × 23 × 21 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, inv. 15935)
Antonio d’Este, Busto di Antonio Canova (1832; marmo, 50,5 × 23 × 21 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, inv. 15935)

Le prime restituzioni che seguirono la seconda abdicazione di Napoleone furono quelle prussiane, e avvennero, come anticipato, con l’uso della forza: la Prussia infatti non attese la fine delle discussioni tra le potenze europee, e a metà del luglio 1815 il contingente che aveva occupato il Louvre aveva già potuto radunare tutte le opere prussiane presenti a Parigi e prepararle per il ritorno a Berlino. E lo stesso dovette fare lo statolder Guglielmo I, che vedendo cadere nel vuoto le richieste di restituzione per le opere fiamminghe e olandesi, sollecitò un intervento con la forza del duca di Wellington, che ricopriva l’incarico di comandante dell’Armata dei Paesi Bassi: fu così che i dipinti fiamminghi e olandesi requisiti dai francesi poterono tornare nelle loro terre, coi commissarî belgi che lavoravano sotto la protezione delle truppe del duca di Wellington. In agosto anche i commissarî degli altri paesi erano arrivati nella capitale francese per chiedere la restituzione delle loro opere. Tuttavia, ha scritto lo studioso Paul Wescher, “la maggior difficoltà che i commissarî stranieri incontravano nel far valere i propri diritti nasceva dal fatto che né i ministri degli esteri, che si incontravano quotidianamente a Parigi, né i monarchi avevano preso misure che riguardassero tutti i paesi interessati e le loro opere d’arte”. Questo vuoto normativo, che non sarebbe mai stato colmato, consentì a Vivant Denon di fare spesso opposizione alle richieste di restituzione, con argomenti “spesso così tirati per i capelli da sfiorare il ridicolo”, ha scritto Wescher. Un caso piuttosto tipico degli argomenti che i francesi opponevano alle restituzioni è quello della Lapidazione di santo Stefano di Giulio Romano, che i francesi requisirono a Genova: il commissario del re di Sardegna lo pretese indietro (e lo ottenne: oggi lo si ammira nella chiesa di Santo Stefano a Genova), ma Vivant Denon, che peraltro lo aveva personalmente scelto nel 1811 durante il culmine delle spoliazioni, si rifiutò dichiarandolo un omaggio che Genova aveva fatto a Napoleone. Il quadro, insomma, era molto vario, la Francia faceva spesso ostruzionismo, e non esisteva neppure una clausola nei trattati che imponesse ai francesi la restituzione delle opere: l’unico riferimento era la nota di Lord Castlereagh, che sarebbe stata poi acclusa ai documenti relativi al Secondo Trattato di Parigi, siglato il 20 novembre 1815 per confermare il Primo Trattato di Parigi, l’Atto Finale del Congresso di Vienna, introdurre nuove modifiche territoriali e stabilire l’ammontare delle riparazioni dovute dalla Francia. Dunque, senza un quadro giuridico chiaro, la Francia fu di fatto costretta a restituire le opere che Napoleone aveva requisito, un po’ per calcolo diplomatico, un po’ per non subire conseguenze peggiori (tant’è che lo storico dell’arte Pierre-Yves Kairis ha parlato di enlèvements per riferirsi alla restituzioni verso il Belgio, ovvero di “sequestri”, aggiungendo che “spingendo al limite il ragionamento giuridico, si potrebbe ritenere che sia la Francia ad avere il diritto di rivendicare i dipinti strappati dal Louvre con la forza delle baionette”).

Come si comportarono in questo frangente gli Stati italiani? Per primi, si mossero gli Stati in orbita austriaca, come il Lombardo-Veneto o il Ducato di Modena: “Dalla fine del mese di agosto del 1815, per circa due mesi”, ha scritto lo studioso Valter Curzi, “i commissarî italiani, liste alla mano, si occuparono di rintracciare le opere e di adunarle nella caserma austriaca della Pépinière da dove, incassate e imballate, partirono per Milano tra il 23 e il 25 ottobre in una lunga e nobile processione, composta da quarantuno carri trainati da duecento cavalli, giunta a destinazione nei primi giorni di dicembre. Altri invii seguirono nei mesi successivi via terra e via mare; l’intera operazione poteva dirsi conclusa con il rientro a Napoli nel 1817 delle opere trafugate da Gioacchino Murat in fuga dalla capitale partenopea due anni prima”. Per gli Stati italiani in orbita austriaca (Lombardo-Veneto, Parma, Modena e Toscana), l’incaricato delle restituzioni era il pittore Joseph Rosa, direttore dei musei viennesi, aiutato dal comandante in capo dell’esercito austriaco, il principe Karl Philipp von Schwarzenberg. Furono proprio le truppe di Schwarzenberg a tirar giù dall’Arco di Trionfo, nonostante l’aperta ostilità dei parigini, i cavalli di San Marco che sarebbero poi ripartiti per Venezia: per rendere possibili le operazioni senza provocare scontri, i soldati austriaci dovettero lavorare di notte, e bloccando le vie d’accesso all’Arco di Trionfo. Per il Regno di Sardegna giunse a Parigi il ministro plenipotenziario Luigi Costa. Lo Stato Pontificio inviò come commissario per la restituzione il grande scultore Antonio Canova, incaricato di riportare a Roma i tesori dei Musei Vaticani. Non si trattava di un compito facile, perché lo Stato Pontificio aveva consegnato alla Francia le sue opere sulla base degli accordi dell’Armistizio di Bologna del 1796 e del Trattato di Tolentino del 1797. Lo stesso Canova, arrivato a Parigi, lamentò l’esistenza di ostacoli a sua detta quasi insormontabili: oltre alle difficoltà giuridiche e a quelle pratiche (non era agevole infatti rintracciare le opere sparse su tutto il territorio francese), alcuni diplomatici stranieri preferivano infatti che le opere delle collezioni papali rimanessero a Parigi, senza contare poi l’opposizione di Vivant Denon. La missione riuscì perché Canova poté contare sull’appoggio del cancelliere austriaco Klemens von Metternich, che fece pressioni sui francesi affinché assecondassero le richieste pontificie, oltre che sul sostegno del Regno Unito (che Canova ottenne sfruttando i suoi canali diplomatici, resi possibili dai suoi clienti), e sulla protezione delle armi inglesi e austriache: anche nel suo caso le restituzioni dovettero procedere praticamente manu militari. Alla fine Canova riuscì a riportare indietro quasi tutte le opere romane, tralasciando deliberatamente di chiedere 23 dipinti che erano conservati in alcuni musei di provincia, come gesto di dimostrazione della propria buona volontà. Rimasero inoltre in Francia le opere difficili da trasportare, o quelle considerate di minor pregio (disegni e medaglie, per esempio). Alcuni dipinti romani, come quelli che appartennero alla collezione Braschi, tuttora visibili al Louvre, rimasero invece in Francia perché la famiglia ottenne dai francesi una compensazione economica in cambio dei quadri, ragion per cui le richieste di restituzione da parte della delegazione pontificia (a insistere in tal senso pare fosse stato l’allora vicedirettore dei Musei Vaticani, Alessandro d’Este) in questo caso non ebbero seguito.

Raffaello, Estasi di santa Cecilia (1518; olio su tavola trasportata su tela, 236 x 149 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Raffaello, Estasi di santa Cecilia (1518; olio su tavola trasportata su tela, 236 x 149 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Guido Reni, Strage degli Innocenti (1611; olio su tela, 268 x 170 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Guido Reni, Strage degli Innocenti (1611; olio su tela, 268 x 170 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Raffaello, Trasfigurazione (1518-1520; tempera grassa su tavola, 410 x 279 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana)
Raffaello, Trasfigurazione (1518-1520; tempera grassa su tavola, 410 x 279 cm; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca Vaticana)
I cavalli di San Marco. Foto: Wikimedia/Morn
I cavalli di San Marco. Foto: Wikimedia/Morn
Parmigianino, Madonna dal collo lungo (1534-1540; olio su tavola, 216,5 x 132,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Parmigianino, Madonna dal collo lungo (1534-1540; olio su tavola, 216,5 x 132,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Correggio, Madonna di San Girolamo o Il Giorno (1526-1528; olio su tavola, 205 x 141 cm; Parma, Complesso della Pilotta, Galleria Nazionale)
Correggio, Madonna di San Girolamo o Il Giorno (1526-1528; olio su tavola, 205 x 141 cm; Parma, Complesso della Pilotta, Galleria Nazionale)

Furono diverse le opere che tornarono in Italia, anche se la restituzione, ha scritto lo studioso David Gilks, fu “ottenuta con la baionetta piuttosto che attraverso lo stato di diritto, dando l’impressione che l’alleanza abusasse dei diritti del più forte”. Ed è dunque grazie a questa azione che combinò diplomazia e uso della forza, che oggi molti capolavori si possono ammirare nei musei italiani, oppure nelle chiese dalle quali furono sottratti. Tra le opere rientrate, molte sono simboli della storia dell’arte italiana. A Roma, tornarono la Trasfigurazione e il Ritratto di Leone X coi cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi di Raffaello, la Resurrezione del Perugino, la Venere Capitolina, l’Apollo del Belvedere. Venezia riottenne, tra le altre opere, l’Assunzione della Vergine di Tiziano e i cavalli di San Marco. A Verona fece rientro la Pala di San Zeno di Andrea Mantegna, che oggi si ammira nella sua chiesa (anche se tre tavole della predella sono rimaste in Francia, e di recente proprio dalla Francia è partita la proposta di restituirle all’Italia). A Bologna è di nuovo possibile ammirare l’Estasi di santa Cecilia di Raffaello e la Strage degli innocenti di Guido Reni. Firenze ebbe indietro la Madonna dal collo lungo del Parmigianino e la Venere de’ Medici. A Parma tornarono, tra le altre, la Madonna della scodella Il Giorno del Correggio, lo Sposalizio della Vergine di Giulio Cesare Procaccini e le Marie al sepolcro di Bartolomeo Schedoni.

L’entità delle restituzioni dipese, ha spiegato Curzi, “dalla capacità diplomatica dei singoli commissarî addetti alle restituzioni e dall’impegno dei governi”. Dunque, per concludere, quante opere sono tornate in Italia dopo le restituzioni del 1815? È possibile fare un calcolo appoggiandosi al catalogo compilato da Marie-Louise Blumer nel 1936 sul Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art, che è basato sul catalogo che venne compilato da Antonio Canova quando venne inviato in Francia. Trattandosi dunque di un documento di duecento anni fa potrebbe essere stato impreciso o incompleto (senza contare che annovera soltanto dipinti e tralascia tutto il resto) ma dà comunque un’idea piuttosto plausibile dell’entità delle requisizioni: secondo questo catalogo, i francesi requisirono in Francia un totale di 506 opere, 249 delle quali vennero restituite nel 1815, 9 sono andate disperse e 248 sono rimaste in Francia: di queste, una cinquantina sono oggi esposte al Louvre, e le altre sono divise tra i depositi del Louvre e diversi altri musei francesi.

Bibliografia essenziale

  • Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce (a cura di), Il Museo Universale. Da Napoleone a Canova, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017), Skira, 2016
  • Nora Gietz, Tracing Paintings in Napoleonic Italy: Archival Records and the Spatial and Contextual Displacement of Artworks in Artl@s Bulletin, 4, no. 2 (2015), art. 6
  • David Gilks, Attitudes to the displacement of cultural property in the wars of the French Revolution and Napoleon in The Historical Journal, Vol. 56, No. 1 (2013), pp. 113-143
  • Yann Potin, Kunstbeute und Archivraub. Einige Überlegungen zur Napoleonischen Konfiszierung von Kulturgütern in Europa in Bénédicte Savoy, Yann Potin (a cuta di), Napoleon und Europa. Traum und Trauma (catalogo della mostra, Bonn, Kunst-und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland, dal 17 dicembre 2010 al 25 aprile 2011), Prestel, 2010
  • Veronica Gabrielli, Patrimoni contesi. Gli Stati italiani e il recupero delle opere d’arte trafugate in Francia. Storia e fonti, Polistampa, 2009
  • Katja Lubina, Contested Cultural Property The Return of Nazi Spoliated Art and Human Remains from Public Collections, tesi di dottorato, Università di Maastricht, 2009
  • Paige S. Goodwin, Mapping the Limits of Repatriable Cultural Heritage: A Case Study of Stolen Flemish Art in French Museums in University of Pennsylvania Law Review, Vol. 157, No. 2 (2008), pp. 673-705
  • Paul Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Einaudi, 1988
  • Dorothy Mackay Quynn, The Art Confiscations of the Napoleonic Wars in The American Historical Review, Vol. 50, No. 3 (1945), pp. 437-460
  • Marie-Louise Blumer, Catalogue des peintures transportées d’Italie en France de 1796 a 1814, Colin, 1937

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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