La Madonna dal collo lungo, il capolavoro incompiuto del Parmigianino


Capolavoro del Parmigianino, la Madonna dal collo lungo, conservata agli Uffizi, è un manifesto del manierismo ma è nota anche per essere un’opera incompiuta, dalla storia piuttosto travagliata. 

Si perde nell’antichità l’origine del soprannome con cui oggi è nota la Madonna dal collo lungo, il capolavoro del Parmigianino (Francesco Mazzola; Parma, 1503 – Casalmaggiore, 1540), oggi conservato agli Uffizi. L’opera è conosciuta così ab antiquo: basterà pensare che già Luigi Lanzi, nella sua Storia pittorica dell’Italia scritta tra il 1792 e il 1809, diceva che secondo alcuni l’opera era eccessiva per le “proporzioni troppo lunghe e nelle stature, e nelle dita, e nel collo”, e che “da questo difetto si chiama comunemente ‘del collo lungo’”. La sua principale e più evidente caratteristica distintiva, l’allungamento delle proporzioni, in passato era visto come un difetto, come un elemento che rompeva gli equilibri, una grazia talmente ricercata e sofisticata da risultare sproporzionata. Eppure, stanno proprio qui l’originalità e la grandezza del Parmigianino: la sua rottura nei confronti delle armonie rinascimentali era voluta, per dimostrare che quell’equilibrio non era l’unico atteggiamento possibile nei riguardi del sacro (e della vita in generale).

Tutto, in questo dipinto, è volutamente esagerato. Il collo della Vergine, straordinariamente lungo, non è l’unica caratteristica che balza con immediatezza all’occhio del riguardante. Le lunghissime dita della sua mano affusolata forse sono ancor più strane. E che dire del Bambino, anche lui troppo lungo e troppo grande per essere un neonato? Sembra quasi, poi, che stia scivolando dal grembo della madre. Ma l’occhio viene inevitabilmente attirato anche dalla nudità d’avorio della gamba dell’angelo sulla sinistra, solida e torreggiante come l’alta colonna di marmo che vediamo sulla destra, e che pare quasi una citazione del Giovanni Battista che compare nella Madonna di san Giorgio del Correggio. E perché poi radunare tanti angeli in uno spazio così stretto e affollato come quello che vediamo sulla sinistra? Se c’è della follia in tutto questo, scriveva un grande storico dell’arte come Ernst Gombrich, allora “in questa follia c’è del metodo”. “Posso ben immaginare”, dice Gombrich, “che alcuni possano trovare la Madonna quasi offensiva per l’affettazione e la raffinatezza con cui viene trattato un oggetto sacro. Non c’è nulla, in questo dipinto, della facilità e della semplicità con cui Raffaello aveva trattato quell’antico tema. [...] Eppure non c’è dubbio che l’artista abbia ottenuto questo effetto né per ignoranza né per indifferenza. […] Il pittore voleva essere non ortodosso. Voleva dimostrare che la soluzione classica dell’armonia perfetta non è l’unica soluzione concepibile; che la semplicità naturale è un modo per raggiungere la bellezza, ma che esistono modi meno diretti per ottenere effetti interessanti per i sofisticati amanti dell’arte. Che ci piaccia o meno la strada che ha intrapreso, dobbiamo ammettere che è stato coerente. In effetti, Parmigianino e tutti gli artisti del suo tempo che cercarono deliberatamente di creare qualcosa di nuovo e inaspettato, anche a scapito della bellezza ‘naturale’ stabilita dai grandi maestri, furono forse i primi artisti ‘moderni’”. Nel dipinto, la Vergine appare sotto una tenda rosa, tirata verso la sinistra del riguardante per mostrare la figura della Vergine, snella, dipinta lungo tutto l’asse verticale della tavola, con i piedi poggiati sopra due cuscini, seduta forse sopra un trono che non vediamo (e togliendoci questo riferimento spaziale, il Parmigianino rompe ulteriormente l’armonia). Sorride, mentre guarda il Bambino che tiene con la mano sinistra, in posizione del tutto precaria, quasi che stia per cadere. I panneggi, trasparenti, lasciano intravedere il suo corpo: vediamo il suo ombelico, il suo capezzolo. A sinistra, ecco invece i sei angeli: uno, di profilo, l’unico con le ali, sta portando un vaso con una croce. Un altro, più indietro, ha fattezze femminili, e ricorda da vicino l’Antea, l’opera del Parmigianino conservata al Museo di Capodimonte di Napoli. Max Dvořák li aveva paragonati a sei efebi. Tutto è leggero, trasparente, delicato, intellettuale, stravagante, ambiguo, vistosamente e orgogliosamente anticlassico, contrario alle leggi della natura. Tutto lascia quasi pensare a “un culto pagano della bellezza”, ha scritto Arnold Hauser.

Parmigianino, Madonna dal collo lungo (1534-1540; olio su tavola, 216,5 x 132,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Parmigianino, Madonna dal collo lungo (1534-1540; olio su tavola, 216,5 x 132,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)

Conosciamo la storia antica di questo capolavoro di modernità: la Madonna dal collo lungo venne commissionata al Parmigianino nel 1534 da una donna che si chiamava Elena Baiardo Tagliaferri, sulla quale non abbiamo molte informazioni. Sappiamo che era sorella del cavalier Francesco Baiardo, l’unico committente noto del Parmigianino in questo periodo della sua carriera, ed era vedova di un certo Francesco Tagliaferri, titolare di una cappella nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma (dettaglio, quest’ultimo, che ci consente d’immaginare che Elena fosse una donna decisamente benestante). Ed era proprio questa la chiesa a cui era destinata l’opera oggi agli Uffizi: un documento del 23 dicembre 1534 include un accordo con un amico del Parmigianino, Damiano de Pleta, al fine di preparare la cappella per accogliere una “anconam fiendam per ipsum dominum Franciscum Mazolum”, ovvero una “pala che sarà realizzata dal signor Francesco Mazzola”. Nel documento viene stabilito anche il termine per l’ultimazione della pala, ovvero la Pentecoste dell’anno seguente, e si fa riferimento a un pagamento di 33 scudi già ricevuti dell’artista in anticipo per le spese (dunque doveva esserci stato un accordo precedente, che però non ci è arrivato): il Parmigianino, in caso d’inadempienza, s’impegnava a restituire la somma già ricevuta a fronte di un’ipoteca sulla sua casa in Borgo delle Assi a Parma. Si trattava di una garanzia oltremodo eccessiva per la somma versata, e si è dunque immaginato che il Parmigianino avesse con la famiglia dei debiti pregressi: andrà ricordato, per esempio, che il cavalier Baiardo, assieme a Damiano de Pleta, aveva svolto il ruolo di fideiussore per l’artista nell’ambito dell’impresa della decorazione di Santa Maria della Steccata, per la quale al Parmigianino erano stati versati in anticipo 200 scudi. Il cavaliere e l’architetto si impegnavano a pagare di tasca loro eventuali mancanze del pittore, e poiché sappiamo che l’inventario di Francesco Baiardo, redatto dopo la sua scomparsa nel 1561, includeva 22 dipinti del Parmigianino su 51 totali, e 495 disegni dell’artista, si può immaginare che alcune proprietà dell’artista dovettero giungere a Baiardo a seguito dei complicati contratti che l’artista aveva firmato.

Era stato Francesco Tagliaferri, nel suo testamento, datato 19 ottobre 1529, a esprimere il desiderio di far eseguire una pala per la sua cappella: Elena, dunque, si attivò per eseguire le volontà del marito. Ci rimangono diversi disegni preparatori che dimostrano come l’artista dovette cambiare più volte idea sulla composizione. Nei fogli più antichi, vediamo una composizione più ampia dell’attuale, simile al giovanile Matrimonio mistico di santa Caterina di Bardi, con la Vergine e il Bambino in trono assieme ai santi Francesco e Girolamo (il primo era il santo eponimo del titolare della cappella, il marito di Elena Baiardo Tagliaferri, mentre il secondo doveva omaggiare forse un fratello di Francesco Tagliaferri). Nelle prime composizioni, il Parmigianino si tenne su schemi piuttosto convenzionali, ma il dettaglio del collo lungo della Vergine, leggermente girato, è già ravvisabile fin dalle prime idee. Alcuni disegni, peraltro, mostrano un avanzato grado di finitezza, tant’è che si è pensato fossero stati eseguiti per essere mostrati alla committenza, ma in realtà “si sa troppo poco”, ha spiegato David Ekserdjian, “sui modi in cui gli artisti presentavano le loro idee ai potenziali o effettivi mecenati, per cui c’è un certo grado d’incertezza sul fatto che questi fogli fossero abitualmente molto rifiniti”, anche se è chiaro che, per un disegno compiuto come quello oggi conservato al British Museum, doveva esserci stato in precedenza “un certo, non specificato numero di tentativi più schematici per stabilire la composizione”. Sono rimasti effettivamente dei disegni, più vicini alla Madonna del collo lungo che vediamo oggi agli Uffizi, e quindi più tardi rispetto al disegno del British, che sono tracciati velocemente, con la penna, e che si possono dunque interpretare come pure idee dell’artista, che servivano unicamente a lui e non dovevano esser presentate alla committenza.

Il Parmigianino cambiò più volte idea, come detto, anche sull’iconografia. Inizialmente il Bambino doveva essere seduto sulle ginocchia della Vergine. Poi l’artista pensò anche a una Madonna del latte (in alcuni disegni si vede la veste di Maria scostata per mostrare il suo seno), e infine arrivò alla soluzione di rappresentare il Bambino sdraiato e addormentato, una prefigurazione della pietà. Quanto agli angeli, all’inizio il Parmigianino ne immaginò uno solo, quello che presenta alla Vergine il grande vaso, tenendolo con la punta delle dita, per poi giungere alla soluzione definitiva che prevede il gruppo che oggi vediamo sulla sinistra, e gli stessi santi Francesco e Girolamo vennero progressivamente ridotti in scala fino a diventare le due minuscole figure (una sola delle quali compiuta, quella di san Girolamo: di san Francesco, nel dipinto, vediamo infatti soltanto un piede) che compaiono nell’angolo in basso a destra. Si tratta, ad ogni modo, di un elemento privo di precedenti: mai infatti prima della Madonna dal collo lungo i santi di una pala d’altare erano stati raffigurati in proporzioni così minute (e in alcuni disegni preparatori vediamo addirittura san Girolamo girato di spalle). La stessa composizione, così fortemente asimmetrica, rappresentava una novità. “Vi si ritrovano”, scriveva Hauser, “il retaggio di bizzarrie del Rosso, le forme più allungate, i corpi più snelli, le gambe più lunghe e le mani più sottili, il più delicato viso di donna e il collo più squisitamente modellato, e l’accostamento di motivi più irrazionali che si possa immaginare, le proporzioni più inconciliabili e la più incoerente figurazione dello spazio. Par che nessun elemento del quadro si accordi con un altro, non una figura si comporti secondo le leggi naturali, non un oggetto adempia la funzione che gli verrebbe assegnata di norma”.

Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; carbonicino, penna, inchiostro marrone, acquerellature grigie e lumeggiature bianche su carta, 182 x 104 mm; Londra, British Museum)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; carbonicino, penna, inchiostro marrone, acquerellature grigie e lumeggiature bianche su carta, 182 x 104 mm; Londra, British Museum)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; sanguigna e lumeggiature bianche su carta, 170 x 110 mm; Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; sanguigna e lumeggiature bianche su carta, 170 x 110 mm; Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; sanguigna e lumeggiature bianche su carta, 200 x 120 mm; Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; sanguigna e lumeggiature bianche su carta, 200 x 120 mm; Parigi, Louvre, Département des Arts graphiques)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; sanguigna su carta, 191 x 144 mm; New York, The Morgan Library and Museum)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; sanguigna su carta, 191 x 144 mm; New York, The Morgan Library and Museum)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; inchiostro e acquerellature marroni, 140 x 185 mm; Oxford, Ashmolean Museum)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; inchiostro e acquerellature marroni, 140 x 185 mm; Oxford, Ashmolean Museum)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; penna e acquerellature marroni, lumeggiature bianche, tracce di carboncino, 190 x 130 mm; Collezione privata)
Parmigianino, Studio per la Madonna dal collo lungo (1535 circa; penna e acquerellature marroni, lumeggiature bianche, tracce di carboncino, 190 x 130 mm; Collezione privata)

Anche per queste ragioni la Madonna dal collo lungo è un dipinto straordinariamente moderno e innovativo. Ed è anche ricco di rimandi simbolici: sarebbe interessante, rileva Ekserdjian, sapere se Elena Baiardo Tagliaferri, o lo stesso Parmigianino, si siano avvalsi dell’aiuto di fra’ Stefano, priore dei serviti della chiesa parmense al tempo, che potrebbe esser stato consultato, anche in virtù del fatto che, sebbene forma e iconografia dell’opera abbiano subito dei cambiamenti in fase d’ideazione, ci sono alcune costanti, per rilevare le quali giunge in soccorso la descrizione che Giorgio Vasari dà dell’opera nelle sue Vite: “Alla chiesa di Santa Maria de’ Servi fece in una tavola la Nostra Donna col Figliuolo in braccio che dorme, e da un lato certi Angeli, uno de’ quali ha in braccio un’urna di cristallo, dentro la quale riluce una croce contemplata dalla Nostra Donna; la quale opera, perché non se ne contentava molto, rimase imperfetta, ma nondimeno è una cosa molto lodata in quella sua maniera piena di grazia e di bellezza”. Un punto su cui Vasari insiste è proprio il vaso con la croce sorretto da uno degli angeli sulla sinistra (anche se in realtà la Vergine non lo sta contemplando, perché sta rivolgendo il suo sguardo verso il Bambino, e anche se non sappiamo se sia di cristallo e stia veramente riflettendo una croce, o se invece sia di altro materiale, e la croce sia dipinta sul contenitore). È questo vaso una delle costanti, dal momento che la croce, anche prima che il Parmigianino introducesse il dettaglio del recipiente, era presente nella composizione (anzi, ce n’erano due: una tenuta da san Francesco e un’altra appoggiata al trono). Secondo l’opinione di Ekserdjian, il vaso, più che di cristallo, è di argento (se ne trova uno simile sugli affreschi della Steccata), e la croce, d’oro, seguendo la curvatura della superficie del contenitore, non lascia dubbi sul fatto che faccia parte del vaso, e non sia riflessa: la croce, oltre a richiamare il destino di Gesù, è anche un omaggio alla committente, dal momento che la sua santa eponima è venerata come la scopritrice della Vera Croce di Cristo, come la vediamo raffigurata, per esempio, negli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Secondo la studiosa Elizabeth Cropper, il vaso potrebbe essere rappresentare un tema di attualità, poiché nel Rinascimento furono pubblicati alcuni trattati che comparavano la bellezza femminile, appunto, ai vasi. Il dipinto stesso sarebbe riflesso della tradizione petrarchesca ch’era ancora viva nei decenni centrali del Cinquecento, e il Parmigianino potrebbe essere stato un conoscitore di questa tradizione, dato che peraltro il padre della committente, Andrea Baiardo, aveva scritto delle poesie petrarchesche, alcune delle quali a tema mariano. Una tradizione che troverebbe il suo precedente biblico nel Cantico dei Cantici.

Il collo della Vergine è stato infatti visto da molti come un riferimento a un inno mariano del XII secolo, Clara chorus dulce pangat voce nunc alleluia, dove c’è un verso che paragona il collo di Maria a una colonna (“Collum tuum ut columna turris et eburnea”), e che deriva ovviamente dal Canto dei cantici (“Il tuo collo è come una torre d’avorio”), nel quale la figura della sposa è letta come allegoria della Vergine. Non sappiamo se l’artista volesse alludere davvero al Cantico dei cantici (probabilmente non dall’inizio): più probabile, sempre secondo Ekserdjian, è l’allusione al tema iconografico della Madonna del latte suggerita dal capezzolo che si vede in trasparenza sotto la veste bianca di Maria. La commistione tra elementi cristiani ed elementi pagani si manifesta in tutta la sua evidenza nella parte destra del dipinto: anche in questo caso l’alta colonna non è da leggersi come elemento isolato, magari con l’enfasi che molta critica ha dedicato a questa singolare presenza (per esempio Sylvie Béguin vi leggeva un rimando alle Meditazioni sulla vita di Cristo dello Pseudo Bonaventura, dove si racconta che Maria avrebbe partorito Gesù appoggiata a una colonna, per non parlare dei tanti che l’hanno interpretata come allusione alla turris eburnea del Cantico dei Cantici). Il Parmigianino, del resto, dipinge una fila di colonne, e non una colonna da sola. Dunque questo elemento è semmai da interpretare per quel che è, ovvero come l’unica parte finita di un tempio rimasto incompiuto, di cui vediamo soltanto il profilo appena abbozzato, che compare nei disegni e che può esser letto come rimando al “contributo del mondo antico alla costruzione della civiltà cristiana” (così Vittorio Sgarbi). Anche i colori ci trasportano dentro l’universo simbolico del tempo: i cuscini sui quali la Vergine poggia i piedi, uno verde e uno rosso, vanno letti assieme al bianco della sua veste, a formare i colori delle tre virtù teologali (il bianco per la fede, il rosso per la carità e il verde per la speranza).

Maurizio Fagiolo dell’Arco, nel suo libro Il Parmigianino. Un saggio sull’ermetismo nel Cinquecento, chiamava in causa la Pala della Concezione dipinta da Girolamo Mazzola Bedoli, parente acquisito del Parmigianino, per dar conto di come all’epoca il tema dell’Immacolata Concezione fosse alquanto dibattuto e Bedoli ne avesse dato una rappresentazione disarticolata (“come un cartellone didattico”) che potrebbe aver fornito spunti al Parmigianino per affrontare, nella Madonna dal collo lungo, lo stesso soggetto, col ricorso ad alcuni elementi presenti anche nella pala oggi alla Galleria Nazionale di Parma: il tempio con la fuga di colonne, il “personaggio disputante” (ovvero il san Girolamo, letto da Fagiolo dell’Arco come un profeta), la “Madonna come idolo cristallino”. Il Parmigianino, secondo lo studioso, avrebbe collegato il momento dell’immacolata concezione alla verginità di Maria, alludendo addirittura con il vaso retto dall’angelo alla “concezione in vitro dell’alchimista”: il vaso sarebbe dunque il vas hermeticum degli alchimisti. La lettura “alchemica” della Madonna dal collo lungo ha comunque visto al ribasso negli anni le sue quotazioni, dato anche che la critica ha ridimensionato il ruolo che l’interesse per l’alchimia avrebbe ricoperto nell’ultima fase della vita del pittore. Prima ancora di Fagiolo dell’Arco, Ute Davitt Asmus, nel 1968, aveva letto il vaso come simbolo del concepimento di Cristo, mentre più tardi Elizabeth Cropper ha interpretato i rapporti formali tra il corpo della Vergine, il vaso e la colonna secondo richiami al De Architectura di Vitruvio. Molte, in sostanza, le letture che sono state date per questo affascinante dipinto, che non ha mai smesso di far discutere la critica.

Parmigianino, Matrimonio mistico di santa Caterina (1521; tempera su tavola, 203 x 130 cm; Bardi, Santa Maria Addolorata)
Parmigianino, Matrimonio mistico di santa Caterina (1521; tempera su tavola, 203 x 130 cm; Bardi, Santa Maria Addolorata)
Parmigianino, Antea (1530 circa; olio su tela, 135 x 88; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)
Parmigianino, Antea (1530 circa; olio su tela, 135 x 88; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)
Correggio, Madonna di San Giorgio (1530-1532; olio su tela, 285 x 190 cm; Dresda, Gemäldegalerie)
Correggio, Madonna di San Giorgio (1530-1532; olio su tela, 285 x 190 cm; Dresda, Gemäldegalerie)
Girolamo Mazzola Bedoli, Pala della Concezione (1533-1536; olio su tela incollata su tavola, 365 x 210 cm; Parma, Complesso della Pilotta, Galleria Nazionale)
Girolamo Mazzola Bedoli, Pala della Concezione (1533-1536; olio su tela incollata su tavola, 365 x 210 cm; Parma, Complesso della Pilotta, Galleria Nazionale)

Come anticipato, il Parmigianino non riuscì a completare l’opera: venne lasciata incompiuta nel 1539, anno della sua fuga a Casalmaggiore (l’artista fu incarcerato a Parma per le sue inadempienze nei riguardi della Confraternita della Steccata, e appena venne liberato lasciò la sua città natale per riparare nella cittadina oggi in provincia di Cremona, e all’epoca parte del Ducato di Mantova, quindi fuori dai confini parmensi). L’artista morì l’anno seguente proprio a Casalmaggiore, senz’aver più messo mano all’opera. Basta dare un’occhiata anche rapida al dipinto per rendersi conto del suo stato d’incompiutezza: l’angelo che sbuca sotto il gomito destro della Vergine è appena abbozzato, lo stesso tempio, di cui s’è detto sopra, appare accennato nel suo profilo, di san Francesco vediamo soltanto un piede, la testa del Bambino appare poco rifinita, e così l’ala dell’angelo che porge il vaso alla Vergine. Ciò nonostante, Elena Baiardo Tagliaferri decise comunque d’installare la pala nella cappella funebre del marito: lo sappiamo da una lapide, oggi perduta, che venne posta in loco presumibilmente in quell’occasione, e che venne tramandata da Ireneo Affò nel 1784 nella sua Vita del Parmigianino, in cui si dice che il “bel quadro, comunemente chiamato la Madonna del collo lungo”, venne collocato nella cappella, con apposta incisa questa iscrizione in marmo: “Tabulam praestansissimae artis / sacellumque a fundamentis erectum / Helena Baiardi / uxor equitis Francisci Taliaferri / honori beatissimae Virgini / pro suo cultu in Eam p. / anno MDXLII”, ovvero “Elena Baiardo, moglie del cavaliere Francesco Tagliaferri, nell’anno 1542 dedicò questa tavola di straordinaria arte, e la cappella eretta dalle fondamenta, in onore della beatissima Vergine, per il suo culto”.

La storia del dipinto s’intreccia con quella di Firenze a partire dal Seicento. Nel 1674 infatti, il cardinale Leopoldo de’ Medici, vorace collezionista d’arte, intavolò una trattativa con i serviti di Parma, attraverso il conte Annibale Ranuzzi di Bologna che fece da mediatore, per assicurarsi il capolavoro del Parmigianino. L’accordo tuttavia saltò, perché i nuovi detentori del giuspatronato della cappella, i conti Cerati, fecero causa ai serviti per aver offerto l’opera al cardinale. Alla fine la questione si risolse solo nel 1698, con l’intervento del duca di Parma, Francesco Farnese, che per non scontentare il principe Ferdinando de’ Medici, figlio del granduca Cosimo III, dovette fare qualche pressione sul tribunale: l’opera venne dunque portata in Toscana. I Cerati, a titolo di compensazione, ricevettero una somma per restaurare la cappella, dove venne collocata una copia del dipinto (il principe Ferdinando, tra l’altro, era entusiasta del dipinto: in una lettera la definì “finita con l’anima”). La Madonna dal collo lungo fu per qualche tempo anche in Francia: nel 1799, all’epoca delle spoliazioni napoleoniche, fu infatti tra le opere che presero la via della Francia. Rimase a Parigi fino al 1815, dopodiché rientrò grazie al lavoro del senatore fiorentino Giovanni Degli Alessandri, inviato nella capitale francese assieme al pittore Pietro Benvenuti per reclamare la restituzione delle opere toscane sottratte durante l’occupazione. Da allora, la Madonna dal collo lungo non ha più lasciato Firenze. E ancor oggi chi la vede agli Uffizi la contempla come il più celebre e celebrato capolavoro del Parmigianino, ma anche come opera particolarmente sfortunata, come attesta la scritta sul basamento della colonna, aggiunta forse quando venne consacrata la cappella, per avvisare tutti i riguardanti di ciò che il dipinto e il suo pittore dovettero subire: “Fato praeventus F. Mattoli Parmensis absolvere nequivit”. Francesco Mazzola, parmense, non riuscì a terminare l’opera per colpa del destino avverso.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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