Le Vittime del Lavoro di Vincenzo Vela, un monumento forte e commovente ai morti sul lavoro


Il monumento alle vittime del lavoro di Vincenzo Vela è uno dei grandi capolavori dell'arte dell'Ottocento nonché una forte e commovente presa di posizione da parte dell'artista.

Il 23 maggio del 1882 veniva ufficialmente inaugurata la Galleria ferroviaria del San Gottardo. Era una delle più importanti conquiste tecnologiche del tempo: si trattava del traforo ferroviario più lungo del mondo, un tunnel di quindici chilometri e tre metri che scorreva tra le viscere delle montagne svizzere, sotto al passo del San Gottardo, per unire i due borghi di Airolo e Göschenen, il primo nel canton Ticino e il secondo nel canton Uri, consentendo alla Svizzera di collegarsi al resto d’Europa. La Galleria fu il frutto di un accordo tra tre paesi (Svizzera, Italia e Germania) che contribuirono in maniera sostanziosa alle spese: Italia e Germania, in particolare, erano interessate al progetto in quanto il passaggio di una ferrovia attraverso le Alpi elvetiche avrebbe dimunuito in maniera considerevole i tempi dei collegamenti tra la Lombardia e le città industriali della Germania settentrionale. Le convenzioni tra gli stati finanziatori furono stipulate nel 1869, e due anni dopo venne istituita la Compagnia del Gottardo, la società incaricata di gestire l’operazione dal punto di vista amministrativo e finanziario. Infine, nel 1872, i lavori furono appaltati alla ditta dell’ingegnere Louis Favre (Chêne-Bourg, 1826 – Göschenen, 1879), vincitore del concorso, che s’impegnò a portare a termine l’impresa in otto anni. La convenzione stipulata tra Favre e la direzione della ferrovia del Gottardo, poi ratificata dal consiglio d’amministrazione della Compagnia del Gottardo e dal Consiglio federale della Svizzera, prevedeva che a Fabre sarebbero stati concessi cinquemila franchi come premio per ogni giorno guadagnato sui tempi stabiliti, qualora avesse consegnato il lavoro in anticipo, e viceversa una penale di cinquemila franchi per ogni giorno di ritardo, elevati a diecimila in caso di ritardo superiore ai sei mesi. La Compagnia del Gottardo si riservava poi il diritto di sostituire Favre se i lavori non fossero avanzati in maniera soddisfacente.

Alla fine, per il completamento dei lavori sarebbero occorsi quasi dieci. Dieci anni, peraltro, molto tribolati: l’opera si rivelò molto più difficile del previsto. Oltre alle difficoltà tecniche dovute alla conformazione del sito (e in particolare alla natura delle rocce della montagna, la cui composizione spesso cambiava, costringendo gli ingegneri a dover modificare in corso d’opera la tecniche di scavo e perforazione) e a quelle economiche (i ritardi fecero aumentare notevolmente i costi dell’impresa), presto s’aggiunsero i problemi legati alle dure condizioni cui erano sottoposti i lavoratori. Si trattava di operai quasi esclusivamente italiani (costituivano all’incirca il novantacinque per cento della forza lavoro impiegata al Gottardo), per lo più provenienti dalle aree rurali povere del Piemonte e della Lombardia, che furono assunti in gran numero da Favre per velocizzare al massimo i lavori: nella Galleria del Gottardo si lavorava ventiquattr’ore su ventiquattro su tre turni, ma in condizioni estreme e molto difficili. Ogni giorno, circa ottocento operai per ogni turno trascorrevano otto ore al buio e al chiuso, senza poter vedere la luce naturale neanche per un minuto, tra la polvere e le esalazioni causate dalle macchine adoperate nei lavori di scavo. La temperatura all’interno del tunnel oltrepassava spesso i trenta gradi, e talvolta sfiorava i quaranta, la scarsità dei servizi igienici provocò il diffondersi di malattie (molti operai, a causa della proliferazione di parassiti, si ammalarono di anchilostomiasi, una patologia da allora nota anche come “anemia del Gottardo”), e gli alloggi erano scarsi e fatiscenti, perché Favre si era preoccupato unicamente di far costruire una residenza per i quadri tecnici e un edificio amministrativo, ma si era totalmente disinteressato dei minatori. Questi ultimi avevano notevolmente ingrossato la popolazione di Airolo e Göschenen: secondo i censimenti della Confederazione elvetica, il piccolo villaggio della Svizzera tedesca era passato da poco più di trecento abitanti a 2.992, mentre Airolo raddoppiò i suoi residenti, passando da circa 1.600 a 3.678, diventando così, dopo Lugano e Bellinzona, il terzo comune più popolato del canton Ticino.

Gli operai alloggiavano dove potevano. Alcuni nelle poche baracche costruite dalla ditta di Favre: sugli oltre duemila minatori che furono impiegati nella costruzione della Galleria durante il periodo di massimo lavoro, furono solo 150 quelli che abitarono negli alloggi “ufficiali”. Gli altri dovettero contentarsi degli appartamenti o delle camere che venivano loro affittate dai locali. Spesso si trattava di sistemazioni tutt’altro che confortevoli: stalle, fienili, granai, stanzoni dove poteva dormire anche una dozzina di persone (a molti operai bastava anche solamente avere un letto). Accadeva anche che molti operai affittassero lo stesso letto, spartendolo in base ai turni di lavoro. Altri ancora erano giunti ad Airolo o a Göschenen assieme alla propria famiglia. E in queste sistemazioni precarie si faceva di tutto: gli alloggi non fungevano solo da dormitorio, ma anche da cucina, sala da pranzo, lavanderia. La gran parte delle abitazioni inoltre non era dotata di servizi igienici, e questo favorì il diffondersi di ulteriori malattie. Ci furono anche proteste per le condizioni di lavoro: il 27 luglio 1875, a Göschenen, alcuni operai abbandonarono per protesta il posto di lavoro, a seguito d’un incidente. Chiedevano condizioni migliori, turni da sei ore invece che da otto, paghe più soddisfacenti e possibilmente tutte in contanti, e non con i buoni che si potevano spendere negli spacci dell’impresa costruttrice, ma che i negozi dei due borghi spesso non accettavano. La storica Alexandra Binnenkade ha ricostruito con dovizia quello che successe in quell’occasione: Ernest von Stockalper (Sion, 1838 - 1919), trentasettenne ingegnere capo di Favre e uomo dai modi spicci, spedì da Göschenen un telegramma alla direzione dei lavori chiedendo di inviare da Altdorf, capitale del canton Uri, cinquanta uomini armati e trentamila franchi per far fronte alle spese necessarie per reprimere la rivolta degli operai. E la rivolta fu brutalmente soffocata nel sangue dai vigilanti, che spararono sugli operai disarmati (si difesero scagliando pietre): cinque minatori furono uccisi, due direttamente dai colpi di fucile, mentre tre morirono nei giorni successivi a causa delle ferite riportate (i loro nomi: Costantino Doselli, Giovanni Gotta, Giovanni Merlo, Salvatore Villa, Celestino Cosi). Molti rimasero feriti, tanti altri furono licenziati.

Il portale d'ingresso della Galleria del San Gottardo dal versante di Göschenen
Il portale d’ingresso della Galleria del San Gottardo dal versante di Göschenen. Ph. Credit


All'interno della Galleria del San Gottardo
All’interno della Galleria del San Gottardo. Ph. Credit


Foto storica dell'ingresso della Galleria del San Gottardo sul versante di Göschenen (1900 circa)
Foto storica dell’ingresso della Galleria del San Gottardo sul versante di Göschenen (1900 circa)


Operai del San Gottardo ad Airolo (1880)
Operai del San Gottardo ad Airolo (1880)


Settembre 1875, spari sui lavoratori in sciopero all'ingresso della Galleria del San Gottardo (Dalla rivista La ilustración española y americana, anno 19, numero 34, 15 settembre 1875. Milano, Biblioteca Ambrosiana)
Settembre 1875, spari sui lavoratori in sciopero all’ingresso della Galleria del San Gottardo (Dalla rivista La ilustración española y americana, anno 19, numero 34, 15 settembre 1875. Milano, Biblioteca Ambrosiana)

Alla fine, nel 1882, i morti sul lavoro durante la realizzazione della Galleria del San Gottardo furono contati ufficialmente in 177. Uccisi durante gli scoppi della dinamite, schiacciati sotto le rocce che crollavano dalle pareti della montagna, travolti dai mezzi dei colleghi, asfissiati dalle esalazioni tossiche. Lo studioso Konrad Kuoni ha però rivisto al rialzo le stime, incrociando i dati con quelli delle compagnie assicurative attive all’epoca, portando il numero di caduti sul lavoro a 199. Tra i morti figurava anche lo stesso Louis Favre: fu colto da un arresto cardiaco mentre stava effettuando un sopralluogo nel cantiere di Göschenen e non vide mai l’opera finita (successivamente la Compagnia del Gottardo, per via del ritardo con cui fu consegnato il lavoro, fece causa agli eredi di Favre). Ma la conta potrebbe essere anche più alta, se si pensa a quanti si ammalarono durante i lavori e morirono a mesi o anni di distanza: difficile fare una stima di quanti persero la vita per cause collegate al lavoro nel tunnel. Ma questa immane strage di lavoratori non mancò di colpire la sensibilità di giornalisti, letterati e artisti. Oggi, il simbolo più noto di quella tragedia è una scultura: è il Monumento alle vittime del lavoro, realizzato da Vincenzo Vela (Ligornetto, 1820 - Mendrisio, 1891), artista profondamente turbato dall’alto tributo di vite umane che il progetto della Galleria aveva comportato. Vela, nato da una famiglia di contadini, era uno scultore animato da forti ideali politici, attivamente impegnato laddove rilevasse un’ingiustizia, e profondamente sensibile alle tematiche sociali del suo tempo. Nel 1886, in una lettera inviata in data 25 novembre allo scrittore Carlo Baravalle (Como, 1826 - Milano, 1900), Vela riassunse in poche, forti ed efficaci parole la passione del proprio impegno: “Sapete che non sono mai stato altro che un operaio: me ne sono sempre vantato. Ho sempre amato e ammirato i poveri oppressi, i martiri del lavoro, che rischiano la vita senza fare il chiasso dei così detti eroi della guerra e che pensano solo a vivere onestamente. Ebbene, oggi che si spendono milioni per innalzare monumenti ai re e centinaia di migliaia di franchi per perpetuare il ricordo dei ricchi il cui merito e la cui gloria stanno solo nelle loro casseforti, mi sono sentito in dovere di ricordare alle persone di cuore questi umili martiri che sono loro fratelli e lavorano per tutti fuorché per se stessi”.

Nella lettera, Vela spiegava proprio le ragioni che lo avevano spinto a lavorare al suo Monumento alle vittime del lavoro. Il modello in gesso veniva cominciato nel 1880 ed era pronto nel 1882, e l’anno successivo veniva mostrato all’Esposizione Nazionale Svizzera di Zurigo, col titolo Die Opfer der Arbeit, “Le vittime del lavoro”. Non era però la gloria personale ciò che Vincenzo Vela cercava. La partecipazione alla grande mostra di Zurigo aveva un obiettivo ben preciso: trovare qualche finanziatore che potesse mettere a disposizione le risorse per tradurre il bozzetto in un monumento in bronzo da collocare nelle vicinanze della Galleria del San Gottardo. Il modello in gesso conobbe un successo straordinario: la critica lodò a gran voce la realizzazione di Vela, impressionante per la sua forza estrema e per il realismo dei suoi protagonisti, e i colleghi artisti, osservando la potenza di quel terribile capolavoro, furono a loro volta ispirati, tanto che alcuni vollero direttamente omaggiare l’artista. Per esempio, il giovane architetto Augusto Guidini (Barbengo, 1853 - Milano, 1928) disegnò uno schizzo nel quale immaginava il monumento incorniciato da quattro traverse ferroviarie spezzate, e qualche tempo dopo il pittore Pietro Chiesa (Sagno, 1876 - Sorengo, 1959) raffigurò lo scultore intento a lavorare sul suo gesso. Tuttavia, malgrado il successo riscontrato, Vincenzo Vela non avrebbe mai visto concretizzarsi il desiderio di vedere la sua opera tradotta in bronzo: forse, era considerata troppo sconvolgente e destabilizzante per esser mostrata in una collocazione pubblica. Soltanto dopo la scomparsa di Vela, nel 1893, il Ministero italiano della Pubblica Istruzione, per rendere un omaggio all’artista, finalmente commissionò, alla fonderia Bastianelli di Roma, la fusione in bronzo, da destinare a quella che allora si chiamava “Galleria d’Arte Moderna” di Roma e che oggi è invece la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, il museo dove l’opera è ancora conservata. Ancor più tempo sarebbe occorso, invece, per vedere la scultura collocata vicino alla Galleria del San Gottardo: l’occasione fu data dal cinquantennale dell’inaugurazione del tunnel, occorso nel 1932. Quell’anno, le Ferrovie federali svizzere desiderarono omaggiare il sacrificio dei tanti caduti per la realizzazione della Galleria, riprendendo in mano il progetto di Vincenzo Vela. L’opera fu di nuovo tradotta in bronzo e collocata nella stazione di Airolo: si realizzava così il sogno dello scultore.

Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro (1882, fusione del 1895; bronzo, 239 x 323 x 40 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro (1882, fusione del 1895; bronzo, 239 x 323 x 40 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro (1882; gesso, modello originale, 255 x 332,5 x 66 cm; Ligornetto, Museo Vincenzo Vela)
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro (1882; gesso, modello originale, 255 x 332,5 x 66 cm; Ligornetto, Museo Vincenzo Vela)


Pietro Chiesa, Vincenzo Vela alle prese con le Vittime del lavoro vegliato dai suoi capolavori (prima del 1906; tecnica mista su carta, 420 x 605 mm; Ligornetto, Museo Vincenzo Vela)
Pietro Chiesa, Vincenzo Vela alle prese con le Vittime del lavoro vegliato dai suoi capolavori (prima del 1906; tecnica mista su carta, 420 x 605 mm; Ligornetto, Museo Vincenzo Vela)


Augusto Guidini (attribuito a), Progetto per la cornice delle Vittime dele lavoro (matita e acquerello su carta, 616 x 558 mm; Ligornetto, Museo Vincenzo Vela)
Augusto Guidini (attribuito a), Progetto per la cornice delle Vittime dele lavoro (matita e acquerello su carta, 616 x 558 mm; Ligornetto, Museo Vincenzo Vela)


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro (1882, fusione del 1932; bronzo; Airolo, piazzale della stazione ferroviaria). Ph. Credit Markus Schweiss
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro (1882, fusione del 1932; bronzo; Airolo, piazzale della stazione ferroviaria). Ph. Credit Markus Schweiss

Vela aveva creato l’opera di sua spontanea iniziativa, e a proprie spese. Non c’era alcun committente, né alcuno gli aveva suggerito l’idea, come lui stesso scrisse a Baravalle nella succitata lettera: l’artista era stato incitato esclusivamente dal proprio sentire. E per omaggiare le vittime del San Gottardo, Vela scelse un momento intenso, toccante, tremendamente tragico: il trasporto di un lavoratore morto, da parte di quattro suoi compagni. Il corpo è adagiato su di una barella e coperto alla bell’e meglio, ma non abbastanza per impedirci di vedere il capo riverso e il braccio destro che penzola nel vuoto, come oggetto inanimato: l’occhio del riguardante si concentra su quel particolare e vede la mano ruvida dell’operaio, segnata dalla fatica e dagli anni di lavoro, farsi lei stessa simbolo più evidente del dramma umano che i personaggi stanno vivendo e cui noi stiamo assistendo. Un dramma che, peraltro, viene reso universale dal verismo di Vela, esasperato al punto da sfiorare vette quasi espressionistiche, specie se s’osservano le anatomie dei lavoratori, le loro schiene curve fino all’inverosimile, i loro sguardi torvi e provati, o l’inquietante figura dell’uomo incappucciato, quasi una sorta di mesto officiante. Dobbiamo poi immaginarci la scena nel buio della notte, particolare che acuisce il senso della tragedia: l’uomo incappucciato e quello in secondo piano stanno infatti reggendo una lucerna per illuminare la strada ai loro colleghi. Lo stesso personaggio in secondo piano viene inoltre raffigurato con una pesante mazza nella mano destra: un evidente simbolo di lotta, una sorta di rivendicazione da parte dell’artista che, come s’è detto, era di famiglia contadina, e proveniva dunque dal proletariato. Nelle intenzioni dell’artista, dunque, un monumento agli umili, un monumento per sancire una lotta politica in un momento storico in cui, come ricordava lo stesso Vela, i monumenti venivano dedicati ai sovrani, non di certo agli ultimi.

Occorre poi sottolineare altri aspetti, a cominciare dal fatto che il monumento di Vela trasporta in una dimensione profondamente laica secoli di pittura religiosa. Lo studioso Giulio Foletti ha voluto individuare nel Trasporto di Cristo al sepolcro di Antonio Ciseri (Ronco sopra Ascona, 1821 - Firenze, 1891), importante capolavoro del romanticismo ticinese, un precedente che permette di cogliere una certa “affinità spirituale tra le due opere [...]: sono due funerali, uno religioso l’altro volutamente laico che rispondono alla stessa volontà di raffigurare, attraverso il verismo delle espressioni, il dolore della morte”. E benché l’opera di Vela sia animata anche da forti intenti narrativi, è necessario notare come il rilievo possa essere inserito “in una dimensione tardo romantica sia dal punto di vista formale (si veda ad esempio la voluta deformazione antirealistica dell’anatomia dei minatori) sia dal punto di vista concettuale: in fondo il ritmo della scena ha una dimensione sacrale e simbolica che annichilisce il crudo realismo della composizione”. Dimensione sacrale accentuata dalle fattezze dell’operaio morto, il cui volto, incorniciato da barba e capelli lunghi, ricorda quello di Cristo: il Monumento alle vittime del lavoro diventa così una sorta di deposizione laica. Nel catalogo della mostra Colori e forme del lavoro (a Carrara, Palazzo Cucchiari, dal 16 giugno al 21 ottobre 2018), il curatore Ettore Spalletti ha ricordato come la studiosa Rossana Bossaglia, in occasione d’una grande rassegna tenutasi a Milano nel 1979 (Arte e socialità in Italia dal Realismo al Simbolismo, 1865-1915), avesse rimarcato il carattere fortemente impegnato dell’opera di Vela contrapponendolo a quello celebrativo di altre opere che, negli stessi anni, affrontavano il tema del lavoro. Nella visione di Bossaglia, spiega Spalletti, “la pittura sociale era quella che intendeva prendere come soggetto fondamentale le condizioni delle classi lavoratrici e degli strati umili della società denunciandone i soprusi, e di conseguenza era portatrice del pensiero socio-umanitario, riformista o anarchico”. Ben distinta dall’arte sociale, era “l’arte celebrativa del lavoro come progresso sociale che, soprattutto a partire dagli anni novanta, iniziò a emergere nel panorama artistico nazionale”. La contrapposizione più evidente, anche per affinità tematica, è quella tra l’opera di Vela e il Monumento ai caduti del traforo del Fréjus, concepito nel 1879 dal senatore Marcello Panissera di Veglio (Torino, 1830 - Roma, 1886), realizzato dallo scultore Luigi Belli (Torino, 1848 - 1919) e oggi collocato a Torino in Piazza Statuto. Appare evidente lo scontro tra la retorica del monumento di Belli, e la commozione di quello di Vela, che in certo modo anticipava il celeberrimo Quarto stato di Pellizza da Volpedo.

Il Monumento alle vittime del lavoro di Vincenzo Vela in mostra a Carrara
Il Monumento alle vittime del lavoro di Vincenzo Vela in mostra a Carrara


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, dettaglio del trasporto
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, dettaglio del trasporto


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore morto
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore morto


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, volto del lavoratore morto
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, volto del lavoratore morto


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, la mano del lavoratore morto
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, la mano del lavoratore morto


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore con la schiena curva
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore con la schiena curva


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore con mazza e lucerna
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore con mazza e lucerna


Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore incappucciato
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, il lavoratore incappucciato


Monumento alle vittime del lavoro, uno dei due lavoratori che trasportano la barella
Vincenzo Vela, Monumento alle vittime del lavoro, uno dei due lavoratori che trasportano la barella




Antonio Ciseri, Trasporto di Cristo al sepolcro (1864-1870; olio su tela, 190 x 273 cm; Orselina, Santuario della Madonna del Sasso)
Antonio Ciseri, Trasporto di Cristo al sepolcro (1864-1870; olio su tela, 190 x 273 cm; Orselina, Santuario della Madonna del Sasso)


Luigi Belli, Monumento ai caduti del traforo del Fréjus (1879; Torino, Piazza Statuto)
Luigi Belli, Monumento ai caduti del traforo del Fréjus (1879; Torino, Piazza Statuto)

Potremmo, senz’alcun azzardo, indicare nel Monumento alle vittime del lavoro di Vincenzo Vela uno dei momenti fondanti della nostra storia, una tappa importante nel lungo cammino delle conquiste sociali, un’opera di urgente attualità, dal momento che di lavoro ancora oggi si muore. Le statistiche dell’INAIL hanno rilevato che nel 2017, dopo anni di calo, il numero dei morti sul lavoro è tornato ad aumentare: ad ogni modo, in tutto sono oltre diecimila i lavoratori che nell’ultimo decennio hanno perso la vita mentre svolgevano le loro attività. Di conseguenza la scultura di Vincenzo Vela è un’opera su cui ancor oggi si deve riflettere, un’opera che non ha mai perso il proprio valore e che, anzi, s’arricchisce con lo scorrere del tempo: basti pensare che un’ulteriore replica è stata realizzata nel 2008 per la sede dell’INAIL di Roma.

Un’opera significativa, che continua a commuovere. Un’opera legata a un preciso episodio della storia europea, ma che assume un valore che travalica ogni epoca. Lo ha ben ricordato la storica dell’arte (nonché direttrice del Museo Vincenzo Vela di Ligornetto, in Svizzera) Gianna Mina, in un contributo pubblicato in un volume del 2016 dedicato proprio alla scultura: “se è vero che il valore di un’opera d’arte si misura anche attraverso la sua capacità di esprimere valori universali differibili nel tempo e approdati ai giorni nostri mantenendo l’originale intensità (passata indenne attraverso eccessi retorici o sentimentali), allora l’altorilievo di Vincenzo Vela [...] può definirsi un’opera d’arte universale e imprescindibile, alla quale si ricollegano le tante immagini di cronaca che quotidianamente narrano di sacrifici e di vittime”.

Bibliografia di riferimento

  • Ettore Spalletti, Massimo Bertozzi (a cura di), Colori e forme del lavoro. Da Signorini e Fattori a Pellizza da Volpedo e Balla, catalogo della mostra (Carrara, Palazzo Cucchiari, dal 16 giugno al 21 ottobre 2018), Fondazione Conti, 2018
  • Gianna Mina (a cura di), Le vittime del lavoro di Vincenzo Vela 1882. Genesi e fortuna critica di un capolavoro, Museo Vincenzo Vela, 2016
  • Maria Garbari, Bruno Passamani (a cura di), Simboli e miti nazionali tra ’800 e ’900, atti del convegno (Trento, 18 e 19 aprile 1997), Società di Studi Trentini di Scienze Storiche, 1998
  • Sandra Pinto, Gianna Piantoni, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Edizioni SACS, 1997
  • Alexandra Binnenkade, Sprengstoff. Der Streik der italienischen Gotthardtunnelarbeiter - Alltag und Konflikte im Eisenbahnerdorf Göschenen 1875 / Explosive Agents. The italian tunnelworkers on strike: Everydaylife and conflicts in Göschenen 1875, Tesi di laurea, Università di Basilea, 1996
  • Konrad Kuoni, “Allein ganz darf man die Humanitätsfrage nicht aus den Augen verlieren”. Der Bau des Gotthard-Eisenbahntunnels in wirtschaftlicher, politischer und sozialer Hinsich, Tesi di Laurea, Università di Zurigo, 1996
  • Ugo Maffioletti, Momenti di vita ad Airolo nel decennio 1872-1882, in Cronache di vita Ticinese (1981), pp. 21 - 27


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo



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