Caravaggio o no? Dopo la mostra di Roma l'Ecce Homo non trova ancora consenso


Malgrado il clamore e i toni celebrativi della mostra di Roma, l’esposizione dell’Ecce Homo attribuito a Caravaggio non ha risolto alcune questioni importanti relative alla sua autografia. Tra dettagli elusi e confronti mancati, la mostra è stata più una passerella che occasione di approfondimento sul dipinto. Facciamo allora il punto. L’editoriale di Federico Giannini.

Malgrado tutto il clamore, malgrado tutte le celebrazioni, e malgrado una mostra che avrebbe dovuto stabilire un punto fermo, la questione dell’Ecce Homo spagnolo dato a Caravaggio appare tutt’altro che risolta. Se la grande mostra di Palazzo Barberini poteva (anzi: doveva) costituire l’occasione per avviare una discussione profonda su questa promettente scoperta, allora si potrà dire che poco s’è ottenuto, e che la mostra è somigliata più a una passerella che a un’occasione di dibattito scientifico. E poco aggiungerà anche l’attuale mostra di Capodimonte, che sembra essere più una coda della mostra romana che un nuovo approfondimento: giusto, certo, organizzare anche a Napoli una tappa dell’esposizione dell’Ecce Homo, stante la possibile genesi partenopea del dipinto, ma difficilmente la mostra napoletana (che si limita semplicemente a riprodurre il confronto con la Flagellazione di Capodimonte che già abbiamo visto a Roma) schiuderà notizie risolutive.

A mostra romana ormai conclusa da quasi tre mesi, e quando ne manca uno alla chiusura di quella napoletana, ritengo ci siano i presupposti per affermare che il passaggio italiano dell’Ecce Homo sia stato fondamentalmente un’occasione sciupata. E se l’obiettivo della mostra di Palazzo Barberini doveva esser la conferma dell’autografia caravaggesca, sussistono tutti i presupposti per dire non sia stato raggiunto, e non soltanto perché il drappello dei dubbiosi, benché sparuto, s’è comunque allargato, ma anche perché dubbî e problemi emersi nei quattro anni dalla scoperta dell’Ecce Homo son stati fondamentalmente elusi in nome d’una convinzione che alle decine di migliaia che hanno assaltato le sale di Palazzo Barberini s’è chiesto d’accettare con deferenza quasi fideistica. Allora, poiché la solidità scientifica dovrebbe emergere da un confronto che tenga conto del maggior numero possibile di contributi, potrebbe essere utile tracciare un bilancio su quel ch’è stato detto attorno al dipinto in questi ultimi mesi.

Caravaggio (attribuito), Ecce Homo (olio su tela, 111 x 85 cm; Icon Trust)
Caravaggio (attribuito), Ecce Homo (olio su tela, 111 x 85 cm; Icon Trust)

Partiamo, dunque, dalla scheda del catalogo compilata da Maria Cristina Terzaghi, che dovrebbe essere lo scritto più aggiornato sull’Ecce Homo. Nel testo Terzaghi ha, intanto, ripercorso la possibile pista che legherebbe l’Ecce Homo alla Spagna per giungere alla conclusione che quell’“otro quadro de un Heccehomo de zinco palmos con marco de evano con un soldado y Pilatos que la enseña al Pueblo” descritto nell’inventario dei beni del conte di Castrillo, viceré di Napoli dal 1653 al 1659, e definito “original de m° Miçael Angel Caravacho”, sia da “identificare”, scrive la studiosa, “con il nostro Ecce Homo”. Conclusione che, tuttavia, Terzaghi riteneva già fondata quattro anni fa, pochi mesi dopo la scoperta: la scheda di catalogo è servita giusto a ribadire quel che già la curatrice della mostra pensava. Nessuna novità, dunque, rispetto a quanto già si sapeva, e nessuna novità che possa gettare qualche luce su tutti i punti ancora oscuri: come il viceré di Napoli sia entrato in possesso del dipinto, quale rapporto abbia con l’Ecce Homo legato alla committenza Massimi, e quanto sia effettivamente solido il legame tra l’Ecce Homo dell’inventario Castrillo e quello scoperto, dal momento che non si conoscono passaggi di proprietà certi tra Sei e Settecento, e la storia a ritroso della provenienza dell’opera madrilena a un certo punto, coi dati di cui disponiamo, s’interrompe.

La scheda si concentra poi sulla datazione ancora controversa, argomento introdotto, per contrasto, dalla constatazione che “l’autografia del dipinto è stata unanimemente accolta” (in realtà, come si vedrà tra poco, non è così: ci sono voci discordanti di cui la mostra non ha tenuto minimamente conto, e almeno un’altra, non trascurabile, s’è aggiunta dopo): secondo Terzaghi l’Ecce Homo sarebbe stato dipinto nel periodo che intercorre tra il soggiorno che Caravaggio trascorre nei feudi laziali dei Colonna e il primo passaggio a Napoli, secondo Gianni Papi sarebbe stato dipinto tra Roma e Napoli (ovvero tra il 1604 e il 1607, benché indichi come periodo più probabile il biennio 1605-1606), mentre per Giuseppe Porzio sarebbe un’opera tarda, eseguita negli ultimi mesi di vita (e ci limitiamo a questi tre studiosi giusto per coprire le “correnti”, chiamiamole così, a oggi maggioritarie). Le varie posizioni coprono, in sostanza, un arco di almeno quattro anni, peraltro quattro anni cruciali, quelli dell’ultimo periodo dell’esistenza di Caravaggio, periodo in cui il suo stile conosce modifiche spesso rapinose, improvvise, radicali. E il fatto che ci sia tutta questa discordia sulla datazione anche tra gli studiosi che pure sono favorevoli all’autografia può esser considerato sintomo del fatto che ci troviamo dinnanzi a un dipinto ancora difficile da valutare. Il resto della scheda si concentra invece su elementi iconografici, che appaiono però trascurabili se l’obiettivo è quello di stabilire l’autografia del dipinto. Vero è che alcuni copisti meno dotati hanno trascurato un singolare elemento che Caravaggio riprende dal Correggio, ovvero il serto della corona di spine tagliato di modo che sembrasse una fiammella, ma lo stesso particolare è presente anche in un’altra versione del dipinto, quella che veniva segnalata negli anni Cinquanta da Roberto Longhi in una collezione privata siciliana, che a oggi risulta irrintracciabile e che conosciamo soltanto da una pessima foto in bianco e nero, poco utile a comprendere la qualità del dipinto.

Ancora, la scheda non fa cenno ai dettagli tecnici: nel 2021, Massimo Pulini, nel suo studio sull’opera, scriveva che sulla superficie del dipinto “è possibile rilevare anche a occhio nudo una serie di incisioni, di sottili solchi che interessano l’imprimitura della tela di Madrid e che sono ricorrenti in molte opere del Merisi”. Forse però la presenza di incisioni non è più da considerare un dettaglio dirimente se, come ammette la stessa Rossella Vodret nel catalogo della mostra di Palazzo Barberini, le incisioni che l’artista tracciava sull’imprimitura fresca, forse col manico del pennello (probabilmente per ricordare le posizioni dei modelli dopo le sedute di posa, oppure per aiutarsi a impostare la composizione, e quindi a definire in maniera sommaria l’impostazione delle figure, i passaggi da luce a ombra, le linee principali), non erano prerogativa del Merisi: “L’uso sistematico delle incisioni”, si legge, “non è una caratteristica solo di Caravaggio, molti pittori anche della sua epoca ne facevano uso”. Nel caso volessimo tener conto delle incisioni, andrà però detto che Caravaggio adoperò questo mezzo soprattutto, benché non esclusivamente, nella piena maturità del periodo romano, circostanza che, se tenuta buona, potrebbe suggerire una restrizione della cronologia al biennio 1605-1606 (lo stesso Claudio Falcucci, che ha eseguito le indagini diagnostiche sul dipinto di Madrid, sostiene che le somiglianze più puntuali, se si parla d’incisioni, sono con le opere del periodo romano) e allontanerebbe l’Ecce Homo dal David della Galleria Borghese cui è stato spesso accostato (ammesso che si voglia ritenere l’opera Borghese frutto del primo soggiorno napoletano, o persino del periodo colonnese, e non prodotto degli ultimi mesi di vita dell’artista). Ad ogni modo, dato che diversi artisti avevano l’abitudine di usare le incisioni, possiamo non considerarle un dettaglio particolarmente rilevante. Più utili, casomai, gli abbozzi di biacca a zig-zag che Vodret ha riscontrato sul torace, sulla spalla e sul braccio di Cristo (e che poi sono state confermate dalle indagini diagnostiche di Falcucci) dandone conto sulle pagine di Finestre sull’Arte e aggiungendo che, in questo caso, si tratta di un modo d’operare che ancora non ha riscontri fuori da Caravaggio. Questo, al momento, sembra essere l’elemento più convincente, e che però si porta dietro a sua volta un ulteriore problema, di cui si dirà più avanti.

Molti, si diceva, i punti che la mostra ha eluso, a cominciare dai pareri delle voci contrarie che, pure, sarebbe stato interessante veder discussi. Senza considerare gli studiosi che hanno espresso posizioni attendiste (come Keith Sciberras, o come Giacomo Berra, che nel 2021, nello studio che per primo faceva notare il ramoscello della corona di spine, diceva che si sarebbe espresso sull’eventuale autografia soltanto dopo la pulitura e le indagini diagnostiche: a oggi non risultano ancora sue prese di posizione), e almeno citando il curioso caso della co-curatrice della mostra di Roma, Francesca Cappelletti, che nel catalogo della mostra romana non si è espressa sull’autografia, ci sono alcuni storici dell’arte che, nei quattro anni dalla scoperta dell’Ecce Homo, hanno avanzato perplessità. A cominciare da Antonio Vannugli, che su queste pagine diceva di avere dei “forti dubbi”, a quanto ci risulta tuttora irrisolti: al di là dell’eventuale legame con la committenza Massimi, sul quale Vannugli è stato molto preciso nell’affermare che ci muoviamo ancora nel campo della pura ipotesi, a suo avviso sarebbero le tipologie dei volti l’elemento più dubbio del quadro. Nicola Spinosa, riferendo il suo parere al Corriere della Sera, aveva detto che a suo avviso siamo in presenza di un caravaggesco di alta qualità, forse di Ribera, e questo in virtù dei toni moderati di questo dipinto, lontano da quelli solitamente drammatici del Caravaggio tardo. Infine, l’articolo sinora più approfondito tra quelli che escludono l’autografia caravaggesca è quello di Camillo Manzitti pubblicato su Finestre sull’Arte, e scritto dopo la pulitura eseguita nel 2024: lo studioso genovese riteneva incompatibili coi modi di Caravaggio il pathos del dipinto, a suo parere scarso, la resa di certe espressioni (come quella del giovane alle spalle di Caravaggio), e soprattutto le debolezze nel modellato, ritenute “impossibili da imputare a Caravaggio” (tali debolezze, secondo Manzitti, si ravviserebbero nell’inserimento dell’orecchio destro di Cristo, nel difettoso e innaturale allineamento dei suoi occhi, nello scorcio del volto di Pilato).

Dopo la mostra di Roma (che, andrà ribadito, sulle perplessità avanzate da Vannugli, Spinosa e Manzitti non ha preso posizione) non si registrano nuove posizioni particolarmente rilevanti. Sembra quasi che ci sia timore non solo nel contraddire l’attribuzione, ma anche nel rilevare tutte le omissioni della mostra: si sono distinti in questo senso giusto Pierluigi Panza sul Corriere della Sera, che ha segnalato alcune delle dimenticanze della mostra, a cominciare dal rapporto con la committenza Massimi, e Michele Cuppone, autore su Aboutartonline di un’approfondita recensione che non ha fatto sconti alla rassegna. Oltre a loro, l’unica eccezione nel contesto di una situazione critica ch’è rimasta sostanzialmente appiattita sulle posizioni pre-mostra sembra essere il parere di Anna Coliva, contraria all’attribuzione a Caravaggio, che così si è espressa sul Messaggero: “Nell’insieme delle opere caravaggesche questo [l’Ecce Homo, nda] stride per formato e grammatica compositiva e non possiede, di Caravaggio, la dimensione drammaturgica. All’opera viene associato un unico documento, spagnolo e molto tardo, del 1657, in cui si menziona peraltro la figura di un soldato, cosa che il giovinetto sul fondo non è affatto. Ma naturalmente ciò che conta davvero è lo stile e qui non si può non notare la compressione con la quale le tre figure sono inserite nello spazio, la sagoma nera del Pilato, scontornata e sovrapposta al Cristo a sua volta schiacciato sul giovane che tiene il mantello. La profonda consapevolezza delle distanze spaziali conferisce alle figure di Caravaggio il volume, evitando proprio, nella paratattica, l’appiattimento che rivela questo quadro”.

Fin qui non s’è detto dell’altro Ecce Homo storicamente dato a Caravaggio, quello di Palazzo Bianco a Genova, il vero convitato di pietra della mostra di Palazzo Barberini. Nella mostra e nel catalogo neppure il minimo accenno al dipinto genovese, malgrado nella pubblicazione il nome di Longhi, che per primo attribuì a Caravaggio l’opera di Palazzo Bianco, venga citato più di duecento volte (anche perché la mostra di Palazzo Barberini non ha fatto mistero di volersi porre in continuità con la prima, grande mostra su Caravaggio, quella organizzata dallo stesso Longhi nel 1951 nelle sale di Palazzo Reale a Milano). Nella bibliografia del catalogo non è stato incluso neppure il catalogo della mostra Caravaggio e i genovesi dove pure il problema dell’autografia dell’Ecce Homo di Palazzo Bianco veniva dettagliatamente affrontato. Eppure, il dipinto di Genova continua a essere esposto come autografo di Caravaggio. Il fatto curioso è che i due elementi tecnici solitamente addotti per suffragare l’autografia caravaggesca dell’Ecce Homo madrileno, le incisioni e soprattutto gli abbozzi a zig-zag, son stati riscontrati anche nel dipinto genovese e, di conseguenza, sono stati spesso presentati come prova della paternità caravaggesca dell’opera oggi a Palazzo Bianco.

Caravaggio (attribuito), Ecce Homo (1605-1610 circa; olio su tela, 128 x 103 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco)
Caravaggio (attribuito), Ecce Homo (1605-1610 circa; olio su tela, 128 x 103 cm; Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Bianco)

Ora, questa coincidenza apre a diverse ipotesi. Prima: i dipinti sono entrambi di Caravaggio, e dunque chi ha adoperato l’Ecce Homo di Madrid per squalificare quello genovese dovrà rivedere le proprie posizioni. Seconda: toccherà ammettere che, tolte le incisioni che sappiamo piuttosto diffuse, c’è da riconoscere almeno un altro artista che adoperava la tecnica dell’abbozzo a zig-zag. Terza: i due Ecce Homo sono entrambi di Caravaggio ma forse occorre introdurre un elemento di cui pochi se non nessuno ha tenuto conto, ovvero la possibilità di riscontrare qualche elemento spurio in ambedue i dipinti. Il volto di Pilato nel dipinto di Genova, per esempio, sembra troppo grottesco e caricaturale per esser ritenuto prodotto della mano di Caravaggio (su questo problema s’era già espresso Sebastian Schütze, che però rigettava in toto l’autografia). E allo stesso modo, non si può non tener conto, guardando all’Ecce Homo di Madrid, delle evidenti debolezze del modellato del volto di Cristo, oltre che di alcuni dettagli raffigurati in maniera poco realistica, come la clavicola destra di Cristo che è vistosamente disallineata rispetto a quella sinistra (un errore difficile da pensare per un artista che aveva una buona conoscenza dell’anatomia), o il sangue appicciato alla carne.

Una discussione scientifica seria sull’autografia dell’Ecce Homo di Caravaggio non può, dunque, sorvolare su questi importanti passaggi. Ora, non è dato sapere quando si potrà rivedere in Italia il dipinto spagnolo. Ecco dunque perché l’occasione è stata sciupata: perché sarebbe stato utile sfruttare questo passaggio italiano non per mettere in piedi un’ostensione, peraltro con divieto di fotografare (l’Ecce Homo spagnolo era guardato a vista da un addetto che non si muoveva dalla sedia posta di fianco all’opera, e stesso dispositivo di sicurezza anti-fotografia era stato approntato per un’altra opera che solleva sempre più dubbî, la Cattura di Dublino: mai m’era capitato di vedere impiegato, in una mostra, un addetto a sorveglianza esclusiva di un unico dipinto), ma per dissipare tutte le ombre che ancora s’allungano sull’Ecce Homo. Certo: chi è convinto della bontà dell’autografia potrà semplicemente dire di non aver tenuto conto delle obiezioni in quanto trascurabili. Ad ogni modo, anche qualora fossero state davvero trascurabili (e in realtà, s’è visto, non sono problemi di poco conto, non sono osservazioni che vengono da improvvisati), la mostra, invece di prendere una posizione netta, ha preferito il silenzio, e non è di certo questo l’atteggiamento che ci si aspetta da un’occasione espositiva che avrebbe dovuto sciogliere i dubbî e presentare al mondo un nuovo Caravaggio (anche perché il risultato è che la frangia dei dubbiosi a oggi è rimasta tale e, anzi, s’è rinfoltita). Di sicuro, non si può dire che l’autografia sia unanimemente accettata. Sarebbe allora auspicabile una mostra dove davvero si possa dire una parola, se non definitiva, quanto meno solida sull’Ecce Homo di Madrid, una mostra che magari esponga l’opera appena scoperta assieme a quella di Palazzo Bianco e alle sue copie che si possono rintracciare (forse sarebbe anche il caso di tornare sulle tracce di quella siciliana segnalata da Longhi). Ma non è detto che una mostra del genere verrà mai organizzata, o almeno non nel breve-medio termine. Del resto, se a Palazzo Barberini l’Ecce Homo è stato ufficialmente, e pomposamente, sdoganato come un autografo, chi è che adesso ha interesse a rimettere in discussione le carte?


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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