Quella che chiamiamo “mostra instagrammabile” non è solo un fenomeno legato alla fotografia compulsiva, ma è un’intera modalità curatoriale che ha imparato a sottrarre ogni ostacolo al riconoscimento immediato. Ed è sufficiente entrarci per notare che nulla può davvero sfuggire: le luci cadono esattamente dove devono, i colori sono calibrati per non ferire l’occhio, la disposizione degli spazi è una coreografia studiata al millimetro, senza angoli ciechi e senza imprevisti. È un ambiente in cui l’opera non vive, ma posa soltanto. L’aria stessa sembra già filtrata, pronta a scivolare dentro la griglia di uno schermo.
Il percorso è costruito affinché lo spettatore non inciampi mai, non si perda, non resti in silenzio più del necessario e il suo linguaggio visivo è limpido, rassicurante, privo di fenditure. Perfino la narrazione è disinnescata: al posto d’una tesi da discutere, un flusso di suggestioni prevedibili; al posto dell’attrito, la carezza di un’emozione standardizzata.
Sono un po’ come certi film horror scadenti in cui sai con precisione millimetrica quando arriverà il jumpscare, o quelle serie tv che ti tengono incollato allo schermo proprio per il loro essere deliziosamente kitsch e prevedibili: sai già dove andranno a parare, ma resti, confortato dalla sicurezza di non dover affrontare niente d’inatteso. Così, anche in molte mostre, il brivido è calcolato, la sorpresa è programmata, la tensione è sostituita da una coreografia dell’ovvio.
Il problema non è la bellezza né la cura, che pure abbondano, ma la totale assenza di rischio, perché l’opera, anche quando nasce da una tensione, da una frattura, viene addomesticata fino a diventare puro segno grafico, un’immagine “giusta” da diffondere. Non c’è spazio per il disordine, per il fraintendimento, per quell’attimo in cui il visitatore si trova senza appigli, perché tutto è già stato tradotto in un linguaggio comprensibile, pronto a essere condiviso, privo di margini oscuri. Così, mentre crediamo di muoverci tra le opere, ci muoviamo in realtà dentro un format. E in quel format l’arte non è più incontro: è banale conferma. Conferma di ciò che già sappiamo dell’artista, conferma di ciò che ci aspettiamo di vedere, conferma di ciò che ci sarà utile portare via sotto forma d’immagine. È una visione che rassicura, ma non scava; che seduce, ma non tocca il punto in cui la l’arte smette di essere piacevole e diventa necessaria.
E non si tratta di demonizzare le mostre instagrammabili, né di liquidarle come una degenerazione del presente. È innegabile che abbiano intercettato un bisogno preciso: quello di un’arte che si mostri accessibile, immediata, rassicurante e in questo senso funzionano certo come soglia, come spazio di avvicinamento, come preludio a una possibile familiarità, ma la domanda, tuttavia, è se quella soglia conduca davvero da qualche parte o se resti soltanto un varco ornamentale, un ingresso che non apre stanze ma corridoi infiniti e sempre uguali, dove ogni esperienza è destinata a dissolversi nell’istante in cui viene documentata.
Il problema, quindi, non è il desiderio di comprensibilità (sacrosanto in un tempo che ha escluso intere generazioni dal linguaggio dell’arte), ma il fatto che la comprensibilità, quando diventa assoluta, finisce per coincidere con la sterilità. Ciò che è interamente leggibile, interamente traducibile, interamente privo di residui, non lascia spazio al lavoro interiore dello spettatore, non produce urto né esitazione. Perché le retrospettive non dovrebbero pretendere d’essere capite al primo sguardo, ma dovrebbero poter aspirare a restare in sospeso, a depositare un’eccedenza che resiste alla decifrazione, a creare una ferita di senso che costringe a tornare, a domandare, a dubitare.
Il paradosso è che spesso, dall’altro lato, ci imbattiamo in mostre che scelgono la via opposta: pannelli scritti in un gergo impenetrabile, frasi che sembrano scritte per un concorso di acrobazie semiotiche, talmente autoreferenziali da escludere chi guarda anziché accoglierlo. In entrambi i casi, sia nell’eccesso di chiarezza che nell’opacità deliberata, l’effetto è lo stesso: l’opera scompare. È in questa tensione che si misura la differenza tra una mostra che si accontenta di piacere e una che invece osa scavare, anche a costo di spiazzare.
Ed è qui che More Than Kids di Valerio Berruti a Palazzo Reale rivela con chiarezza l’ambiguità di tale modello. Si tratta di un’esposizione che seduce con la sua leggibilità, che rassicura con la sua grazia, ma che nel farlo conferma fino in fondo la logica ormai stanca del “già visto”, del riconoscibile, del fotografabile. L’universo di Berruti è quello che conosciamo: figure infantili stilizzate, sospese in uno spazio senza tempo, forme ridotte all’essenziale, colori piatti, contorni netti. È un linguaggio immediatamente leggibile, che non pretende di destabilizzare, ma trasmette quiete, riconcilia, scorre.
Fin qua nulla di male, non c’è niente di sbagliato nel costruire un’opera che sia accessibile, ma l’allestimento amplifica questo registro fino a farlo diventare un habitat perfetto per lo scatto. I bambini di Berruti che sono già icone docili, svuotate di conflitto, si muovono in ambienti calibrati, dove la luce non cambia quasi mai e ogni sala sembra pensata per diventare sfondo. È una mostra che offre il piacere del riconoscimento immediato, ma non il rischio del passo falso.
In questo, More Than Kids sembra aderire perfettamente alla grammatica di molte operazioni firmate Arthemisia: un marchio curatoriale che sa dosare emozione e decorazione, brand e biografia, fino a costruire un prodotto culturale che “funziona” prima ancora d’essere visto. Si entra con l’aspettativa di trovare qualcosa di “bello” e lo si trova, esattamente come previsto, ma il problema è proprio questo: se la sorpresa è esclusa per progetto, se l’attrito è rimosso in partenza, allora l’esperienza resta piatta, anche quando impeccabile.
La mostra è carina, leggibile, persino rassicurante. Ma in arte “carino” è già una condanna, ed è per questo innocua, destinata a spegnersi nell’arco di pochi minuti. Non apre domande, non costruisce tensioni, non obbliga a guardare oltre il perimetro sicuro che l’allestimento ha disegnato. È la differenza tra una porta che introduce a un mondo nuovo e una cornice che ti restituisce un’immagine che già conosci: nel primo caso esci diverso, nel secondo esci identico, con una foto che conferma quello che ti aspettavi di vedere.
More Than Kids non è un caso isolato. Sempre a Palazzo Reale di Milano, nel settembre del 2024, anche la mostra dedicata a Munch si muoveva lungo un binario simile con opere importanti, alcune raramente viste in Italia, ma incastonate in un percorso che sembrava più un trasloco museale che una lettura critica. Il tormento di Munch era presentato come marchio estetico e la sua sofferenza come prodotto narrativo. Non c’era indagine sulla materia pittorica, sull’instabilità della figura, sull’ossessione del segno, ma solamente la riproposizione rassicurante del cliché dell’artista maledetto, confezionato per confermare quello che già sappiamo e che è semplice raccontare.
Lo stesso meccanismo si ritrovava in Visions in Motion.Graffiti and Echoes of Futurism alla Fabbrica del Vapore, che avrebbe potuto essere un’occasione fertile per mettere in dialogo linguaggi urbani e avanguardie storiche, ma che invece s’è ridotta a una sequenza di superfici decorative, slogan visivi e composizioni pensate più per essere sfondo che per aprire un discorso. Era street art senza strada e futurismo senza avanguardia: un’ibridazione che prometteva energia e ne restituiva solo l’estetica levigata.
E poi Facile Ironia al MAMbo, una mostra che si proponeva di riflettere sulla comicità come gesto politico, ma che s’è piegata all’esigenza di essere chiara, immediata, ordinata fino all’innocuità. L’ironia, che per definizione vive nello scarto e nell’imprevisto, era sterilizzata. Le pareti sembravano decidere per te quando e come ridere, trasformando la risata in un atto previsto, regolato, persino educato.
Questi casi, pur diversi per tema e linguaggio, condividono una stessa postura curatoriale: eliminare il margine d’incertezza, assicurare che lo spettatore esca con una percezione chiara, “bella” e condivisibile dell’esperienza. È una strategia che funziona sul breve periodo, soprattutto in termini di affluenza e copertura social, ma che raramente lascia qualcosa che possa sedimentare nel tempo.
Eppure, non tutte le mostre cedono alla tentazione della levigatezza. Ci sono curatori, curatrici, artisti e artiste che ancora scelgono d’incrinare la superficie, d’inserire dei forse, di non offrire al visitatore la protezione di un percorso lineare. All’Albertina di Vienna, Gaze di Jenny Saville non si limitava a essere spettacolare (e lo era, inevitabilmente: con i corpi smisurati, le tele che invadono lo spazio con la violenza delle proporzioni, le pennellate carnali che fanno tremare la pelle e la materia), non seduceva in modo sterile. L’impatto immediato era solo la soglia, un colpo frontale che non chiudeva il discorso ma lo apriva: chi guardava, appena oltrepassata la vertigine iniziale, doveva misurarsi con la vulnerabilità della carne, con la brutalità e la dolcezza che convivono nello stesso corpo, con l’oscillazione continua tra attrazione e repulsione. È un’arte che si lascia sempre fotografare, certo, ma che resiste alla riduzione fotografica poiché nessuno scatto può contenere il peso della materia, l’odore di olio e di carne che sembra sprigionarsi dalle tele, la sensazione inconfondibile d’essere guardati mentre si guarda, d’essere esposti allo stesso sguardo che si pretende di dominare.
Altri invece, come Joana Vasconcelos ad Ascona, dimostrano che si può sfidare l’esperienza e persino all’instagrammabilità senza per questo precipitare nella semplificazione. Le sue installazioni monumentali, tattili e avvolgenti, seducono lo spettatore con la loro scala e con la loro estetica ipnotica, ma non si esauriscono nello stupore. Restano ambigue, instabili, aperte a una pluralità di letture: dietro la superficie colorata s’avverte il peso della tradizione artigianale, la fragilità dei materiali che minacciano di cedere, l’ironia feroce che smonta il mito del decoro femminile e lo restituisce come spettacolo ingovernabile. Sono opere che si possono attraversare, toccare, fotografare; ma quando l’immagine è già stata scattata, resta addosso il dubbio, la domanda che incrina l’euforia anche, e la consapevolezza che la bellezza, se davvero vuole contare qualcosa, debba restare disturbata.
Lo stesso si potrebbe dire della mostra fotografica su Francesca Woodman, sempre all’Albertina. Sono immagini minuscole, fragili, quasi invisibili se non ci si piega fino a toccarne la soglia, costringono a un avvicinamento fisico e mentale, a un rallentamento che spezza il ritmo della visione contemporanea. Non offrono mai una lettura immediata: pretendono silenzio, intimità, vulnerabilità. E ancora, alla Kunsthaus Wien, un percorso che intreccia pittura, ecologia e attivismo visivo senza attenuarne le fratture, lasciando che sia lo spettatore a trovare la propria traiettoria dentro materiali eterogenei e talvolta dissonanti, in un paesaggio che non si lascia ridurre a una formula.
E non va dimenticato che, accanto alla mostra iper-instagrammabile di Valerio Berruti a Palazzo Reale, s’è aperta in parallelo l’esposizione Mario Giacomelli: il fotografo e il poeta, curata con rigore e fantasia magistrale, capace di restituire la complessità di un autore che nella grana della pellicola ha condensato un’intera visione del mondo. Un contrappunto quasi involontario, che dimostra come nello stesso luogo possano convivere due modalità opposte: da una parte l’esperienza liscia, immediata, rassicurante; dall’altra il bianco e nero ruvido di Giacomelli, che non consola, che non illustra, che continua a chiedere d’essere interpretato.
Sono esperienze che non sempre piacciono a tutti, e va bene così. L’arte non è chiamata a compiacere, ma a resistere alla neutralizzazione. Una mostra che ti lascia uscire con una domanda aperta, con la sensazione di non aver visto tutto o di non aver compreso fino in fondo, ha già fatto infinitamente di più di un evento perfettamente confezionato. Perché non regala soltanto un’impressione, ma deposita una ferita. E la ferita, a differenza dell’impressione, non svanisce nel feed.
L'autrice di questo articolo: Francesca Anita Gigli
Francesca Anita Gigli, nata nel 1995, è giornalista e content creator. Collabora con Finestre sull’Arte dal 2022, realizzando articoli per l’edizione online e cartacea. È autrice e voce di Oltre la tela, podcast realizzato con Cubo Unipol, e di Intelligenza Reale, prodotto da Gli Ascoltabili. Dal 2021 porta avanti Likeitalians, progetto attraverso cui racconta l’arte sui social, collaborando con istituzioni e realtà culturali come Palazzo Martinengo, Silvana Editoriale e Ares Torino. Oltre all’attività online, organizza eventi culturali e laboratori didattici nelle scuole. Ha partecipato come speaker a talk divulgativi per enti pubblici, tra cui il Fermento Festival di Urgnano e più volte all’Università di Foggia. È docente di Social Media Marketing e linguaggi dell’arte contemporanea per la grafica.Per inviare il commento devi
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