Due mostre rendono omaggio a Mario Giacomelli nel centenario della sua nascita. A Milano, Mario Giacomelli. Il fotografo e il poeta viene allestita a Palazzo Reale, promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta da Palazzo Reale e Archivio Mario Giacomelli, in collaborazione con Rjma progetti culturali e Silvana Editoriale. A Roma, Mario Giacomelli. Il fotografo e l’artista trova sede al Palazzo delle Esposizioni, promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo, prodotta e organizzata da Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con Archivio Giacomelli. Entrambe le esposizioni, curate da Bartolomeo Pietromarchi e Katiuscia Biondi Giacomelli, completano un lungo percorso intrapreso dall’Archivio Mario Giacomelli per riesaminare e approfondire opere e materiali, nella consapevolezza che sia necessario un lavoro costante di tutela e interpretazione, condotto con rigore filologico e passione critica.
Nascono così due mostre che offrono al visitatore non solo le stampe originali e vintage – una apprezzabile rarità nel panorama espositivo fotografico contemporaneo – ma anche materiali inediti come scritti, provini a confronto e testimonianze che rivelano tutta l’originalità del processo creativo del fotografo. Due percorsi narrativi distinti che insieme restituiscono la complessità e la ricchezza interpretativa delle immagini di Giacomelli. Possiamo dire che ne sarebbe soddisfatto il fotografo che affermava: “Ecco dal momento dello spettatore osserva l’immagine, vede un’altra, un’altra e un’altra e incomincia ad interrogarsi ‘Ma cosa intendeva dire? Cosa voleva dire questo fotografo?’ Ecco da quel momento l’immagine morta incomincia a respirare viene fuori dal suo mutismo. Almeno questo è quello che io penso” (le citazioni sono tratte dalla trasmissione Rai Il melograno. La buona terra di Stefano Viaggio del 1994, visibile su RaiPlay).
Nell’esposizione milanese viene esplorato il suo rapporto con la poesia. È forse l’influenza più palese nelle immagini di Giacomelli in cui è visibile quella stessa elevazione verso il lirismo e quell’astrazione che rendono la poesia un linguaggio che supera gli schemi.
Anche nei progetti il rapporto è facilmente leggibile, le fotografie non sono mai una mera illustrazione del testo, come nella serie Caroline Branson da Spoon River (1967-73), ispirata al testo di Edgar Lee Masters, dove Giacomelli mette in scena la passione di due amanti che trasforma il mondo circostante e che, rapiti dall’amore, si fondono con la natura perdendosi in essa. Poi, nell’evoluzione del suo percorso artistico, la poesia si sublima progressivamente nelle immagini, e ne diventa non più solo ispirazione ma parte integrante del linguaggio. Così come nella serie L’infinito (1986 -1990) che nasce dall’omonima poesia di Giacomo Leopardi. La scelta di un fotografo non può che ricadere su una poesia che parla di sguardo, uno sguardo che si scontra contro un elemento che lo limita e spinge l’immaginazione ad espandersi verso uno spazio e un tempo senza confini.
Mario Giacomelli è sicuramente il fotografo italiano che più di ogni altro ha spinto la ricerca sul linguaggio fotografico verso territori inesplorati, sperimentando senza sosta le possibilità espressive del mezzo. La sua opera testimonia un’incessante indagine sui limiti e le potenzialità della fotografia, estremizzando la tecnica ed estendendo il linguaggio. È lui che ha elevato la fotografia italiana dal piano documentario a quello artistico, creando un codice visivo rivoluzionario che ha aperto nuove strade espressive e ha influenzato profondamente l’evoluzione della fotografia contemporanea nel nostro Paese.
La mostra romana esplora il rapporto delle opere di Giacomelli con quelle dell’arte contemporanea. Era nota l’ammirazione di Giacomelli per Alberto Burri, esposto in mostra accanto a La buona terra (1964-1966). Qui è evidente un’affinità di ricerca: dove Burri scavava fisicamente la terra dei suoi Cretti, Giacomelli scava il nero sul bianco delle sue fotografie. Non solo riprende, ma estremizza il contrasto, fino a ridurre la scala delle sfumature al minimo necessario. Questo rappresenta del resto il punto più alto della ricerca di Giacomelli: il bianco e il nero, senza mezzi termini. Lui, che ha indagato la fotografia in tutte le direzioni possibili alla fine del percorso arriva al punto di partenza: al bianco accecante, al nero più crudo. Giacomelli è la fine e il principio. Un’origine che la fotografia stessa non ha mai davvero avuto, visto che già i primi esperimenti, pur estremamente meno definiti della tecnologia odierna, permettevano di riprodurre e preservare una varietà di sfumature. Così l’opera di Giacomelli inventa un principio linguistico, un primo segno, un sistema binario da cui idealmente nasce tutto.
Un bianco e nero pienamente espresso in Io non ho mani che mi accarezzano il volto (1961-1963), che prende il nome da un verso di David Maria Turoldo, e che costituisce la più celebre serie di Giacomelli, quella che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Una serie che accomuna le due esposizioni.
Qui i “pretini”, come sono comunemente note queste fotografie, ritraggono gli allievi del Seminario Vescovile di Senigallia, dove Giacomelli si era recato ispirato dai versi di Turoldo. Sono versi che parlano di solitudine, di distacco dalle emozioni del mondo, così come nell’immaginario collettivo fanno i giovani seminaristi che si votano a una vita di dedizione e preghiera. Dopo oltre un anno di ambientazione e di contatto con i loro, necessario per elaborare idee e per abituare questi giovani alla ripresa fotografica, Giacomelli aveva però scoperto una realtà diversa da quella immaginata: nei momenti di ricreazione, i giovani preti giocavano e vivevano momenti di svago proprio come i ragazzi comuni. “Nelle prime immagini usciva fuori l’immagine dal seminato, di questi preti che pensi solo che pregano. E poi a mano a mano sentivo quasi quasi un po’ di compassione per questa gente che giocava, ma giocava come dei bambini che non sarebbero mai cresciuti” racconta Giacomelli.
Sono fotografie gioiose e festanti, che li ritraggono mentre danzano, fanno un girotondo e giocano a pallone. Con il suo bianco e nero estremo e primitivo, di figure nere su un limbo bianco senza riferimenti di spazio, Giacomelli esprime la più pura delle emozioni: la gioia incondizionata e la serenità di seminaristi lontani dal mondo che giocano, con la semplicità di chi ha lasciato le cose terrene. “Non capivo quale era la forza di questa gente, se c’è qualcosa di grande o se realmente rimangono sempre dei bambini senza i problemi che hanno gli uomini nella vita”.
È l’unica serie non associata a un altro artista, perché concepita essa stessa come un’installazione che restituisce la circolarità rappresentata dalle immagini. Un dettaglio, questo, che farà impazzire i collezionisti che inseguono i “pretini” nelle aste dove Giacomelli è sempre più presente. Chissà che non ci sia un pretino introvabile della collezione, un raro, un super raro, come nelle migliori raccolte di figurine.
Tutte le altre serie in mostra sono messe a confronto con artisti contemporanei, anche per associazioni successive alla realizzazione delle opere, frutto di una riflessione dei curatori. E così Jannis Kounellis è affiancato alle serie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, E io ti vidi fanciulla, Lourdes e Mattatoio, dove una realtà dolorosa – la malattia, il dolore, la pietà popolare, la morte – costituisce il punto di partenza. Sebbene sia stato indagato da molti Giacomelli eleva certamente il linguaggio fin dove nessun contemporaneo si è mai spinto. Così, secondo i curatori, in Kounellis la materia reale è sublimata fino a una dimensione spirituale e simbolica. Allo stesso modo, più avanti, i paesaggi di Presa di coscienza sulla natura (celebre serie di Giacomelli), Metamorfosi sulla terra e altre sono affiancati all’opera Tetto di Burri per un dialogo sul rapporto tra la materia e il sogno, tipico di molte ricerche artistiche.
C’è da chiedersi se queste associazioni siano accessibili a un pubblico non specializzato. Manca infatti un elemento di maggiore comprensione della scelta: come avviene con Burri, anche con gli altri artisti servirebbe una nota che renda comprensibile non tanto l’arte contemporanea – sulla cui comprensibilità abbonda l’ironia – quanto l’associazione con le opere di Giacomelli.
È una mostra accessibile? Che magica questa parola: non è accessibile solo ciò che è tradotto in pannelli a rilievo o audiodescritto, perché i limiti sono spesso culturali ed educativi. E dunque è accessibile questa mostra? È comprensibile a chi non sa chi sia Kounellis, a chi non lo conosce? O forse glielo insegna attraverso testi semplici, di linguaggio comune? Forse no, ma è vero anche che non è obbligatorio che lo sia. E poi, come diceva Giacomelli, “A me meraviglia quella gente che ha capito tutto. Tu vedi oggi gente che ha capito tutto di tutto ed è ancora tanto giovane. A me sembra di essere non più tanto giovane e non aver capito niente”.
L'autrice di questo articolo: Silvia De Felice
Da venti anni si occupa di produzione di contenuti televisivi per Rai in ambito culturale e ha ideato Art Night, programma di documentari d'arte di Rai 5. L'arte e la cultura in tutte le sue forme la appassionano, ma tra le pagine di Finestre sull'Arte può confessare il suo debole per la fotografia.Per inviare il commento devi
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