L'opera d'arte e la riproduzione delle sue immagini. Un dibattito aperto


La questione del rapporto tra l’opera d’arte e la sua immagine è una figura di grande interesse teorico, un sintomo che si impone alla nostra attenzione nel momento attuale, quello del confronto con il fenomeno dell’immagine culturale e sociale, con l’immagine prodotta dall’universo mediatico.

La questione del rapporto tra l’opera d’arte e la sua immagine, intesa come strumento di comunicazione, divulgazione e conoscenza, è una figura di grande interesse teorico, un sintomo che si impone alla nostra attenzione nel momento attuale, quello del confronto con il fenomeno dell’immagine culturale e sociale, con l’immagine prodotta dall’universo mediatico che ha trasformato la società della macchina in “società dell’immagine”. Una vicenda complessa che mette a confronto differenti latitudini nei campi del sapere e della cultura: dalla storia alla filosofia, dalla storia dell’arte alla museologia, dalla sociologia all’antropologia, dalla comunicazione al marketing.

Per cercare di scardinare tale questione partirei da un’opera di Marcel Duchamp, L’HOOQ del 1919, in cui l’artista francese ridefinisce la dimensione teorica e linguistica dell’opera d’arte e anticipa tutte le questioni sul rapporto tra l’opera d’arte e la sua immagine. Duchamp, infatti, si impossessa dell’immagine di una delle opere più universalmente note e oggetto di imperitura venerazione da parte del pubblico e la dota di un paio di baffi e di un pizzetto, compiendo uno dei gesti più provocatori e iconoclasti della storia dell’arte. Un‘operazione che nasce proprio nel momento in cui la riproducibilità tecnica dell’immagine, con la nascita della fotografia e del cinema, stava iniziando il suo percorso, lungo ormai più di un secolo, verso l’attuale dimensione dell’iperconsumo dell’immagine. La Gioconda di Duchamp, allora, è la metafora della mercificazione delle arti e la santificazione della riproduzione dell’immagine? Oppure un semplice sberleffo nei confronti di un pubblico sempre più anestetizzato che venera passivamente e selettivamente le opere sulla base della loro fama? In realtà è entrambe le cose. Ciò che accade dal gesto di Duchamp in poi - basti ricordare che oltre al francese tanti artisti hanno lavorato sull’immagine della gioconda o su immagini di altre opere del passato, anche prima di lui - è un cambiamento radicale del nostro sistema di comunicazione non solo mediatico ma anche culturale. Questa direzione dell’arte ha, infatti, avviato un processo di liberalizzazione delle immagini delle opere d’arte che apre sicuramente possibili prospettive sulle attuali discussioni che stanno avvenendo a livello globale sulle politiche da adottare sulla riproduzione dei beni culturali.

Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q. (1919; intervento su riproduzione fotografica, 19,7 x 12,4 cm; New York, Collezione privata)
Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q. (1919; intervento su riproduzione fotografica, 19,7 x 12,4 cm; New York, Collezione privata)

Come direttrice di un museo non posso non pensare che la tutela delle opere e della loro immagine sia il primo passo da cui partire per definire i principi programmatici dell’azione educativa e sociale dei musei, proponendo il museo come arma di cultura attiva. Ma come tutelare le opere e le loro immagini? Attualmente ci sono due direzioni che stanno prendendo corpo: quella di una tutela più radicale che prevede un canone per usufruire delle immagini dei beni culturali, e quella della liberalizzazione assoluta, come è avvenuto in molti musei americani. È forse proprio in questa sfida tra queste due posizioni che si gioca un finale di partita delicato e complesso. Da un lato l’idea che, nella società attuale dell’immagine diffusa e dell’iperestetizzazione del mondo, i beni culturali vadano tutelati e quindi protetti da questi circuiti, dall’altro quello di cavalcare una scia del consumo dell’immagine per entrare nel sistema partecipando all’orgia dell’immagine diffusa. Forse la soluzione, come spesso accade, sta nella coesistenza di queste due posizioni: non possiamo permetterci che le immagini dei nostri beni culturali vengano divorate, plasmate, mutate e spesso mortificate da un sistema che fagocita e rigetta indifferentemente tutto - non tutti quelli che postano immagini sono Duchamp - ma neanche possiamo rischiare di privare la conoscenza dei nostri beni attraverso quelli che sono i canali delle generazioni attuali (web, social, etc.).

La vicenda tra l’opera d’arte e la sua immagine sembra diventare sempre più un ossimoro culturale, che rischia da un lato di nuocere alla conoscenza del nostro patrimonio dall’altra di fare entrare in una disneyficazione assoluta delle immagini anche quelle che hanno un valore culturale, col rischi di una omologazione tra immagini banali e standardizzate e immagini che hanno lo scopo di promuovere e sviluppare i nostri processi culturali. Oggi, infatti, la continua proliferazione di immagini standardizzate provenienti dai bombardamenti mediatici ha creato nell’uomo una condizione di anoressia mentale, di “memoria istantanea”segnata da un “collegamento immediato” (Jean Baudrillard). Una “memoria momentanea” obbligatoria che è il risultato dei flussi di rappresentazione che costantemente ci invadono, procurandoci un’instabilità visuale fatta di incoscienza nel riconoscere il valore culturale, politico e sociale dell’immagine, spostando l’attenzione verso il valore “cultuale” di questa.

Il rischio è, allora, che in questo corpo a corpo tra libertà e restrizioni si perda di vista l’unica cosa importante, il fatto che i nostri beni culturali e le loro immagini possano diventare un immenso archivio della conoscenza. D’altronde Michel Foucault, nel suo celebre saggio L’archeologia del sapere, definisce l’archivio uno spazio teorico in cui i documenti, e di conseguenza anche le immagini dei beni culturali, possano acquistare un nuovo significato e diventare monumenti. Un archivio che però deve essere in grado di educare alle immagini e non soltanto di immetterle nel word wide web o sulle pagine di una rivista. Ma i monumenti vivono se esiste una coscienza critica collettiva in grado di dialogare e confrontarsi con essi. Per questo motivo, a mio avviso, le nostre istituzioni, il museo, la scuola, tutti gli spazi dedicati alla cultura e alla conoscenza, devono agire come strutture educative in grado di generare conoscenza e di creare una coscienza critica sull’utilizzo delle immagini dei nostri beni culturali con coscienza critica.

Più che una risposta agli interrogativi su questo complesso dibattito tra diritti e leggi, tra apertura e chiusura, la mia vuole essere una esortazione a ragionare sul significato dell’arte e delle divulgazione e promozione delle sue immagini. L’arte, ci ha insegnato Paul Klee nella sua Teoria della forma e della figurazione,non ripete le cose visibili, ma rende visibile”. È proprio questa apertura al visibile il principio sul quale basare oggi le riflessioni critiche attorno all’arte e alle sue riproduzioni, il luogo d’indagine che, in contrapposizione al concetto di “iconoclastia moderna” espressa da Baudrillard, permette di lanciarsi oltre l’immagine, di studiarla, decostruirla e ricostruirla in una dimensione di conoscenza, di vedere, o meglio di “sapere l’immagine”, Wisse das Bild diceva Rainer Maria Rilke nei Sonetti a Orfeo.

Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 20 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte on paper. Clicca qui per abbonarti.


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L'autrice di questo articolo: Annamaria Mauro

Annamaria Mauro è direttrice del Museo Nazionale di Matera.



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