Per una ricollocazione di Giacomo Cipper, pittore della realtà. Com'è la mostra di Trento


La mostra “Il teatro del quotidiano” al Castello del Buonconsiglio di Trento è la prima monografica italiana dedicata a Giacomo Francesco Cipper, pittore a lungo bastonato dalla critica novecentesca. La rassegna è un’occasione per una sua ricollocazione critica. La recensione di Federico Giannini.

Chiunque s’aggiri per le sale della grande mostra che il Castello del Buonconsiglio di Trento dedica a Giacomo Francesco Cipper non potrà far a meno di notare una certa insistenza sugli oggetti e una certa insistenza sui sorrisi. È forse l’assioma che risulta più evidente, dall’inizio alla fine della rassegna curata da Maria Silvia Proni e Denis Ton, la prima monografica italiana su Cipper (sebbene non si tratti d’un debutto: la prima e anche ultima mostra sul pittore austriaco fu Autour de Giacomo Francesco Cipper, che venne organizzata nel 2005 a Le Havre, Francia). Oggetti, intanto: nei dipinti di Cipper si trova di tutto. Piatti, violini, vassoi, formaggi, ceste, forbici, tenaglie, rosarî, rasoi, pagnotte, frutta, verdura, ghironde, coltelli, savoiardi, brocche, bacili, barili, cucchiai, chitarre, bicchieri, bilance, nasse, spartiti, spugne, fogli, bussolotti, nastri. Un’indagine minuziosa, maniacale, quasi ossessiva per gli oggetti. Non è difficile comprendere perché: gli oggetti di tutti i giorni erano tutto ciò che i poveri avevano. Ma l’ossessione per gli oggetti, nella pittura di Cipper, è anche indice d’un’esuberanza che era sconosciuta a un Giacomo Ceruti, ovvero al più grande pittore della realtà del Settecento, è sintomo d’un gusto per il vero ch’è così vero da farsi quasi commedia (“Il teatro del quotidiano” è del resto anche il titolo della mostra), e gli strumenti dei poveri finiscono per trasmutare in oggetti di scena. La vita della Lombardia del primo Settecento prende le forme dell’attrezzario del quotidiano, s’esprime attraverso quello che i poveri di trecento anni fa usavano per lavorare più o meno lecitamente, per mangiare, per procurarsi da mangiare, per divertirsi e poco altro. Di sicuro non per sognare: l’immobilismo sociale era principio immutabile, asserto fondamentale dell’Italia del tempo, e non solo dell’Italia.

La stragrande maggioranza delle persone nasceva povera e moriva povera. “Poveri” va inteso poi con accezione un poco più larga rispetto a come intendiamo il termine oggi, ma anche rispetto alla figura del povero del Sei e del Settecento che s’è sedimentata nella nostra immaginazione: poveri non erano solo i mendicanti che, per malattia o inabilità, non potevano lavorare e vivevano di quello che raccoglievano per strada. E non erano neanche soltanto i poveri considerati indegni, ovvero tutti quelli che non avevano voglia di lavorare e vivevano d’espedienti, categoria per la quale tutta la letteratura, la politica e la pubblicistica del tempo nutrivano il più vivido disprezzo. La situazione, spiega la studiosa Marina Garbellotti nel suo appassionante saggio sul catalogo della mostra, era decisamente più complessa.

Giacomo Francesco Cipper ci porta per le strade delle città lombarde del primo Settecento e ci aiuta a capire che la povertà riguardava non solo chi chiedeva l’elemosina agli angoli delle strade. Nei suoi dipinti ci sono donne e uomini consumati da una vecchiaia precoce, vestiti di stracci, di abiti logori, seduti scalzi davanti a tavolacci usurati fino al limite della praticabilità, eppure spesso in grado d’ostentare abbondanza di cibarie invitanti e succulente, floridissima copia di frutti della terra, cacciagione, pescato di grosso calibro, pollame, frutta fresca, così tante verdure che alle volte si fatica a riconoscerle. La povertà era uno stato, si potrebbe dire. Uno stato nel quale si trovava la gran parte delle persone: ai poveri “strutturali”, li chiama Marina Garbellotti, vanno aggiunti tutti quei lavoratori che, diremmo oggi, vivevano ai margini della soglia di povertà. C’era chi, intanto, pur lavorando non riusciva a garantire un decoroso sostentamento alla propria famiglia. E c’era chi invece ci riusciva ma rischiava. Contadini, piccoli artigiani, pescatori, arrotini, calzolai, sarti, barbieri, bottegai e bancarellai d’ogni ordine, venditori ambulanti, anche impiegati di primo livello. Non avevano le risorse per campare nel lusso, ma riuscivano comunque a combinare i pranzi con le cene, a dar da mangiare a famiglie anche numerose (anche perché all’epoca si cominciava a lavorare presto: dagli otto-nove anni d’età s’era considerati abili al lavoro), a trascorrere un’esistenza tutto sommato tranquilla. Erano però i primi a subire gli effetti delle carestie, delle crisi, dei periodi di scarsità. Non molto diversamente da oggi, si direbbe: il problema è che all’epoca occorreva più tempo di adesso per uscire dalle crisi, non esisteva alcuna forma di stato sociale, non esisteva alcuna forma di welfare, e per uscire da una congiuntura sfavorevole era obbligatorio inventarsi qualcosa, ragione per cui tanti, già all’epoca, migravano di città in città, spesso ingrossando le fila dei poveri che stazionavano nelle aree metropolitane. Al più, si poteva ricorrere agl’istituti caritatevoli che s’inoltravano laddove lo Stato del Sei e del Settecento non arrivava. Ma non sono questi i poveri che interessano a Cipper: il pittore austriaco non entra negl’istituti di carità, e persino i mendicanti sono soggetto marginale nella sua produzione. I suoi dipinti sono per la più parte popolati di poveri in grado di provvedere a se stessi, tutti, o quasi tutti, ben forniti di adeguati mezzi di sussistenza. Non è però questa la ragione per cui nell’arte di Cipper tutti sorridono, mendicanti inclusi.

Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper
Allestimenti della mostra Il teatro del quotidiano. Giacomo Francesco Cipper

Sorride persino il pittore, colto mentre dipinge, nelle prime tele che il visitatore incontra lungo l’itinerario di visita: forse autoritratti, dato che il pittore è sempre lo stesso. Sorride fino a mostrare i denti, e talvolta il sorriso diventa risata rozza e sguaiata: lo si vede subito in uno dei primi dipinti della mostra, la Vecchia filatrice e giocatori di carte, composizione peraltro ripetuta, ma più in grande, per il Il mercato di pesce e verdure della galleria antiquaria Canesso di Parigi (non era raro che Cipper riprendesse le proprie invenzioni o che includesse motivi già sperimentati in scene di più largo respiro: se ne ha subito un saggio col Pranzo della domenica con giovane flautista nel quale l’artista include la Giovanetta con ciotola esposta a fianco). Cipper però non era anticipatore d’un’abitudine nata nel Novecento, quella di sorridere davanti a chi sta fissando la tua immagine su di un supporto, sia un pittore o, com’è oggi più probabile, un fotografo, anche improvvisato. Prima, sorridere davanti a un obiettivo o davanti a un pittore era ritenuto disdicevole, e Cipper non era un’eccezione: era tutto fuorché un artista spinto dall’idea di rompere una convenzione. Giovanni Paolo Lomazzo, altro grande lombardo, aveva dedicato un intero capitolo alle “allegrezze” e ai “risi” nel suo trattato sulla pittura. Il riso era associato allo schiamazzo, e lo schiamazzo alle situazioni in grado di provocarlo: “lo scherzare, lo stuzzicare”, “certe cose atte per sua natura a muovere il riso a chiunque le guarda”. Lomazzo voleva esser chiaro nel ribadire che il dipinto doveva presentare un contesto narrativo adeguato a giustificare sorrisi e risate, perché “se si vedesse alcuno far festa e ridere senza causa, certo che sarebbe una pazzia da bastonare”, ragione per la quale “bisogna porre le cause principalmente del riso et esprimerle in modo tale che i riguardanti si muovano a riso guardandola”. Sta in questo passaggio del trattato di Lomazzo la ragione di tante risate: il riguardante deve divertirsi, e anche la risata, per la mentalità del tempo, è risorsa in grado d’attivare il comico. Il pittore è in grado d’indurre al riso chi osserva i suoi quadri se è in grado di mostrare “volti spensierati, rivolti chi all’insù e chi per fianco, et altri in altre maniere che di rincontro guardandosi ridano et smascellino, mostrando i denti, aprendo sconciamente la bocca in nuovo et diverso atto di ridere, allargando le narici, et nascondendo gli occhi nel capo, onde si veggono rossi, incostanti, volubili, inconsiderati et posti a caso, come avviene in tali occorrenze”. I personaggi di Cipper ridono perché devono far ridere: l’austriaco non inventava alcunché di nuovo. Ci si fa caso perché è forse il primo artista di cui s’è conservata una così abbondante produzione di soggetti che ridono, ma era stato ampiamente preceduto: il Cinquecento lombardo è stracolmo di personaggi grotteschi che ridono e sorridono.

Ed è in questo fertile humus che occorre trovare i precedenti di Giacomo Francesco Cipper. Non sappiamo alcunché dei primi anni della sua vita, dunque non sappiamo dove si sia formato, con chi abbia studiato, a quali modelli abbia guardato, anche se non è difficile pensare che sugl’interessi dell’austriaco abbiano pesato certe incisioni di soggetto popolaresco d’ambito olandese (su tutte, quelle di Adriaen van Ostade: sui rapporti tra Cipper e l’incisione interviene nel catalogo della mostra un approfondito saggio di Roberta D’Adda), oltre che un certo filone della pittura lombarda particolarmente incline all’indagine realistica. Vincenzo Campi, per dire, dipingeva i Mangiatori di ricotta ottant’anni prima che Cipper nascesse. I riferimenti dell’austriaco vanno forse cercati a Cremona e dintorni, tra le opere di Campi, quelle di Sofonisba Anguissola, o in mezzo a certe cose di Panfilo Nuvolone (col quale Cipper in passato è stato equivocato: per lungo tempo, l’austriaco è rimasto un punto interrogativo per la critica), oppure in mezzo ai bresciani come il Moretto e il Romanino che precorsero lo stesso Caravaggio, o ancora tra i naturamortisti à la Fede Galizia o à la Ambrogio Figino che s’inventarono un genere senza che ancor oggi sia ben chiaro dov’è che la natura morta lombarda di fine Cinquecento debba affondare le radici. Si colloca, del resto, nel filone di quest’ultima tradizione l’accattivante natura morta, esposta sempre nella prima sala, ch’è a oggi la più antica opera firmata e datata di Cipper, recante iscrizione con data 1700.

Cipper viene subito presentato come il pittore della realtà, come il pittore del quotidiano, come acuto osservatore d’un’umanità varia e sempre ai margini, come un commediante che s’aggira per le campagne e le città della Lombardia in cerca di soggetti in grado di suscitare il riso, come nome di spicco d’un gruppo che include pittori eccellenti quali Felice Boselli, Eberhard Keilhau, Antonio Cifrondi, Giacomo Ceruti, Ulrich Glantschnigg, alcuni pure distanti nel tempo (Keilhau morì prima ancora che Ceruti nascesse, per dire), tutti rappresentati in mostra per far emergere affinità e divergenze tra i varî modi d’operare: la materia densa, pastosa, grassa e contadina dell’emiliano Boselli, gl’intenti quasi documentaristici dell’altoatesino Glantschnigg, le scene ancora venate di caravaggismo del danese-romano Keilhau, la malinconica compostezza di Ceruti che diventa apparente empatia, e via dicendo. Cipper è sempre stato considerato il più chiassoso e screanzato del gruppo. Non a torto se vogliamo, e in mostra, nella sala che mette intelligentemente tutti a confronto, appare fin troppo chiaro: si guardino, per esempio, il Desco familiare col suo allegro disordine, la Coppia di anziani dove i curatori vedono anche allusioni erotiche, o l’Interno domestico con coppia di anziani dove un ragazzo ruba i biscotti al vecchio che viene imboccato dalla moglie. Tuttavia, questo eccesso di giovialità è stato spesso male interpretato, e ha pesato in negativo sulla fortuna critica di Cipper, specialmente laddove si ponesse la necessità di metterlo a confronto con Ceruti. Ovvero quasi sempre. Rimane scolpita nella storiografia la stroncatura, violenta, di Giovanni Testori: “brutto pittore e, ciò che non ammette perdono, pessimo uomo”. La critica del Novecento non è mai stata benevola con Cipper (neppure, verrebbe da dire, nell’affibbiargli l’atroce soprannome “Todeschini”, invenzione recente che si spera venga del tutto dismessa a partire dalla mostra trentina). S’è voluto leggere nella sua schiettezza, talora grottesca e alle volte quasi caricaturale, una forma di disprezzo per i poveri che l’artista dipingeva e indagava, la festosità dei suoi testi figurativi è stata fraintesa ed è stata interpretata come scherno e motteggio. Non più, certo, di quanto sia stata fraintesa la delicatezza di Ceruti, ritenuta troppo a lungo un’anacronistica forma d’affettuosa partecipazione, col risultato che s’è ecceduto nell’uno e nell’altro verso, magnificando Ceruti (o, meglio, attribuendogli pulsioni pre-illuministe che sicuramente non aveva, e questo anche perché, sottolinea Denis Ton in catalogo, c’era da costruire un mito attorno a Ceruti, elevandone “al massimo grado l’importanza e l’alterità rispetto al contesto che lo circonda, sia tra quanti si fossero dedicati alla pittura di realtà, sia tra gli artisti versati in altri generi”) e, di rimando, bastonando Cipper, bollandolo come pittore volgare fin quasi a lambire il razzismo (“razzismo” non è parola scelta a caso: la adopera Testori nella sua stroncatura).

Giacomo Francesco Cipper, Il pittore nel suo studio (olio su tela, 91 x 72 cm; Dijon, Musée des Beaux-Arts)
Giacomo Francesco Cipper, Il pittore nel suo studio (olio su tela, 91 x 72 cm; Dijon, Musée des Beaux-Arts)
Giacomo Francesco Cipper, Vecchia filatrice e giocatori di carte (olio su tela, 93 x 119 cm; Collezione privata)
Giacomo Francesco Cipper, Vecchia filatrice e giocatori di carte (olio su tela, 93 x 119 cm; Collezione privata)
Giacomo Francesco Cipper, Il mercato di pesce e verdure con donna che fila, giovane pescivendolo e giocatori di carte (olio su tela, 175 x 234 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Il mercato di pesce e verdure con donna che fila, giovane pescivendolo e giocatori di carte (olio su tela, 175 x 234 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Pranzo della domenica con giovane flautista (olio su tela, 144 x 114 cm; Collezione privata, su concessione di Galerie Canesso, Parigi)
Giacomo Francesco Cipper, Pranzo della domenica con giovane flautista (olio su tela, 144 x 114 cm; Collezione privata, su concessione di Galerie Canesso, Parigi)
Giacomo Francesco Cipper, Natura morta con piatto di olive, fichi, formaggi, sedani e bottiglia di vino (1700; olio su tela, 49,5 x 75,5 cm; Collezione privata, su concessione di Matteo Salamon, Milano)
Giacomo Francesco Cipper, Natura morta con piatto di olive, fichi, formaggi, sedani e bottiglia di vino (1700; olio su tela, 49,5 x 75,5 cm; Collezione privata, su concessione di Matteo Salamon, Milano)
Giacomo Francesco Cipper, Desco familiare (olio su tela, 125 x 142 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Desco familiare (olio su tela, 125 x 142 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Pasto di vecchi contadini (olio su tela, 102 x 168 cm; Budapest, Nemzeti Örökségvédelmi Fejlesztési Nonprofit Kft)
Giacomo Francesco Cipper, Pasto di vecchi contadini (olio su tela, 102 x 168 cm; Budapest, Nemzeti Örökségvédelmi Fejlesztési Nonprofit Kft)

La differenza tra i due, tuttavia, non risiede nella loro postura morale nei riguardi dei soggetti raffiguranti, anche perché entrambi dipingevano per lo stesso destinatario, ovvero la classe dirigente del loro tempo, classe dirigente il cui gusto, per qualche decennio, s’è indirizzato verso le scene di genere che portavano nelle case di chi poteva permettersi di pagare un Ceruti o un Cipper quello che, avrebbe detto Salvator Rosa, disprezzavano vivo e amavano dipinto. Sui clienti di Ceruti sappiamo più e meglio, e probabilmente erano clienti più sofisticati, più facoltosi e meglio posizionati rispetto a quelli di Cipper, ma l’assunto di fondo non cambia: nessuno dei due, ci sentiamo di dire, era mosso da propositi di denuncia sociale. I poveri dipinti, semmai, rispondevano più a intenti allegorici o moraleggianti: si vedano in mostra, per esempio, Il venditore ambulante di nastri, dove lo sprovveduto venditore subisce un raggiro a opera di quattro zingari, la Scena di tavola imbandita che forse allude al tema dei cinque sensi, o ancora L’arrotino e la zingara che vuole porre il riguardante dinnanzi alla scelta tra un lavoro onesto e una vita d’espedienti, giudicata immeritevole secondo i parametri del tempo. Ma lo stesso ragionamento si potrebbe applicare a tutti i dipinti esposti. La differenza che separa Ceruti e Cipper risiede piuttosto nello sguardo che ognuno di loro rivolgeva ai poveri, uno sguardo che rispondeva a una personale inclinazione, a un sentimento. Di conseguenza, ancor oggi l’esegesi più puntuale e ficcante rimane probabilmente quella di Giorgio Manganelli che nel 1987 recensiva sul Messaggero la grande mostra di Ceruti curata da Mina Gregori nelle sale del Museo Santa Giulia di Brescia: “Ai miei occhi poveri, i pitocchi del Ceruti sono un registro retorico, una scelta di linguaggio, e quella scelta, se devo essere chiaro, nasce non già da amore cristiano, ma da assoluta indifferenza morale, da una splendida e torva passione pittorica. Al Ceruti servivano i pitocchi, perché erano loro i guardiani dei colori affranti, macerati, i potenti, i sovrani della decomposizione, del disfacimento, del deciduo, dell’intristito; ed ecco fiorire, come splendide piaghe, i bigi, i marroni, certi grigi consunti, che sono tutti non già indizi di amore per la povertà, ma di amore alla ricchezza dei colori che grazie alla oculata coltivazione della miseria sono catturati e adoperabili”. E l’altra grande mostra su Ceruti, quella di due anni fa sempre al Santa Giulia di Brescia, ha dato piena contezza dell’idea d’una pittura dei poveri composti e delicati come “marchio di fabbrica”, scrivevo all’epoca, di Giacomo Ceruti: un marchio poi completamente abbandonato quando le mutate esigenze del gusto hanno orientato altrove le sue ricerche. Anche per Cipper si può immaginare qualcosa del genere. La sua vecchia che si scalda le mani davanti al braciere, personaggio invero ricorrente nella sua produzione (il visitatore se ne può avvedere in mostra, guardando la Vecchia davanti al braciere che arriva quasi alla fine del percorso, e confrontandola con quella, identica, della Scena familiare dei Musei Civici di Treviso, o con L’estrazione della pietra della follia di qualche sala prima, dove un’altra donna, di poco più giovane, compare nella stessa posa), non è figura che nasce da un moto di compassione del pittore: semmai, più verosimilmente, è un motivo da repertorio, è elemento che dona equilibrio a una composizione, è soggetto al cospetto del quale l’artista può ostentare destrezza nel suo indugiare sulle rughe del volto, sulla pelle delle mani, sulle scintille dei carboni, sugli effetti di luce che ravvivano le vesti logore, sulla posa difficile della vecchia ch’è sempre raffigurata di spalle e colta mentre si gira per controllare chi arriva dietro di lei.

Non dunque nei termini d’una più o meno sentita immedesimazione è da risolvere il complesso d’inferiorità che la critica di Cipper ha sempre avvertito nei riguardi di Ceruti (uno degli obiettivi della mostra sembra essere proprio la ricollocazione critica dell’austriaco anche, e forse soprattutto, rispetto al suo erede milanese): è diversità di sguardo. O, se proprio ci si vuole allontanare da una lettura puramente formale, è tutt’al più diversità d’indole. In Ceruti è dato vedere, scrive Maria Silvia Proni, “un autore dal temperamento incline alle depressione, pronto a vestire delle proprie emozioni – costanti in caratteri depressi – un vagabondo, un ciabattino, un portarolo”. Per Cipper si potrebbe avanzare lo stesso ragionamento: una natura più ilare che si riversa sui personaggi.

È peraltro, quella di Cipper, una pittura che conosce pochi cambiamenti per tutto il corso della sua carriera, situazione che ha comportato nel tempo anche qualche difficoltà nel ricostruire il suo percorso artistico, e che ha indotto alla scelta d’organizzare per temi la mostra al Castello del Buonconsiglio. È pittura che si mantiene fedele a se stessa, pur conoscendo alti e bassi, ma che non è comunque aliena a certi brani di virtuosismo: spicca, per esempio, la piccola Filatrice ch’è forse l’esito più alto dell’attenzione di Cipper per il vero (“la posa studiata”, scrive Denis Ton, “sembra pensata soprattutto per mostrare lo splendido brano delle vesti stracciate, da mendicante: un passaggio di natura morta da vero specialista, occasione per un exploit virtuosistico di resa mimetica dal vero”), oppure la Vecchia che fila con ragazzino e scodella che al Buonconsiglio gli sta esposta a fianco, opera in cui l’artista austriaco indugia come al solito sugli oggetti, sulla mela, sulla pagnotta, sulla scodella, sui riflessi di luce che ravvivano il grembiule logoro della filatrice, fino al punto di profondere più impegno sugli stessi oggetti che sulle espressioni dei due personaggi. C’è discontinuità, verrebbe da pensare, anche nella relazione coi soggetti: probabilmente, chi in passato avesse visto soltanto certi ritratti di poveri di Cipper, come la succitata Filatrice o anche la Licenza di mendicità, ritratto d’una mendicante ch’esibisce il proprio permesso per chiedere l’elemosina (all’epoca chi volesse esercitare quest’attività poteva farlo solo a fronte d’una regolare licenza rilasciata dalle autorità), non sarebbe arrivato ad accusare l’artista di eccesso di sguaiataggine, di scompostezza, di scurrilità. Cipper, in sostanza, pare usare un poco più d’indulgenza, se così si può dire, laddove si trovi a dover raffigurare dei soggetti singoli (o scene con pochi personaggi, due o tre al massimo), che i curatori hanno raggruppato per lo più in chiusura di percorso: mirabili sono il Muratore, esposto a fianco d’uno spadino giunto in prestito dal Museo dell’Arte Marziale di Botticino in quanto arma pressoché identica a quella raffigurata nel dipinto (il personaggio raffigurato era evidentemente un reduce che aveva dovuto reinventarsi), e l’Anziana cieca con bussolotto e due giovani dispettosi, dove la composta vecchia che chiede l’elemosina, uno dei personaggi più dignitosi e severi dell’intera produzione di Cipper, diviene facile preda della vigliaccheria dei due ragazzi, due giovani benestanti annoiati (lo si nota perché vestiti bene, o quanto meno senza gli abiti rattoppati che abbondano nei dipinti di Cipper). Viceversa, nelle scene che coinvolgono più figure, può capitare d’assistere a ogni sorta d’abbandono, dai bambini che si strafogano di meloni (Scena di mercato con mamma che allatta) fino alle furibonde scazzottate comprensive di morsi (Rissa tra donne, Tavola imbandita).

Giacomo Francesco Cipper, Il venditore ambulante di nastri (olio su tela, 120 x 145 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Il venditore ambulante di nastri (olio su tela, 120 x 145 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, L'arrotino e la zingara (olio su tela, 226 x 180 cm; Graz, Universalmuseum Joanneum, Alte Galerie)
Giacomo Francesco Cipper, L’arrotino e la zingara (olio su tela, 226 x 180 cm; Graz, Universalmuseum Joanneum, Alte Galerie)
Giacomo Francesco Cipper, Scena di tavola imbandita (olio su tela, 179 x 239 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Scena di tavola imbandita (olio su tela, 179 x 239 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Vecchia davanti al braciere (olio su tela, 74 x 58,5 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Vecchia davanti al braciere (olio su tela, 74 x 58,5 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Scena familiare (olio su tela, 119 x 147,5 cm; Treviso, Musei Civici)
Giacomo Francesco Cipper, Scena familiare (olio su tela, 119 x 147,5 cm; Treviso, Musei Civici)
Giacomo Francesco Cipper, La filatrice (olio su tela, 74 x 59,5 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
Giacomo Francesco Cipper, La filatrice (olio su tela, 74 x 59,5 cm; Madrid, Museo Nacional del Prado)
Giacomo Francesco Cipper, Il muratore (olio su tela, 116 x 143 cm; Orléans, Musée des Beaux-Arts)
Giacomo Francesco Cipper, Il muratore (olio su tela, 116 x 143 cm; Orléans, Musée des Beaux-Arts)
Giacomo Francesco Cipper, Anziana cieca con bussolotto e due giovani dispettosi (olio su tela, 120 x 93 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Anziana cieca con bussolotto e due giovani dispettosi (olio su tela, 120 x 93 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Scena di mercato con mamma che allatta, ortolana con cesta di pesche, ragazzi con meloni, giovanetto con cesta di pesci e acquirente (olio su tela, 178 x 235 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)
Giacomo Francesco Cipper, Scena di mercato con mamma che allatta, ortolana con cesta di pesche, ragazzi con meloni, giovanetto con cesta di pesci e acquirente (olio su tela, 178 x 235 cm; Collezione Gastaldi Rotelli)

Sono queste le scene che sono costate la condanna a Giacomo Francesco Cipper. Una condanna sancita anche dal paragone con Ceruti, artista che, malgrado i confronti in mostra e malgrado una tenzone costante con Cipper, soprattutto in catalogo, appare capace d’una tenuta più elevata e d’una versatilità che all’austriaco Cipper era del tutto sconosciuta. C’è però da dire che i confronti continui tra i due sono ben funzionali alla riconsiderazione di Cipper, che esce della mostra del Buonconsiglio sicuramente rivalutato, capace di ritrovare la propria dimensione di pittore della realtà, riscattato dal naufragio nel grosso mare della pittura di genere che tanti praticavano al tempo: i curatori intendono attribuire a Cipper una propensione all’indagine, un’esattezza, un’attenzione alla realtà sociale dei poveri, un’analisi dei loro contesti di vita che andavano oltre la pittura fatta per divertire, per sollazzare i clienti che ai poveri probabilmente s’accostavano solo se li vedevano dipinti. La mostra intende dunque attribuire a Cipper il ruolo d’esploratore della povertà, di acuto investigatore della realtà dei margini, ma non solo: i curatori intendono anche ritagliare per Cipper il ruolo di pioniere, di antesignano, di anticipatore della grande pittura di realtà di Ceruti.

L’operazione pare essere riuscita, e Cipper risulta sicuramente ricollocato: merito soprattutto di un nucleo di alto livello (sulla fortuna critica di Cipper ha pesato come un macigno anche la vasta schiera d’imitatori scadenti che ne hanno confuso il catalogo: a Trento ci sono soltanto opere di qualità), e di una pratica ch’è sempre meno frequente trovare oggi nella mostra monografica, ovvero la ricostruzione del contesto, che invece al Buonconsiglio è piena, aperta, approfondita, intelligente, così come approfondito e intelligente è il catalogo che lascia forse meno spazio alla ricostruzione del profilo formale dell’artista per concentrarsi di più, da una parte, sul suo riposizionamento critico, e dall’altra sull’analisi dei contesti sociali, tratto comune, quest’ultimo, a diverse mostre sui pittori della realtà, che soprattutto per il grande pubblico si configurano spesso come viaggi nel tempo dentro una società che non è spesso dato veder raffigurata su tela, e soprattutto ch’è difficile vedere indagata con tanta minuzia e presentata a noi osservatori del XXI secolo con tanta abbondanza. Anche il pubblico dei non addetti ai lavori, dunque, a Trento ha di che divertirsi, anzi: il percorso espositivo offre preziosi apparati divulgativi. Quanto a Cipper, comunque si voglia considerare la sua pittura, e a prescindere dal paragone con Ceruti, difficilmente si può evitare di riconoscere all’austriaco una sensibilità nuova, forse non ancora del tutto compiuta (tra lui e il più giovane lombardo ci son pur sempre trent’anni di differenza) ma comunque collocata su di una linea nuova, una linea che divergeva dalla pittura di genere che guardava ancora ai modi dei caravaggeschi (i confronti in mostra aiutano a farsi un’idea: quelli con Eberhard Keilhau, per esempio, ovvero con un pittore situato a metà strada, o ancor più il paragone col “Maestro VH”, il più caravaggesco della mostra, artista anonimo che peraltro, proprio in occasione della mostra trentina, la curatrice Proni propone d’identificare col fiammingo Joost van de Hamme) e che avrebbe indirizzato i pittori venuti dopo di lui verso un naturalismo più profondo, più minuzioso, più attento. Cipper a Trento ha ritrovato la sua dignità.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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