Artemisia Gentileschi a Napoli: ecco com'è la mostra sul periodo napoletano dell'artista


Recensione della mostra “Artemisia Gentileschi a Napoli”, a cura di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio (Napoli, Gallerie d’Italia, dal 3 dicembre 2022 al 19 marzo 2023)

Le Gallerie d’Italia di Napoli hanno inaugurato la storia espositiva della nuova sede di Palazzo del Banco, nella centralissima via Toledo, con una mostra dedicata al periodo napoletano di Artemisia Gentileschi, che si concentra quindi sulle opere che la pittrice realizzò nella città tra il 1630 e il 1654, anni della sua ultima produzione finora poco indagati. Artemisia Gentileschi a Napoli, questo il titolo dell’esposizione, si propone come continuazione della prima mostra monografica nel Regno Unito che la National Gallery di Londra ha dedicato nel 2020 ad Artemisia, illustrando la produzione dell’artista dai suoi esordi romani fino all’ultimo periodo napoletano e dando particolare rilievo all’Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria acquistato dal museo londinese nel 2018. Grazie alla collaborazione tra la National Gallery e le Gallerie d’Italia e grazie a Gabriele Finaldi come special advisor, la mostra di via Toledo, a cura di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio, vuole riprendere la narrazione della carriera di Artemisia proprio dal punto in cui si concludeva la mostra londinese, ovvero il suo lungo soggiorno nella capitale del viceregno spagnolo, interrotto solo da un viaggio a Londra tra il 1638 e il 1640 dove viveva il padre Orazio.

Il percorso si sviluppa in un unico spazio espositivo dominato prima dal nero e poi dal rosso, su cui si stagliano i capolavori esposti, creando attraverso una suggestiva ed evocativa illuminazione effetti di chiaroscuro che immergono il visitatore nelle atmosfere secentesche e teatrali. Lo sviluppo in un unico spazio espositivo è reso possibile dalla scelta di presentare un numero abbastanza contenuto di opere, circa cinquanta in totale, di cui una ventina realizzate dalla pittrice, mentre le altre da artisti per la maggior parte attivi a Napoli nello stesso periodo e a lei strettamente legati, come Massimo Stanzione, Paolo Finoglio, Francesco Guarino, Andrea Vaccaro, Bernardo Cavallino e “Annella” Di Rosa, la maggiore artista napoletana della prima metà del Seicento. Opere provenienti da importanti istituzioni napoletane, quali il Museo e Real Bosco di Capodimonte, l’Archivio di Stato e l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, dalle raccolre di Intesa Sanpaolo, ma anche da prestigiose sedi museali nazionali, come la Pinacoteca di Bologna, e internazionali, come la National Gallery di Londra, il Nasjonalmuseet di Oslo, il Nationalmuseum di Stoccolma e la National Gallery of Art di Washington.

Allestimenti della mostra Artemisia Gentileschi a Napoli
Allestimenti della mostra Artemisia Gentileschi a Napoli
Allestimenti della mostra Artemisia Gentileschi a Napoli
Allestimenti della mostra Artemisia Gentileschi a Napoli
Allestimenti della mostra Artemisia Gentileschi a Napoli
Allestimenti della mostra Artemisia Gentileschi a Napoli

La mostra prende il via da tre “contenitori” al centro della sala e parte proprio dall’Autoritratto acquisito dalla National Gallery di Londra, per la prima volta esposto in Italia, creando così attraverso il capolavoro un ponte tra la grande esposizione londinese del 2020 e l’attuale esposizione napoletana in corso fino al 20 marzo 2023. Nell’Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria, realizzato probabilmente poco dopo l’arrivo a Firenze (nel 1616 divenne membro dell’Accademia delle Arti del Disegno e fu una delle prime donne a entrarvi), Artemisia presta i propri lineamenti alla santa martire; il dipinto risale all’incirca allo stesso periodo dell’Autoritratto come suonatrice di liuto del Wadsworth Atheneum di Hartford e della Santa Caterina d’Alessandria delle Gallerie degli Uffizi, poiché analisi ai raggi X del dipinto degli Uffizi hanno rivelato la presenza di una figura con turbante sotto l’immagine di santa Caterina quasi identica a quella dell’Autoritratto della National Gallery.

In un altro “contenitore” è stato poi ricostruito parzialmente il ciclo di tele con Cristo e i dodici apostoli commissionato a Roma per la sala capitolare della certosa di Siviglia dal duca di Alcalá Fernando Afán de Ribera III, viceré di Napoli dal 1629. Oggi disperso e solo recentemente ricomposto nella sua interezza a partire da copie conservate in Spagna, il ciclo venne realizzato tra il 1625 e il 1626: al centro vi era il dipinto visibile in mostra che raffigura Gesù che benedice i fanciulli realizzato nel 1626 da Artemisia, dipinto che esortava i monaci ad agire con fede, correttezza e umiltà, mentre attorno figure di apostoli erano state compiute da artisti quali Giovanni Baglione, Battistello Caracciolo e Guido Reni. Sono qui esposti tre originali ritrovati: il sant’Andrea di Caracciolo, il san Giacomo Maggiore di Reni, il san Giacomo Minore di Baglione. Si propone quindi un confronto tra la pittrice e gli artisti che parteciparono al ciclo, legati anche alla città di Roma. Inoltre nella stessa sala è stata collocata l’unica opera presente in mostra di Orazio Gentileschi: un Cristo e la samaritana al pozzo, restaurato in occasione della mostra per comprenderne l’indubbia qualità artistica, che proviene dalle collezioni reali spagnole e che in passato era stato attribuito a Massimo Stanzione, ma in cui in realtà si ritrovano, come scrive Carmen García-Frías Checa nella scheda del catalogo, “la solidità dei modelli, i contrasti cromatici dei colori chiari e il linguaggio delle mani tipici della produzione romana di Gentileschi del periodo compreso tra il 1606 e il 1612, quando la lezione caravaggesca risultava ormai assimilata”. Questo costituisce comunque l’unico confronto padre-figlia in mostra.

Si prosegue poi con tre opere, di cui due dipinti e un’incisione, che intendono mostrare una certa iconografia di Artemisia, figura femminile dallo sguardo fiero e dalla capigliatura ribelle, ben inserita nella società colta del tempo, e pittrice affermata che era riuscita a emanciparsi dal ruolo subalterno a cui erano soggiogate le donne. Ecco che la vediamo qui nell’Autoritratto come allegoria della pittura di Palazzo Barberini mentre sta dipingendo il volto di un gentiluomo con i baffetti alla moschettiera, che Francesco Solinas ha proposto di identificare con Francesco Maria Maringhi, amante fiorentino della pittrice, secondo il carteggio da lui ritrovato negli archivi di Casa Frescobaldi assieme a Michele Nicolaci e a Yuri Primarosa. E in Clio musa della Storia, dipinto della Fondazione Pisa di Palazzo Blu, firmato e datato 1632, con cui la pittrice intendeva non solo mantenere vivo il suo ricordo tra i cortigiani medicei, ma rivendicare allo stesso tempo il proprio ruolo nella Storia. L’incisione del francese Jérôme David invece è stata eseguita dopo il 1626 (anno di fondazione dell’Accademia letteraria romana dei Desiosi di cui ella faceva parte) partendo da un autoritratto perduto: seppur di una mano ancora inesperta, fissa i tratti caratteristici di Artemisia come genio della pittura e conferma lo status di artista e letterata da lei rivendicato e ribadito dal motto latino iscritto sotto il ritratto (“miracolo in pittura, più facile da invidiare che da imitare”), attribuibile, secondo Plinio, al pittore greco Zeusi. Si espongono infine due documenti, frutto di un’ampia ricerca archivistica, svolta in occasione della mostra, per un aggiornamento degli studi sulla pittrice, che hanno consentito di acquisire nuovi dati sulla sua biografia, tra cui l’arrivo di Artemisia a Napoli, nel 1630, direttamente da Venezia, i suoi ultimi anni dominati dalle difficoltà economiche, la vicenda privata relativa al concubinato della figlia Prudenzia Palmira e al matrimonio riparatore seguito alla nascita del nipote Biagio, ma anche della sua produzione artistica, come il ruolo della committenza vicereale e borghese. I due documenti esposti riguardano una supplica di Artemisia per bloccare un pagamento e l’unione riparatrice tra la figlia Prudenzia e Antonio De Napoli.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria (1615-1617; olio su tela, 71,5 × 69 cm; Londra, The National Gallery)
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria (1615-1617; olio su tela, 71,5 × 69 cm; Londra, The National Gallery)
Artemisia Gentileschi, Cristo benedice i fanciulli (Sinite parvulos) (1626; olio su tela, 134 x 97 cm; Roma, Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo della Nazione Lombarda)
Artemisia Gentileschi, Cristo benedice i fanciulli (Sinite parvulos) (1626; olio su tela, 134 x 97 cm; Roma, Arciconfraternita dei Santi Ambrogio e Carlo della Nazione Lombarda)
Guido Reni, San Giacomo Maggiore (1625; olio su tela, 132,5 × 99 cm; Houston, The Museum of Fine Arts)
Guido Reni, San Giacomo Maggiore (1625; olio su tela, 132,5 × 99 cm; Houston, The Museum of Fine Arts)
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura (1630 circa; olio su tela, 98 x 74,5 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini)
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura (1630 circa; olio su tela, 98 x 74,5 cm; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini)
Artemisia Gentileschi, Clio musa della Storia (1632; olio su tela, 127,5 × 97,5 cm; Pisa, Fondazione Pisa, Palazzo Blu, inv. PL6)
Artemisia Gentileschi, Clio musa della Storia (1632; olio su tela, 127,5 × 97,5 cm; Pisa, Fondazione Pisa, Palazzo Blu, inv. PL6)

Terminato il percorso nei tre “contenitori” centrali, la mostra prosegue con una sezione dedicata alle grandi commissioni che ricevette nella prima fase del suo soggiorno napoletano. In particolare l’Annunciazione del Museo di Capodimonte, fondamentale per la ricostruzione della produzione napoletana perché firmata e datata sul cartiglio presente in basso a destra (1630); a confermare la datazione dell’opera vi è un carteggio tra Artemisia e Cassiano dal Pozzo, intellettuale e collezionista (la sua collezione è tra le più note a Roma ai primi del Seicento) residente a Roma dal quale la pittrice nella città partenopea sperava protezione: la pittrice racconta a Cassiano di dover consegnare alcuni dipinti per l’imperatrice Eleonora Gonzaga per metà settembre e di essere stata lontano da Napoli diverso tempo per dipingere il ritratto di una contessa prima del 21 dicembre 1630. Maria Cristina Terzaghi scrive che "al momento non sappiamo come l’Annunciazione si inserisca in questa sequenza di opere, ma è certo che si pone come la sua prima commissione napoletana superstite. Dal momento che la pittrice poteva essere in città già nel marzo del 1630, non è escluso che la tela sia stata realizzata nella primavera dello stesso anno". La studiosa afferma che Artemisia importerà nell’ambiente artistico napoletano un respiro internazionale, già visibile in questo dipinto nei panneggi serici gonfi e sontuosi della Vergine e dell’angelo, guardando probabilmente a Nicolas Régnier, attivo in Italia e in particolare a Venezia al passaggio della pittrice. Sono poi qui esposti due monumentali quadri che l’artista realizzò tra il 1635 e il 1637 circa per il coro della cattedrale di Pozzuoli, appartenenti a un ciclo di raffigurazioni della vita di Cristo e di Maria e dei fondatori della Chiesa di Pozzuoli commissionate dal vescovo agostiniano Martín de León y Cárdenas ai maggiori artisti attivi in quel periodo a Napoli, come Giovanni Lanfranco, Jusepe de Ribera e Massimo Stanzione. Si tratta del San Gennaro e i compagni gettati nell’anfiteatro ammansiscono le belve e del San Procolo e santa Nicea, quest’ultimo restaurato appositamente per la mostra. Una pregevole copia inedita coeva della Nascita di san Giovanni Battista conservata al Museo del Prado dà conto inoltre di un’altra importante commissione ad Artemisia: dipinse infatti l’omonima scena per la serie delle Storie del Battista destinata al palazzo del Buen Retiro a Madrid per il re Filippo IV di Spagna su incarico del VI conte di Monterrey, viceré di Napoli.

Tra i grandi temi affrontati nell’intera carriera di Artemisia vi è sicuramente quello di alcune protagoniste femminili tratte dall’immaginario classico e giudaico-cristiano che sono diventate, anche in relazione alla biografia dell’artista stessa, veri simboli dell’affermazione della donna, del suo coraggio e della sua forza: su tutte, Giuditta e Oloferne. La mostra propone qui cinque dipinti incentrati su “donne forti e intrepide”, di cui due della Gentileschi raffiguranti Giuditta e la sua ancella con testa di Oloferne, dal Museo di Capodimonte, in cui Terzaghi rileva un cambio di registro rispetto alla violenza delle precedenti versioni e una predilezione verso “la narrazione del pathos successivo all’uccisione del generale assiro, e il clima sospeso del lume di candela contribuisce non poco all’effetto”, e dal Nasjonalmuseet di Oslo; quest’ultima, tra le novità più significative presentate in mostra, anche se finora era nota agli studi solo attraverso riproduzioni fotografiche, è firmata ed è stata acquistata nel 2022 dal museo norvegese. Le altre tre hanno come tema comune Sansone e Dalila e sono state eseguite da tre diversi artisti: da Artemisia quella della collezione delle Gallerie d’Italia di Napoli, da Hendrick De Somer, tra le personalità che stanno emergendo come una delle più interessanti e originali attive a Napoli durante la prima metà del Seicento, e da Diana “Annella” De Rosa, la maggiore artista napoletana della prima metà del Seicento, che secondo una tradizione antica però inattendibile fu anche lei vittima della violenza di genere. Un’opera quest’ultima in cui si nota una varietà di espressioni e ricchezza nei dettagli, in particolare la natura morta con strumenti musicali in basso a sinistra.

Il percorso espositivo prosegue con una selezione di figure femminili che raffigurano sante martiri, perlopiù a mezzo busto e riconoscibili grazie ai loro attributi: per la maggior parte si focalizzano sulla figura di santa Caterina d’Alessandria. Tra queste è esposta in mostra un’assoluta novità per il pubblico italiano, ovvero la santa Caterina d’Alessandria del Nationalmuseum di Stoccolma, che colpisce immediatamente per la resa delle stoffe e per la sua maestria nell’uso del colore. Scrive Carina Fryklund: "Qui Artemisia reinterpreta il soggetto rispetto a quanto aveva già fatto in altri dipinti della metà degli anni dieci del Seicento, offrendone un’immagine nuova e originale. Gli attributi convenzionali della santa – l’aureola, la corona, la ruota del supplizio – sono assenti, le rovine dietro la figura probabilmente alludono al suo nome, come spiegato nella Legenda aurea, ma l’accento è posto sul grande volume su cui la donna poggia le mani, emblema di erudizione associato alla santa quando viene ritratta in qualità di patrona dell’istruzione e dello studio". Il dipinto è posto qui a confronto con altri dipinti che raffigurano la santa, come quello di Paolo Finoglio nelle collezioni del Museo Cristiano di Esztergom, in Ungheria, o quello di Giovanni Ricca di Palazzo Madama a Torino che definisce le coordinate di uno dei principali filoni entro cui Artemisia si inserisce negli anni napoletani, ovvero la raffigurazione di sante a mezza figura. La raffinatezza degli accordi cromatici e il biancore perlaceo della pelle fanno pensare alla lezione di Jusepe de Ribera, personalità dominante della pittura a Napoli nella prima metà del Seicento, di cui in mostra è una santa Lucia anch’essa a mezza figura, tratto caratteristico anche di Massimo Stanzione.

Artemisia Gentileschi, Annunciazione (1630; olio su tela, 257 × 179 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, inv. Q375)
Artemisia Gentileschi, Annunciazione (1630; olio su tela, 257 × 179 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, inv. Q375)
Artemisia Gentileschi, San Gennaro e i compagni gettati nell’anfiteatro ammansiscono le belve (olio su tela, 308 × 200 cm; Pozzuoli, Basilica Cattedrale di San Procolo martire). Foto di Claudio Giusti
Artemisia Gentileschi, San Gennaro e i compagni gettati nell’anfiteatro ammansiscono le belve (1636-1637; olio su tela, 308 × 200 cm; Pozzuoli, Basilica Cattedrale di San Procolo martire). Foto di Claudio Giusti
Artemisia Gentileschi Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne (olio su tela, 272 × 221 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, inv. Q 377). Su concessione del Ministero della Cultura - Museo e Real Bosco di Capodimonte
Artemisia Gentileschi, Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne (1645-1650; olio su tela, 272 × 221 cm; Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, inv. Q 377). Su concessione del Ministero della Cultura - Museo e Real Bosco di Capodimonte
Artemisia Gentileschi, Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne (olio su tela, 73 × 93 cm; Oslo, Nasjonalmuseet for kunst, arkitektur og design, inv. NMK.LAAN.2022.0028). Foto Nasjonalmuseet/Børre Høstland/Annar Bjørgli
Artemisia Gentileschi, Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne (olio su tela, 73 × 93 cm; Oslo, Nasjonalmuseet for kunst, arkitektur og design, inv. NMK.LAAN.2022.0028). Foto Nasjonalmuseet/Børre Høstland/Annar Bjørgli
Artemisia Gentileschi, Sansone e Dalila (olio su tela, 90,50 x 109,50 cm; Collezione Intesa Sanpaolo | Napoli, Gallerie d’Italia). Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / © Claudio Giusti
Artemisia Gentileschi, Sansone e Dalila (1630 circa; olio su tela, 90,50 x 109,50 cm; Napoli, Gallerie d’Italia). Archivio Patrimonio Artistico Intesa Sanpaolo / © Claudio Giusti
Artemisia Gentileschi, Santa Caterina d’Alessandria (olio su tela, 90 × 75,40 cm; Stoccolma, Nationalmuseum, Purchase 2019 Wiros Fund, inv. NM 7538). Foto di Cecilia Heisser / Nationalmuseum
Artemisia Gentileschi, Santa Caterina d’Alessandria (1620 circa; olio su tela, 90 × 75,40 cm; Stoccolma, Nationalmuseum, Purchase 2019 Wiros Fund, inv. NM 7538). Foto di Cecilia Heisser / Nationalmuseum
Giovanni Ricca, Santa Caterina d’Alessandria (1629 circa; olio su tela, 102 × 76 cm; Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica)Giovanni Ricca, Santa Caterina d’Alessandria (1629 circa; olio su tela, 102 × 76 cm; Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica)
Giovanni Ricca, Santa Caterina d’Alessandria (1629 circa; olio su tela, 102 × 76 cm; Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica)

Dopo le eroine e le sante, la successiva sezione è dedicata a Eros e Thanatos, dove l’erotismo di donne nude o seminude tratte da racconti mitologici o da episodi del Vecchio Testamento, immerse in sfondi architettonici e paesaggistici, si alterna al racconto di donne violate e al tema della morte. Di Artemisia sono qui esposti il celebre capolavoro della Pinacoteca di Bologna raffigurante il tema della Susanna e i vecchi, firmato e datato 1652 e che al momento si considera l’ultima opera certa della produzione della pittrice, la Morte di Cleopatra in collezione privata su cui gli studiosi concordano sull’appartenenza dell’opera al primo periodo napoletano della pittrice grazie al confronto con opere stilisticamente simili, come la Susanna e i vecchi in collezione privata a Londra e la Betsabea al bagno della Galleria Palatina di Firenze, di cui nella scheda in catalogo di Cristina Gnoni Mavarelli si legge che "la collocazione cronologica nel primo periodo napoletano (1635 circa) è la proposta più plausibile alla luce dei caratteri peculiari di questa fase dell’attività di Artemisia, quali la spiccata predilezione per la preziosità degli elementi decorativi (gli arredi in metallo lucente, i gioielli), il richiamo alle opere di Orazio degli anni Trenta (se ne veda il Mosè salvato dalle acque della National Gallery di Londra), la pacata impostazione dei personaggi femminili, privi dell’energico vigore delle figure della fase fiorentina". Queste opere sono messe a confronto con altre dei maggiori artisti del tempo, quali Andrea Vaccaro, Agostino Beltrano, Hendrick De Somer, spesso vicini al gusto di Artemisia, tutti e tre presenti con il tema di Lot e le figlie.

Della produzione sacra di destinazione privata e quindi di piccolo formato che Artemisia realizzò negli anni napoletani è rimasto poco e sono opere che si legano al dibattito critico su Artemisia e la sua attiva bottega napoletana, poiché in esse si riconoscono tratti di altri artisti oltre che la mano della pittrice. Tra questi, il Giudizio di Paride di Vienna, nel quale si è riconosciuta la mano di Micco Spadaro, il pendant di Sarasota con il Trionfo di David e la Bethsabea al bagno, a cui hanno collaborato probabilmente sia Spadaro che Onofrio Palumbo; di quest’ultimo, collaboratore documentato di Artemisia, è esposta la Sacra Famiglia con sant’Anna e san Gioacchino dalla chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone, che “offre un’idea assai più precisa di come lo stile del pittore – dai tipi fisionomici alle pieghe dei panneggi alle scelte cromatiche – s’incroci con quello di Artemisia”, scrive Giuseppe Porzio. "Siamo infatti, grosso modo, all’altezza cronologica di opere quali la Susanna e i vecchi della Pinacoteca Nazionale di Bologna e la Madonna del Rosario del Patrimonio Nacional, che si sono volute talora riferire tout court all’artista napoletano, nonostante rechino in evidenza le firme della pittrice". In mostra è anche appunto la Madonna del Rosario del Patrimonio Nacional, l’unico esemplare di piccolo formato su rame esplicitamente firmato da Artemisia. Tale supporto è piuttosto eccezionale nella pittrice: i dipinti su rame di piccole dimensioni risalivano a una tradizione fiamminga ed erano diffusi nell’Italia del Seicento, come dimostrano gli esemplari realizzati, tra gli altri, da Annibale Carracci, Guido Reni, Domenichino e Carlo Saraceni.

La mostra si chiude con quattro favole mitologiche: due dipinti di Artemisia, ovvero la Corisca e il satiro di collezione privata e il celebre Trionfo di Galatea realizzato in collaborazione con Bernardo Cavallino, evidente nelle forme e nei volti dei tritoni, così come nel trattamento vellutato delle superfici, l’Orfeo dilaniato dalle baccanti di Massimo Stanzione e il Ratto d’Europa di “Annella” Di Rosa proveniente da una collezione privata ed esposto per la prima volta al pubblico. Opere esposte in mostra per riflettere con uno sguardo contemporaneo sui ruoli sessuali e sulla violenza di genere, in particolare nel tentativo di stupro della ninfa Corisca, nel rapimento di Europa da parte di Zeus e nell’uccisione di Orfeo da parte delle baccanti.

Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchi (olio su tela, 200,5 × 225,5 cm; Bologna, Pinacoteca nazionale, inv. 6320). Su concessione del Ministero della Cultura – Pinacoteca Nazionale di Bologna
Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchi (1652; olio su tela, 200,5 × 225,5 cm; Bologna, Pinacoteca nazionale, inv. 6320). Su concessione del Ministero della Cultura – Pinacoteca Nazionale di Bologna
Hendrick De Somer (Enrico Fiammingo), Lot e le figlie (olio su tela, 148,5 × 194,5 cm; Thyssen-Bornemisza Collections, inv. 1991.4). Foto di Hélène Desplechin
Hendrick De Somer (Enrico Fiammingo), Lot e le figlie (1650; olio su tela, 148,5 × 194,5 cm; Thyssen-Bornemisza Collections, inv. 1991.4). Foto di Hélène Desplechin
Artemisia Gentileschi, Bethsabea al bagno (1635 circa; olio su tela, 286 × 214 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina)
Artemisia Gentileschi, Bethsabea al bagno (1635 circa; olio su tela, 286 × 214 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina)
Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchi (olio su tela, 265 × 209 cm; Londra, collezione privata)
Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchi (olio su tela, 265 × 209 cm; Londra, collezione privata)
Artemisia Gentileschi, Corisca e il satiro (1632-1639; olio su tela, 155 × 210 cm; Collezione privata)
Artemisia Gentileschi, Corisca e il satiro (1632-1639; olio su tela, 155 × 210 cm; Collezione privata)
Massimo Stanzione, Orfeo dilaniato dalle baccanti (olio su tela, 173 × 202 cm; Collezione Fideuram - Intesa Sanpaolo)
Massimo Stanzione, Orfeo dilaniato dalle baccanti (olio su tela, 173 × 202 cm; Collezione Fideuram - Intesa Sanpaolo)
Artemisia Gentileschi e Bernardo Cavallino, Trionfo di Galatea (1650 circa; plio su tela, 152 × 205 cm; Washington, DC, National Gallery)  of Art
Artemisia Gentileschi e Bernardo Cavallino, Trionfo di Galatea (1650 circa; plio su tela, 152 × 205 cm; Washington, DC, National Gallery)

Artemisia Gentileschi a Napoli segue un percorso espositivo che privilegia i temi e i confronti sulle cronologie e ha il merito di presentare un periodo ancora poco conosciuto della celebre pittrice, che a Napoli trascorse i suoi ultimi anni, fino alla sua morte. È la prima mostra infatti sul periodo napoletano dell’artista, l’ultimo della sua carriera e anche quello caratterizzato da una minore potenza sia nelle scene sia nei colori, che si fanno più tenui e sfumati. Ha il merito inoltre di aver condotto, in occasione dell’esposizione, approfondite ricerche archivistiche e attenti studi che hanno rivelato nuovi elementi sulla sua biografia e sulla sua produzione legata alla committenza vicereale. Nel catalogo vi sono anche appendici con una ricca sezione di documenti, per la maggior parte inediti o poco noti, attraverso cui si intendono chiarire meglio aspetti della biografia napoletana di Artemisia.

Il visitatore ha inoltre l’occasione di ammirare per la prima volta in Italia capolavori come l’Autoritratto come santa Caterina d’Alessandria recentemente acquistato dalla National Gallery di Londra, e che come affermato ha anche il ruolo nell’attuale mostra di fare da ponte e quindi da continuazione con la precendente grande mostra che si è tenuta a Londra; il Trionfo di Galatea da Washington, la Santa Caterina d’Alessandria da Stoccolma e la Giuditta e Oloferne da Oslo. E di vedere le opere di Artemisia a confronto con quelle di altri artisti attivi a Napoli in quel periodo, seguendo gli stessi temi della pittrice. Relativamente ai confronti, la mostra ha poi il pregio di aver parzialmente ricomposto, come si è precedentemente spiegato, il ciclo degli apostoli per la certosa di Siviglia. Il tema dei confronti apre inoltre una riflessione sul dibattito critico sulla bottega: sappiamo infatti che a Napoli Artemisia impiantò una bottega fiorente avvalendosi della collaborazione dei migliori artisti locali, da Massimo Stanzione a Onofrio Palumbo a Bernardo Cavallino. Scrive Giuseppe Porzio nel suo saggio: “A giudicare dall’elevato numero di opere più o meno direttamente riconducibili alla pittrice, non v’è dubbio che l’attività meridionale di Artemisia dovette costituire ai suoi tempi un fenomeno di vaste dimensioni commerciali, sicuro frutto di spiccate capacità imprenditoriali, di una scaltrita strategia di autopromozione, nonché di fattori estetici. Tuttavia, la fisionomia proteiforme e per certi versi ancora sfuggente assunta dalla produzione di Artemisia nel suo lungo soggiorno napoletano pone, com’è noto, complicati problemi di definizione cronologica e soprattutto attributiva, e questo perché tale ampio corpus di dipinti, di destinazione e circolazione essenzialmente privata e sempre oscillante tra ‘qualità e industria’, è certamente il risultato di un laboratorio ben organizzato in cui, oltre alla figlia Prudenzia Palmira (la cui fisionomia artistica non siamo ancora in grado di isolare), transitarono personalità più giovani e dotate, tra le quali Bernardo Cavallino e soprattutto Onofrio Palumbo [...] Per la stessa Gentileschi il suo nome doveva valere come una sorta di marchio di fabbrica, garantendo più la responsabilità ideativa che la coerenza esecutiva di un prodotto. Perciò, se già distinguere la mano di Artemisia da quella dei suoi assistenti è un’operazione estremamente difficile, separarle è un atto probabilmente illegittimo. Per tale motivo, dunque, in mostra si è scelto di adottare l’etichetta “Artemisia” anche per le opere dove evidente risulta la partecipazione di aiutanti”.

Infine l’esposizione ha il pregio di aver introdotto la pittrice Diana “Annella” De Rosa, esponendo all’interno della mostra due sue opere; nel percorso espositivo tuttavia non viene dato al visitatore alcun dato per conoscere la storia di quest’ultima, che invece viene raccontata nel catalogo, senza però chiarire meglio la questione della violenza di genere che viene menzionata nel primo pannello espositivo della mostra ("secondo una tradizione antica, rivelatasi però inattendibile, vittima della violenza di genere come Artemisia”). Una mostra e un catalogo che si rivelano per tutto ciò strumenti fondamentali sul periodo napoletano di Artemisia e da cui partire per ulteriori studi.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, sono co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. Sono nata a Carrara nel 1987 e mi sono laureata a Pisa. Sono responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.

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