Di alcuni luoghi abbiamo un’idea che nasce dai film che abbiamo visto, e ancor di più dalle serie. Sicuramente degli Stati Uniti, forse perché la produzione cinematografica viene tutta da lì. Così nel nostro immaginario la polizia indossa le divise di Scuola di Polizia, gli avvocati rampanti gli abiti di Suits, le donne, le scarpe di Sex and the City. E involontariamente ci siamo convinti che l’America (che qui non è il continente geografico, ma quello generato dal peso della comunicazione che arriva a noi, dove gli Stati Uniti occupano gran parte del territorio) appare proprio così. Fanno eccezione solo i fan di Breaking Bad, che almeno hanno uno sguardo educato a quel realismo quasi documentaristico, o quelli di The Sopranos, che conoscono almeno una sfaccettatura più cruda del New Jersey suburbano. Ma sono proprio queste serie che hanno costruito il nostro immaginario stratificato, così come Friends per la New York dei giovani, Mad Men per l’America degli anni Sessanta. Un mosaico di visioni che alla fine compone un’immagine coerente ma parziale.
Di recente si sono aggiunte sempre più spesso le immagini che ci arrivano dall’attualità, quelle delle carceri, delle lotte delle minoranze, di brutali interventi delle forze armate, quelle che arrivano sui nostri schermi con le veline (che, per i non giornalisti, sono brevi dispacci di agenzia). È una realtà così cruda e assurda che, quella sì, vorremmo fosse solo un film. E così per istinto di protezione anche quelle immagini sono classificate dalla nostra memoria come costruite in uno studio. Ma l’America di mezzo? La casalinga di Pahokee, Florida o il barista di Swainsboro, Georgia... chi sono?
Non è solo una curiosità antropologica. Si tratta di una grande percentuale dei cittadini degli Stati Uniti, diciamo il 70% (non vi annoio con i dettagli di come sono arrivata a questo valore); di questi, il 65% hanno votato alle ultime elezioni presidenziali. Insomma, pur con una stima approssimativa, sono quelli che eleggono il Presidente più influente del mondo occidentale; per questo mi chiedo che facce hanno, come vivono, cosa pensano.
Quando comincio a parlare di fotografia, direte? Ne sto già parlando: tutto quello che ho scritto è stato un unico flusso di coscienza di un tiepido pomeriggio di metà luglio, di fronte ad una singola foto. Quando si dice che l’arte fa riflettere, eh? Non può che essere l’effetto de Les Rencontres de la Photographie, il più grande evento di fotografia al mondo, che dagli anni Settanta monopolizza l’estate della piccola città di Arles nella Camargue francese. L’immagine era la prima della mostra U.S. Route 1 di Berenice Abbott, Anna Fox e Karen Knorr, curata da Gaëlle Morel, prodotta da Rencontres d’Arles in collaborazione con The Image Centre di Toronto.
Nell’estate del 1954 la fotografa americana Berenice Abbott partì per un viaggio lungo la U.S. Route 1 da Fort Kent, nel Maine, al confine canadese a nord, fino a Key West, in Florida, a sud. Con la sua auto carica di provviste e della sua attrezzatura fotografica viaggiò da giugno a settembre per documentare l’omologazione culturale dovuta al consumismo, cercando di immortalare le differenze regionali prima che sparissero.
Non fu la sola: dopo la Seconda Guerra Mondiale, il viaggio sulle strade americane iniziò ad apparire in modo rilevante nella letteratura, nella musica, nei film. Mentre Kerouac scriveva il suo famoso On the Road, molti fotografi si imbarcarono in viaggi attraverso gli Stati Uniti per comprendere meglio i luoghi e il tempo che stavano vivendo. Robert Frank, Joel Meyerowitz, William Eggleston, Lee Friedlander, tra gli altri, le cui foto sono raccolte in un progetto del 2014 di David Campany, tra i più grandi studiosi di fotografia americana, dal titolo The Open Road: Photography and the American Roadtrip.
Proprio all’uscita di questo libro, Anna Fox e Karen Knorr hanno deciso di avventurarsi in un viaggio lungo la U.S. Route 1 seguendo le tracce di Berenice Abbott per documentare la vita contemporanea nella loro epoca. Sono partite nel 2016, alle soglie della prima presidenza Trump, hanno terminato poco dopo la sua re-elezione e hanno percorso a più tappe la strada che unisce Key West al Maine. Hanno fotografato piccole città, persone, farmacie, bar, tavole calde, hotel, motel, fattorie, fabbriche, segnali stradali e pubblicità, cercando di cogliere quello che sta accadendo oggi e come questo differisca da ciò che la Abbott aveva trovato.
Abbott aveva fotografato insegne luminose per la strada e file di taxi con i loro tassametri, tutti segnali del crescente capitalismo in America: “stava fotografando lo sviluppo del consumismo”, dice Fox, “e lo stava criticando”. Per questo forse le sue foto non sono mai state pubblicate, anche se a detta di altri aveva la colpa di essere donna, e per di più lesbica.
Nelle foto di Fox e Knorr di oggi è la fede ad essere pubblicizzata come le catene di fast food: un cartellone in cima ad una casa avverte che un aborto spezzerebbe il cuore di Dio, ed un altro che l’America non potrà mai essere indipendente da lui.
Una fotografia rappresenta le statue di cera di due schiavi neri in catene nel National Great Blacks in Wax Museum di Baltimora, in un’altra la security di un residence fa il suo giro di controllo abbondantemente armata e con giubbotto antiproiettile, e ovunque la bandiera americana sventola alta, simbolo di un nazionalismo che può essere interpretato come minaccioso. Knorr racconta: “C’è una paura della diversità nelle piccole città, e raramente si vede un volto nero”. E se non ci sono più i cartelli “Coloured Take Out” come nelle foto di Bernice Abbott, queste immagini e osservazioni evidenziano come persistano forme più sottili ma insidiose di esclusione e paura della diversità nelle comunità rurali americane.
Le case di lamiera degli anni Cinquanta delle foto di Abbott hanno lasciato il posto a nuovi prefabbricati. Ma persino le abitazioni più lussuose, fotografate ad una distanza fisica ed emotiva, sembrano fatte con i mattoncini giocattolo più famosi al mondo. Più grandi, ricchi, nuovi ma sempre sfacciatamente finti e strutturalmente precari. In queste immagini tutto sembra momentaneo, tutto instabile.
E se in una sequenza di foto un uomo vestito da clown killer passeggia in un centro commerciale di Salem, Massachusetts, non è questa l’idea più inquietante che arriva dalle foto, ma quella sottesa a tutto il racconto che ci restituisce un Paese senza una identità vera, senza una storia, contraddittorio e confuso ma pronto a combattere per il primo che gridi con più prepotenza la strada da prendere, quale che sia. Per tutti quelli che non possono correre ad Arles entro il 5 ottobre, suggerisco di sfogliare il catalogo Route US 1: After Berenice Abbott di Anna Fox e Karen Knorr edito da Trolley Books.
L'autrice di questo articolo: Silvia De Felice
Da venti anni si occupa di produzione di contenuti televisivi per Rai in ambito culturale e ha ideato Art Night, programma di documentari d'arte di Rai 5. L'arte e la cultura in tutte le sue forme la appassionano, ma tra le pagine di Finestre sull'Arte può confessare il suo debole per la fotografia.Per inviare il commento devi
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