Le sculture di Filippo Parodi a Villa Faraggiana: lo spettacolo del Barocco in legno


Le sculture in legno di Filippo Parodi a Villa Faraggiana (Albissola Marina) sono tra i più grandi capolavori della scultura del Barocco in Liguria.

Un sontuoso ambiente per le feste, aperto sul giardino rigoglioso e ordinato, decorato con stucchi e affreschi, e dotato d’un pavimento in ceramica maiolicata, oltre che d’un prezioso corredo di sculture: tale è la veste che, nel 1750, il futuro doge di Genova, Marcellino Durazzo, aveva immaginato per la Galleria delle Stagioni (o “Galleria delle Quattro Stagioni”), il grande salone destinato ad ampliare la struttura di Villa Faraggiana, la splendida dimora di famiglia ad Albissola Marina. Benché, da allora, l’ambiente abbia conosciuto alcune modifiche (gli affreschi, per esempio, hanno subito estesi rifacimenti), il fortunato visitatore che oggi si trovi a percorrere la Galleria camminerà in un locale non così diverso da quello che accoglieva i Durazzo e i loro ospiti durante i fastosi ricevimenti. Ad attirare la nostra attenzione sono, in particolare, le sculture di Filippo Parodi (Genova, 1630 - 1702), il massimo scultore barocco della Liguria, del quale osserviamo cinque opere: le allegorie delle Quattro stagioni e l’ammiratissima specchiera con il Mito di Narciso.

Villa Faraggiana, Albissola Marina. La Galleria delle Stagioni
Villa Faraggiana, Albissola Marina. La Galleria delle Stagioni. Courtesy Albezzano srl

Non sappiamo quale fosse l’originaria destinazione del ciclo di sculture, né chi fosse il committente. Ciò nondimeno, dati i rapporti che Parodi aveva intessuto con la famiglia Durazzo, e poiché già Carlo Giuseppe Ratti, nelle sue Vite degli artisti genovesi del 1769, affermava che la specchiera fosse allora presente ad Albissola, è altamente probabile che le cinque opere fossero state realizzate per un membro della nobile dinastia, sebbene sia ancora in corso il dibattito volto a stabilire chi, di preciso, avesse ordinato le statue: forse Giovanni Antonio Durazzo, che sposò Maddalena Spinola nel 1667, quindi in un anno compatibile con la datazione delle opere, assegnate al settimo decennio del Seicento, oppure Carlo Emanuele Durazzo, che nello stesso anno poneva in essere alcuni lavori di ammodernamento nel grande palazzo di via Balbi a Genova (oggi Palazzo Reale). Quel che è certo, è che fin da quel 1769, anno della prima attestazione, le opere di Filippo Parodi dovettero suscitare alte lodi e universale stupore. Ciò vale in special modo per il tavolo parietale con il Mito di Narciso. Così ne parla Ratti: “il già menzionato Eccellentissimo Durazzo ha in Albizzuola, entro il suo palazzo di villa, un bellissimo specchio lavorato a foggia di fonte, ove Narciso si sta vagheggiando. Cosa, che per l’invenzione e la naturalezza, merita l’alta stima in cui è tenuta”. Una stima perdurata sino ai giorni nostri: uno specialista come Alvar González-Palacios, in una sua pubblicazione del 1996 sui mobili in Liguria, ha definito la specchiera “il più bel mobile genovese esistente, uno dei capolavori della grande decorazione europea”.

A cosa si devono dunque tanti apprezzamenti nei confronti di quest’opera? Certo, trovarsi davanti, dal vivo, un tale elemento d’arredo, interamente realizzato in legno dorato, è esperienza capace di fugare ogni dubbio. Tuttavia, onde suggerire un’idea col solo mezzo della parola impressa sul foglio, possiamo descrivere la specchiera di Filippo Parodi come un’alta e impervia scogliera alla base della quale sgorga una fonte d’acqua: in basso, notiamo due cani che si abbeverano (uno, in verità, si sta solo approssimando, l’altro invece è già ritto sulle zampe posteriori per accostarsi all’acqua) e, in alto, l’imponente e al contempo delicata figura di Narciso che, in un gioco di rimandi tipico della produzione di Filippo Parodi (e delle specchiere secentesche in generale), si rimira nella fonte appoggiandosi alla lancia con cui s’era recato a caccia. Tutt’intorno vediamo piante di capelvenere, arbusti, radici, e financo qualche granchio celato tra gli scogli. Il mito, narrato da Ovidio, ci racconta di questo bellissimo giovane fermatosi, durante una battuta di caccia, a contemplare la propria immagine riflessa in una pozza d’acqua alla quale s’era avvicinato per bere, e che finì per innamorarsi del suo aspetto, tanto da morire logorato per l’impossibilità del suo amore.

Filippo Parodi, Specchiera con il Mito di Narciso
Filippo Parodi, Specchiera con il Mito di Narciso (Settimo decennio del XVII secolo; legno scolpito e dorato, 450 x 170 x 70 cm; Albissola Marina, Villa Faraggiana). Courtesy Albezzano srl


Dettaglio della figura di Narciso
Dettaglio figura di Narciso. Courtesy Albezzano srl


Dettaglio del cane di destra
Dettaglio del cane di destra. Courtesy Albezzano srl

La raffinata invenzione concettuale di Filippo Parodi mira a diversi scopi: un primo obiettivo, e forse più immediato, è la negazione del luogo fisico che ospita l’opera, per aprire una finestra sulla “materia vitale della natura” e per fare della specchiera un “elemento naturale di uno spazio illusivo antietico al concetto di spazialità architettonica” (così Lauro Magnani). Questa componente ingannevole, che contraddistingue la complessa figurazione di Parodi, è connaturata all’arte barocca, e lo scultore genovese ebbe sicuramente modo di affinare le sue capacità in tal senso con un soggiorno a Roma, nel corso del quale entrò in contatto con le più aggiornate soluzioni di Gian Lorenzo Bernini: (Napoli, 1598 - Roma, 1680) pensiamo solamente alle grandi macchine celebrative e alle spettacolari scenografie che s’allestivano nella Roma del XVII secolo, e di cui anche su queste pagine s’è parlato. Ancora, Parodi probabilmente poté giovarsi della mediazione della fantasia di uno scenografo estroso come il tirolese Johann Paul Schor (Innsbruck, 1615 - Roma, 1674), abile nella scultura in legno: è forse anche grazie alla vicinanza con l’artista austriaco che Filippo Parodi maturò la propria perizia nell’arte dell’intaglio. Parodi poté probabilmente studiare da vicino alcune ardite invenzioni di Schor (come il letto cerimoniale per Maria Mancini, o il cosiddetto “Tavolino” del Getty Museum il cui disegno è a lui attribuito: in realtà, il “Tavolino” era probabilmente parte di un complesso scenografico più ampio, ed è interessante perché si tratta d’un oggetto fitomorfo la cui idea potrebbe costituire un interessante precedente per la specchiera di Parodi), ma anche quelle di Bernini, come lo specchio per Cristina di Svezia. Una studiosa come Paola Rotondi Briasco, tuttavia, notava un tratto che separava Parodi da Bernini: pur partendo entrambi da un “forte sentimento naturalistico”, Bernini non perdeva il contatto sensuale con la realtà, mentre Parodi la sublimava (le forme degli scogli e soprattutto la doratura sono i mezzi prediletti per ottenere questa sorta d’astrazione) per portare l’osservatore in una dimensione lontana dal concreto e dal tangibile o, per dirla con le parole di Rotondi Briasco, per giungere a “un gioioso spirito prearcadico” e a una “sensibilità idillica e pastorale” trasfigurata in “un ambiente favolosamente boschereccio”.

Anonimo intagliatore su disegno di Johann Paul Schor, Tavolino
Anonimo intagliatore su disegno di Johann Paul Schor, Tavolino (1670 circa; legno scolpito e dorato, 170 x 224 x 84 cm; Malibu, The J. Paul Getty Museum)


Gian Lorenzo Bernini, Disegno per lo specchio di Cristina di Svezia
Gian Lorenzo Bernini, Disegno per lo specchio di Cristina di Svezia (1662 circa; penna e acquerello marrone su carta, 23 x 18,8 cm; Windsor, The Royal Collection)

Ancora, secondo un’ambiguità tipicamente barocca, lo spettatore diventa in prima persona protagonista dell’opera, trasformandosi in un vero alter ego di Narciso: come il mitico cacciatore si specchia nell’acqua, così l’osservatore vede la propria immagine nello specchio che Parodi pone tra gli scogli. La sottigliezza di tale macchinazione speculativa è stata rilevata da molti di coloro che hanno studiato l’opera: Filippo Parodi riesce a trasportare il mito nella realtà per indurre l’osservatore a riflettere sui pericoli che corre chi, come Narciso, indugia troppo nella vacua vanità. Si tratta, in altri termini, di una allegoria moraleggiante tipica del secolo, con la peculiarità che qui il doppio avvertimento sulla caducità dell’essere umano e sui rischi che un eccesso di vanagloria comporta, si tramuta in un sofisticato memento mori (la vanità, del resto, è stata fatale a Narciso) celato sotto le spoglie dell’ingegnoso artificio.

Il ciclo di Villa Faraggiana ad Albissola Marina è arricchito dalle allegorie delle Quattro Stagioni, che dovevano rivestire il ruolo di punti luce reggendo candelieri, e che dimostrano come l’unitarietà di scultura e arredamento fosse una precisa scelta che guidò l’allestimento della Galleria. Le personificazioni delle stagioni, disposte sui due lati lunghi della Galleria, sono riconoscibili attraverso i loro attributi caratteristici: la Primavera e l’Estate sono due giovani donne contraddistinte, rispettivamente, da una corona di mirto e da una bizzarra ghirlanda di spighe, l’Autunno è un uomo circondato da grappoli d’uva, infine l’Inverno è un vecchio che incede in un paesaggio brullo, coperto da un ampio mantello, e colto nell’atto di avvicinare la mano a un braciere per scaldarsi. La critica s’è divisa sull’effettiva paternità delle quattro sculture: per taluni potrebbe trattarsi di opera di bottega, dacché non avvicinabili agli esiti offerti dalla specchiera col Mito di Narciso, mentre per altri, che ne hanno evidenziato la raffinatezza, il gusto e l’eleganza formale, sarebbero sempre prodotti della mano di Filippo Parodi.

Filippo Parodi, Le Stagioni
Filippo Parodi, Le Stagioni nella Galleria (Settimo decennio del XVII secolo; Primavera: 178 x 80 cm, Estate: 192 x 85 cm, Autunno: 163 x 86 cm, Inverno: 170 x 50 cm; Albissola Marina, Villa Faraggiana). Courtesy Albezzano srl


Dettaglio della Primavera
Dettaglio della Primavera. Courtesy Albezzano srl

François Duquesnoy, Bacco
François Duquesnoy, Bacco (1629; altezza 60 cm; Roma, Galleria Doria Pamphilj)
Anche in questo caso, le sculture del genovese si nutrono di precisi precedenti romani. Si veda l’esempio dell’Autunno: il summenzionato Magnani ha rilevato come atteggiamento, posa, torsioni derivino dalle opere del fiammingo François Duquesnoy e, più nello specifico, dal Bacco della Galleria Doria Pamphilj o dalla coppia Giustiniani formata da un Apollo un Mercurio, sculture dalle quali Filippo Parodi sembrerebbe trarre ampî spunti. Ancora, suggestioni potrebbero essere giunte a Parodi dal contatto con la statuaria classica, il cui respiro viene evocato, sulla base d’un classicismo soggetto alla lettura tipica del tempo e ai modi dello scultore genovese, dal ciclo di Villa Faraggiana. Certo è che anche in queste quattro sculture in legno, Filippo Parodi raggiunge esiti di grande raffinatezza, che non si evince esclusivamente dalle pose (particolarmente elaborata quella della Primavera, ma lo stesso si potrebbe dire dell’estate che, imperiosa e solenne, leva la sua fiaccola verso il cielo), ma anche dalla resa dei sentimenti: molto intensa, in questo senso, è la resa dell’espressione sofferente dell’Inverno. Il tema della decorazione, che trova pieno riscontro in molte altre dimore della nobiltà genovese del tempo (basti pensare agli affreschi che decorano le sale di Palazzo Rosso) e che a Villa Faraggiana non si esaurisce con le sculture di Filippo Parodi, ma si estende all’intera decorazione della Galleria (anche gli affreschi, infatti, attraverso varî episodi mitologici affrontano lo stesso argomento) allude all’operosità della famiglia lungo l’intero anno solare, all’abbondanza delle loro terre e, ovviamente, alla loro ricchezza.

Benché Villa Faraggiana si trovi a una certa distanza da Genova, nella sua Galleria delle Quattro Stagioni ospita una delle più complesse, spettacolari e meglio conservate testimonianze della scultura barocca genovese della quale, come già rimarcato, Filippo Parodi fu probabilmente il più alto rappresentante. E la preziosità di tale apparato è tanto più grande se pensiamo che le sculture sono partecipi d’un contesto ottimamente conservato, tuttora molto simile a come dovevano viverlo gli ultimi abitanti, e che continua a esser tenuto in vita, per tutti, da privati che curano Villa Faraggiana con scrupolo e grandi attenzioni. Esattamente come facevano gli antichi proprietarî, di cui gli attuali conservano la grande passione per l’arte. La stessa che, nel 1750, portò i Durazzo ad arredare la Galleria delle Quattro Stagioni con un ciclo di statue che aveva profondamente rinnovato la scultura ligure del Seicento.

Bibliografia di riferimento

  • Daniele Sanguineti, Scultura genovese in legno policromo, Allemandi & C., 2013
  • Alvar González-Palacios, Il mobile in Liguria, SAGEP, 1996
  • Rosalina Collu, Villa Faraggiana, Albissola Marina, Regione Liguria, 1992
  • Maria Clalia Galassi, Elena Parma Armani, La Scultura a Genova e in Liguria: Dal Seicento al primo Novecento, Pagano, 1987
  • Lauro Magnani, Il tempio di Venere. Giardino e Villa nella Cultura genovese, SAGEP, 1987
  • Paola Rotondi Briasco, Filippo Parodi, Università di Genova, 1962


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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