Una delle versioni dei Girasoli di Vincent van Gogh (Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890) è al centro di una contesa internazionale: si tratta di una delle sei tele (in origine sette, una è andata distrutta) appartenenti alla serie di Arles, in particolare di quella conservata a Tokyo, in Giappone, presso il Sompo Japan Museum of Art, il museo della compagnia assicuratrice Sompo che detiene la proprietà dell’opera. La storia, in realtà, è cominciata nel 2022, quando gli eredi di uno dei più grandi collezionisti tedeschi del Novecento, Paul von Mendelssohn-Bartholdy, hanno fatto causa alla Sompo nella speranza di farsi riconoscere la legittima proprietà dell’opera, che secondo l’accusa sarebbe stata venduta ingiustamente sotto la pressione dei nazisti. Questa settimana, il caso è approdato davanti ai giudici del Settimo Circuito di Chicago: a darne notizia è la testata statunitense Courthouse News Service, specializzata in cronaca giudiziaria.
Gli eredi sostengono che il dipinto fu ceduto solo per sfuggire alla persecuzione nazista e chiedono che venga restituito. La causa, intentata contro il colosso assicurativo giapponese e le sue controllate, mette al centro questioni di diritto internazionale, memoria storica e responsabilità collezionistica. La storia è piuttosto intricata: il dipinto entrò nella collezione di Sompo attraverso la società Yasuda, predecessore del gruppo giapponese, che lo acquistò nel 1987 durante un’asta da Christie’s a Londra (all’epoca la vendita segnò il record di opera più costosa mai venduta all’asta). Secondo gli eredi, la provenienza dell’opera era chiaramente segnata dal nome di Mendelssohn-Bartholdy, vittima nota del regime nazista, perseguitato a causa delle sue origini ebraiche. Da tempo portano avanti la loro azione, e in alcuni casi hanno anche ottenuto risultati: nel 2020, per esempio, sono riusciti a ottenere la restituzione di una Testa femminile di Picasso che era conservata alla National Gallery di Washington.
A sostenere la causa davanti ai giudici d’appello è stato l’avvocato Thomas Hamilton, dello studio legale Byrne Goldberg che rappresenta gli eredi Mendelssohn-Bartholdy, che ha definito la vicenda “un classico patto col diavolo”, evocando il dramma di chi, per salvarsi, dovette sacrificare i propri beni culturali più preziosi. La famiglia ha invocato l’Holocaust Expropriated Art Recovery Act (HEAR Act), approvato nel 2016 dal Congresso degli Stati Uniti, che mira a facilitare il recupero delle opere d’arte confiscate o alienate a causa delle persecuzioni naziste. Gli eredi, peraltro, chiedono non solo la restituzione del dipinto, ma anche un risarcimento per l’arricchimento indebito derivato dall’esposizione dell’opera a Chicago nel 2001, in una mostra organizzata dall’Art Institute e sponsorizzata da Sompo. Secondo l’accusa, quando Mendelssohn-Bartholdy consegnò i Girasoli al mercante parigino Paul Rosenberg nell’autunno del 1934 (che riuscì a vendere le opere a una collezionista anglo-americana, Edith Beatty), le politiche confiscatorie naziste stavano provocando un caos finanziario, sociale e culturale sia su di lui che sulla Mendelssohn Bank. Questa situazione avrebbe dunque costretto il collezionista a liquidare la sua vasta collezione per poter sopravvivere economicamente, e i Girasoli sarebbero stati tra le “vittime”. Gli eredi avrebbero dimostrato che il loro avo non avrebbe voluto disfarsi delle opere, e che però lo fece solo a causa delle minacce e delle pressioni dei nazisti.
Un tribunale di primo grado aveva respinto le loro istanze nel 2024, dichiarandosi privo di giurisdizione. Secondo quella decisione, gli eredi non avevano “contatti sufficienti” con l’Illinois per portare avanti la causa. Gli avvocati sostengono invece che i legami siano giustificati dal fatto che Sompo ha un ufficio a Chicago e proprio qui il dipinto è stato esposto in un’importante mostra.
Secondo la Sompo, rappresentata dall’avvocato Daniel Graham, al di là del fatto che la compagnia sostiene che Mendelssohn-Bartholdy avrebbe venduto i Girasoli in un’asta come riferisce Courthouse News Service, l’HEAR Act ha eliminato i limiti temporali per intentare cause legate a vendite sotto costrizione, ma non creerebbe nuovi diritti sostanziali e non avrebbe ampliato l’ambito delle rivendicazioni. Secondo la difesa, invece, la legge è stata creata per far rispettare i principi della Dichiarazione di Terezin, accordo internazionale giuridicamente non vincolante, firmato nel 2009 da 47 paesi, per facilitare laddove possibile le opere d’arte trafugate dai nazisti. Il ricorso degli eredi cita espressamente la Dichiarazione, che impegna gli Stati firmatari a favorire la restituzione delle opere sottratte durante l’Olocausto. E sebbene non vincolante, la Dichiarazione rappresenta, secondo la loro tesi, un impegno diplomatico recepito dal Congresso con il varo del HEAR Act e dunque dotato di autorevolezza politica e giuridica.
Hamilton ha ricordato come la giurisprudenza della Corte Suprema, in particolare la sentenza American Insurance Association v. Garamendi del 2003, riconosca al presidente ampi poteri in politica estera. La Dichiarazione di Terezin, ha sostenuto, rientrerebbe tra quegli strumenti non vincolanti che però danno forma a un indirizzo diplomatico vincolante per l’amministrazione americana.
Il panel che ha ascoltato le argomentazioni era composto da tre giudici di diversa estrazione politica: John Lee e Doris Pryor, nominati da Joe Biden, e Kenneth Ripple, nominato da Ronald Reagan. Durante l’udienza, riferisce, Courthouse News Service, i giudici hanno posto domande puntuali sul rapporto tra accordi non vincolanti e obblighi giudiziari, ma non hanno lasciato intendere quale sarà l’esito della decisione.
Al centro resta il nodo giuridico: il quadro fu effettivamente venduto sotto coercizione, e quindi assimilabile a un bene espropriato dal regime? O si trattò di una transazione, per quanto dolorosa, che sottrae al caso la qualifica di “arte rubata dai nazisti”? Per gli eredi Mendelssohn-Bartholdy, la vendita non può essere separata dal contesto storico di persecuzione che ridusse al minimo le possibilità di scelta per le famiglie ebree. La cessione del dipinto, in questa prospettiva, non fu un atto libero, ma il risultato di un clima di violenza e ricatto, elementi che secondo il HEAR Act rientrano a pieno titolo nelle situazioni da sanare con la restituzione.
La decisione della Corte d’Appello del Settimo Circuito potrebbe dunque avere implicazioni significative, non solo per il destino di questo Van Gogh, ma anche per la definizione dei confini applicativi dell’HEAR Act e del ruolo dei tribunali statunitensi nella restituzione dell’arte saccheggiata dal nazismo. Per ora i giudici si sono riservati di decidere. Non è chiaro quando sarà emessa la sentenza, ma il caso rimane aperto, e con esso una ferita ancora viva nella memoria storica del Novecento.
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