Il Parlamento del Regno Unito discuterà nella giornata di oggi 8 luglio l’ipotesi di vietare la pubblicità e le sponsorizzazioni da parte delle aziende attive nel settore dei combustibili fossili. Il dibattito, previsto alle 16:30 ora locale e trasmesso in diretta streaming sul sito ufficiale del Parlamento, arriva in seguito al successo di una petizione pubblica che ha superato le 100.000 firme, soglia che nel paese impone l’obbligo istituzionale di un confronto parlamentare sul tema.
La richiesta avanzata dai promotori della petizione riguarda l’introduzione di un divieto per la promozione, tramite pubblicità e accordi di sponsorizzazione, delle attività di aziende che operano nel settore del carbone, del petrolio e del gas. Le ragioni alla base dell’iniziativa puntano al ruolo dei soggetti industriali nell’aggravamento della crisi climatica e si rifanno a precedenti legislativi, come il divieto imposto alla pubblicità del tabacco nel 2003, all’epoca introdotto dal governo laburista. Attraverso una lunga documentazione, il governo ha dichiarato che è nonostante il Regno si sia “impegnato a ridurre le emissioni, attualmente non ci sono piani per limitare la pubblicità sui combustibili fossili”.
L’emittente e attivista ambientale Chris Packham ha rilasciato una dichiarazione alla testata The Art Newspaper, affermando testualmente “Per troppo tempo abbiamo permesso a coloro che sono colpevoli di aver saccheggiato di più il nostro pianeta - i giganti dei combustibili fossili - di rendere verdi le loro sporche reputazioni attraverso la pubblicità e le sponsorizzazioni. Attraverso accordi multimilionari con il British Museum, il Science Museum e molte altre amate istituzioni culturali, aziende come BP e Shell effettivamente ‘acquistano’ la loro licenza sociale per continuare a operare. Non diciamo altro. La pubblicità del tabacco è stata vietata nel 2002 perché sappiamo tutti che fumare uccide. Anche i combustibili fossili uccidono, quindi facciamo il divieto”.
Il caso più discusso, e al centro di numerose polemiche, è la partnership da 50 milioni di sterline tra il British Museum e BP, il colosso energetico britannico. L’accordo è stato annunciato nel 2023 come parte di una strategia di raccolta fondi necessaria per sostenere i costi della grande ristrutturazione prevista dall’istituzione museale nei prossimi dieci anni. In un contesto culturale in cui le collaborazioni con società legate ai combustibili fossili stanno diventando sempre più controverse, l’intesa tra il museo londinese e BP ha attirato critiche da parte di attivisti, artisti e parte dell’opinione pubblica. “Penso che si debbano avere ragioni molto buone e chiare per rifiutare denaro che aiuterebbe a mantenere il British Museum libero al pubblico”, sostiene Nicolas Cullinan, direttore del British Museum, sulla donazione di BP.
Negli ultimi anni, infatti, diverse istituzioni culturali britanniche hanno scelto di interrompere accordi di sponsorizzazione con compagnie del settore fossile. La National Portrait Gallery, le gallerie Tate e la Royal Opera House hanno concluso i rispettivi rapporti con BP, segnando un progressivo distacco del mondo della cultura dalle imprese responsabili di elevati livelli di emissioni climalteranti. Il British Museum, pur confermando l’intenzione di proseguire la collaborazione con BP, ha dovuto fornire pubblicamente chiarimenti sull’operazione e giustificare la propria posizione di fronte a critiche crescenti.
L’annuncio, da parte di BP, di un cambio di rotta nelle politiche aziendali ha ulteriormente alimentato il dibattito. A febbraio 2025, il gruppo ha comunicato l’intenzione di ridurre gli investimenti nelle energie rinnovabili per concentrarsi sull’aumento della produzione di petrolio e gas. La decisione, secondo quanto reso noto, è maturata in seguito alle pressioni esercitate da alcuni investitori, preoccupati per i rendimenti inferiori rispetto ai competitor del settore.
Oltre al British Museum, anche il Museo della Scienza di Londra è finito al centro dell’attenzione mediatica per i legami con Adani Green Energy. La società fa parte del Gruppo Adani, primo produttore privato di carbone a livello globale. L’accordo in essere tra il museo e Adani ha sollevato dure reazioni da parte del National Education Union, i cui rappresentanti hanno organizzato una protesta di fronte all’istituzione culturale. L’azione dimostrativa ha voluto coinvolgere lavoratori del settore museale, docenti, scienziati e famiglie nel denunciare pubblicamente la presenza di sponsorizzazioni da parte di un gruppo industriale che mantiene una forte dipendenza dal carbone.
Il governo britannico, interpellato ufficialmente in merito alla possibilità di vietare pubblicità e sponsorizzazioni da parte delle compagnie fossili, ha dichiarato di non avere piani in tal senso. In una nota ufficiale ha ribadito il proprio impegno nella riduzione delle emissioni generate da prodotti ad alto contenuto di carbonio, ma ha anche chiarito che eventuali limitazioni alla pubblicità dovrebbero essere demandate ai comitati indipendenti di pratiche pubblicitarie e all’Advertising Standards Authority, l’ente regolatore britannico.
Tra le voci critiche alla presenza delle aziende del settore fossile nelle principali istituzioni culturali figura anche Frances Morris, direttrice della Tate Modern dal 2016 al 2023. In una dichiarazione rilasciata a The Art Newspaper, Morris ha espresso indignazione per il ruolo che, a suo avviso, i musei avrebbero nel contribuire all’ecologismo di facciata delle imprese fossili, aiutandole a costruirsi un’immagine rispettabile attraverso la visibilità culturale. “Mentre il Regno Unito corre per raggiungere i nostri obiettivi netti zero, la necessità di combattere l’estrazione di combustibili fossili non è mai stata così urgente”, ha detto Morris. “Mentre molti musei, istituzioni culturali e artisti stanno adottando misure significative per combattere l’escalation della crisi climatica e naturale, è profondamente frustrante che alcune istituzioni di alto profilo dimostrino una leadership irresponsabile e continuino a sostenere accordi di partnership aziendale greenwashing con i principali inquinatori planetari. La legislazione per vietare tali accordi è fondamentale. Libererebbe le nostre istituzioni dai conflitti di interesse che attualmente affrontano nella raccolta fondi, consentirebbe loro di rifocalizzare i loro ruoli e le loro responsabilità e le aiuterebbe a ricostruire la fiducia del pubblico che stanno attualmente rischiando di perdere”.
Il tema, al centro di un dibattito che coinvolge dimensioni ambientali, etiche, culturali ed economiche, non è nuovo, ma l’interesse attuale si inserisce in una fase storica segnata da crescenti pressioni sui governi per adottare misure concrete nella lotta al cambiamento climatico. L’esito del confronto a Westminster potrebbe non portare nell’immediato a un cambiamento legislativo, ma segna un passaggio rilevante nel processo di ridefinizione dei rapporti tra istituzioni pubbliche, settore privato e responsabilità ambientali.