A Roma un’ouverture della nuova stagione artistica leggermente impaziente ma positiva con il primo appuntamento espositivo della capitale alla galleria Basement dei fondatori della rivista d’arte Cura, Ilaria Marotta e Andrea Baccin, che hanno dato il via il 10 settembre 2025 alla prima edizione della loro biennale chiamata BAAB, Basement Art Assembly Biennale, che scommette su un format dinamico, seppur già ampiamente collaudato, con delocalizzazione, performance e lunga durata. Diversi gli appuntamenti e le location in programma fino a Novembre.
Fra gli artisti esposti Carsten Höller e il suo distributore automatico di pillole, David Horvitz e il suo giardino sociale, Davide Balula e il suo cocktail homemade a base di vodka ed erbe servito da giovani bariste e baristi dietro un bancone piastrellato di bianco del bar di altri artisti, Calla Henkel e Max Pitegoff, poi Claudia Comte e le sue curve optical, Jeremy Deller e il suo documentario su una sociologia britannica un po’ didattico, Hannah Black e il suo display politico, e infine il prêt-à-porter alternativo ma strumentale di Mattie Barringer e Amanda McGowan del collettivo Women’s History Museum.
Fra i consulenti di questo progetto di Biennale, e a mio parere forse anche un po’ testimonial, il mitico Nicolas Bourriaud (Niort, 1965) inventore dell’estetica relazionale teorizzata negli anni Novanta e che ha sorpreso tutta Parigi e il mondo rilevando su incarico ufficiale l’allora fatiscente Palais de Tokyo insieme al co-curatore Jérôme Sans e agli architetti Lacaton & Vassal, con una formula espositiva mai sperimentata prima in un museo statale, fra il 2002 e il 2006. Ero presente alla storica inaugurazione del gennaio 2002 del Palais de Tokyo che diventerà istantaneamente tappa obbligata del mondo dell’arte contemporanea (e non solo) della capitale francese, soppiantando di colpo il più modaiolo Centre Pompidou. So che impatto ebbe l’apertura del Palais de Tokyo sui giovanissimi (ero allora studentessa alla Sorbonne) questo museo che apriva in maniera inaspettata le porte alla nostra brama di creare e di fare movimento in una Parigi che volevamo tutti conquistare e segnare. Un’adesione spontanea e un’affluenza continua che ha colto di sorpresa perfino i curatori e che ha trasformato in una festa perpetua quella inaugurazione durata cinque giorni e notti.
All’interno molto cemento, ampi spazi e sopratutto l’ingrediente clou: l’imprevedibilità ad ogni angolo, il caos, che tanti tentano ancora oggi di replicare. Ricordo una colazione-brunch con montagne di arance spremute servita a tutti nella hall centrale, e il nostro entusiasmo, noi rampante generazione X, nel cogliere senza bisogno di spiegazioni che era anche quella un’opera d’arte da vivere, un’opera che si stava attuando sotto i nostri occhi e anche grazie a noi. Tutta l’inaugurazione diluita nel tempo era un’opera accogliente e inclusiva, fatta per noi e realmente aperta alla nostra attiva presenza. In quel momento la teoria di Nicolas Bourriaud vinse la scommessa e fece cultura o “permacultura” per usare un termine a lui caro.
Ritrovare Nicolas Bourriaud qui a Roma, dove fra poco più di un mese presenterà la sua prima retrospettiva sull’arte relazionale al Maxxi, è insieme un’emozione, un onore e un vanto per Roma che sancisce e partecipa in questo modo alla storicizzazione di un movimento globale dell’ultimo trentennio che senza Bourriaud sarebbe rimasto indefinito e amalgamato al post-modern, senza un obiettivo né una direzione. Con il concetto dell’Arte Relazionale, Bourriaud ha inaugurato non una corrente né un’avanguardia ma una stagione globale dell’arte contemporanea, che in questa intervista paragona alla stagione mondiale della Pop Art.
REF. Ci siamo incontrati a Roma nel 2018 durante la Sua conferenza al museo d’arte contemporanea Macro Asilo, allora diretto dall’antropologo Giorgio De Finis. È tornato recentemente a Roma per parlare delle sue ultime riflessioni sull’Antropocene al Museo Maxxi. Cosa La riporta oggi a Roma?
NB. Quello che mi riporta a Roma sono le persone che hanno fondato CURA Magazine, Ilaria Marotta e Andrea Baccin, che mi hanno chiesto di entrare a far parte del comitato direttivo di BAAB, questa idea di Biennale che ho voluto sostenere. Trovo che sia molto importante che esistano iniziative private che contribuiscano a dare spazio ai giovani artisti, anche internazionali, permettendo loro di esprimere i propri punti di vista sull’arte contemporanea. Penso quindi di essere pienamente nel mio ruolo, venendo qui a sostenere questa iniziativa.
Il Suo ruolo consiste anche nel dare una struttura a BAAB, un progetto di Biennale romana d’arte diluito nel tempo e nella città?
No, io faccio parte dell’advisory board, solo da quest’anno.
È la prima edizione?
Sì, vedremo come si svilupperà. Ho scritto un testo per il catalogo, e spero di poter partecipare a questa avventura.
Quindi si tratta di una collaborazione a lungo termine?
Sì, perché quando si è membri di un board, si sostiene la struttura.
In che modo, esattamente?
Condividendo la propria esperienza, dando il proprio parere.
Ha condiviso anche la Sua rete di contatti, di artisti?
Sì, certo.
Che cosa ha portato a questa prima edizione?
Per il momento, non molto. Non si tratta di partecipare a qualcosa di circostanziale o a un evento. Si tratta di accompagnare il progetto nel suo sviluppo e nella sua durata.
È stato contattato con largo anticipo da Ilaria e Andrea, che sono anche i fondatori della galleria romana Basement?
Sono stato contattato quest’anno, proprio per aiutare in una prospettiva di lungo termine.
Cosa L’ha convinto esattamente?
Ho trovato il progetto interessante e ho pensato che andasse nella giusta direzione.
Ci spieghi il progetto con parole Sue. Il titolo di questa Biennale è “Basement Art Assembly Biennale”, le cui iniziali formano la parola araba BAAB, che significa “porta”.
Mi piace l’idea di basement, cioè di occupare spazi non ovvi per esporre opere d’arte.
Risponde ai Suoi criteri espositivi?
Non in assoluto, ma penso che il progetto sia interessante.
Quindi “basement”, seminterrato in inglese, è un concetto nelle Sue corde?
Sì, mi parla. Penso che in futuro potrà svolgersi in altri luoghi, svilupparsi, crescere.
Ha già in mente dei luoghi specifici a Roma dove diffondere questa Biennale?
Non lo so, ne discuteremo un po’. Non abbiamo ancora fatto una riunione con gli organizzatori.
Immagino studierà a fondo la città di Roma, le sue problematiche e i suoi potenziali.
Sono venuto spesso a Roma negli ultimi due anni. C’ero già stato prima, ma particolarmente in questi ultimi due anni perché sto lavorando a una mostra che si terrà al museo Maxxi a partire dal 28 ottobre 2025.
Quale sarà il tema di questa mostra?
La mostra si chiama 1+1 (One Plus One) The Relational Years, ed è una sorta di retrospettiva, una riflessione meditativa su ciò che è stata l’estetica relazionale degli anni Novanta e sul suo sviluppo negli anni successivi.
Sarà la prima grande retrospettiva sulla Sua estetica relazionale?
Sì, una mostra retrospettiva sulla relazione. Quindi questo giustifica la mia presenza qui.
Bartolomeo Pietromarchi, che ha diretto il Maxxi, è presente questa sera all’inaugurazione della Biennale.
Conosco molte persone a Roma.
Cosa l’attrae in particolare in questa città, la capitale italiana?
Ciò che mi interessa di Roma è, un po’ come per Parigi, il fatto che siano città con un immenso passato e che devono imparare a gestirlo per poter produrre un futuro. Penso che, come diceva André Malraux, “si cammina male nel vuoto”. Dunque si cammina meglio su un suolo abitato da persone, abitato da eventi. E penso che l’arte contemporanea non debba tagliare i ponti con il passato. Al contrario, deve imparare a valorizzarlo e a renderlo presente.
La Sua estetica relazionale ha già trent’anni. Bisogna considerarla un ideale del passato?
No, perché ciò che è interessante è che ci sono ancora molti giovani artisti che si riconoscono in queste idee. Idee che non sono necessariamente datate. Anche se ha trent’anni o più, un’estetica può avere dei prolungamenti, un futuro, nuove applicazioni.
Una volta teorizzata, in effetti, ci vuole del tempo perché un’estetica venga assimilata e faccia il suo percorso nelle pratiche artistiche.
Una teoria deve essere vissuta dagli artisti, sviluppata dagli artisti, portata avanti dagli artisti.
L’estetica relazionale si è diffusa tra gli artisti di tutto il mondo fin dalle sue prime intuizioni pubblicate in Francia negli anni Novanta. Chi sono oggi coloro che si richiamano a questa estetica?
Ce ne sono molti oggi. In Bangladesh il Britto Arts Trust, in Brasile Opavivará, sono collettivi. Si è molto sviluppata nel senso di una produzione collettiva. L’ultima Documenta, quella del 2022, era interamente dedicata a questo. Era una sorta di omaggio all’estetica relazionale, in un certo senso. Il collettivo Ruangrupa, curatore di quell’edizione della Documenta, ha lavorato a partire da un concetto chiamato Lumbung. Il Lumbung è il granaio collettivo del riso in un villaggio indonesiano. E penso che sia davvero un’estensione straordinaria di questa idea di estetica relazionale.
E qui a Roma, in particolare, ha notato tendenze relazionali?
A Roma, a Parigi, a Berlino, a New York, ci sono sempre persone che si rifanno a questo. Il proseguimento più evidente di questa estetica è l’estetica del care, cioè del prendersi cura.
Prendersi cura: siamo nel campo dell’affettivo. È un aspetto che aveva già individuato all’inizio della Sua teoria sull’arte relazionale?
Non è un aspetto nuovo, era già presente nel libro [nda: L’Art Relationnel, 1998]. Un’artista che si chiamava Christine Hill diceva che cercava di riparare le fratture del corpo sociale. E molti artisti lavoravano anche su dimensioni emotive, sulla relazione umana, come Noritoshi Hirakawa in Giappone e molti altri. Quindi non è una novità, è una sfaccettatura dell’estetica relazionale che è stata molto più sfruttata dalla società contemporanea, e che corrisponde a una sociabilità attuale, nella misura in cui, ad esempio, l’estetica queer oggi è attraversata dall’emozionale, dalla necessità di prendersi cura, di coltivare una certa emozionalità. È qualcosa che vedo un po’ dappertutto, quindi per me non si tratta di cose nuove, ma di sviluppi.
L’emotivo non è proprio la stessa cosa dell’affettivo.
Sì, io trovo che lo sia.
Cosa distingue il relazionale dalle public relation, dal networking o dal lobbying, per usare termini manageriali che si praticano ovunque?
La definizione che davo dell’estetica relazionale era: un’arte che prende come base teorica e pratica la sfera delle relazioni umane. E tutto ciò di cui ho appena parlato corrisponde a questo. Era una definizione piuttosto generale, come “Pop Art” negli anni Sessanta.
La Pop Art è l’opposto dell’emotivo e del relazionale.
Totalmente, nella misura in cui si basa sul consumo di massa, sul prodotto, sulla pubblicità. Ma se guardate tutto ciò che la Pop Art ha influenzato negli anni Sessanta (che sia in Brasile, in Spagna, in Italia) ci sono cose che non assomigliano per forza a Warhol o Rosenquist, ma che appartengono in modo generale alla sfera della Pop Art. Penso che l’estetica relazionale sia un po’ la stessa cosa. È una base da cui numerosi artisti hanno sviluppato i propri interessi, le proprie problematiche. Ed è magnifico vedere tutto questo, trent’anni dopo.
Nel testo che ha scritto per il catalogo di BAAB, lei parte dall’etimologia della curatela che viene dal verbo “curare”, prendersi cura degli artisti, delle opere. L’arte relazionale è anche curare i sentimenti?
È un gioco di parole che funziona soprattutto in italiano. In Italia, in italiano, si ha memoria dell’etimologia. In francese non l’abbiamo. In inglese nemmeno molto.
Del resto, forse nemmeno a livello sociale.
Nemmeno a livello sociale, sì.
Eppure diceva prima che secondo lei Parigi e Roma si assomigliano, mentre verrebbe più naturale pensare che, almeno a livello affettivo, Roma abbia molto di più da offrire rispetto a Parigi. L’Italia ha in generale una cultura mediterranea, più calorosa e accogliente, dove l’affetto è ancora molto radicato.
Tendo a pensare che siano concetti molto condivisi in tutta Europa. Non credo che il concetto di cura o prendersi cura sia legato specificamente a Roma. È qualcosa che vedo spesso anche a Parigi. Parigi è cambiata, del resto. Negli ultimi dieci anni è cambiata molto.
Secondo Lei, cosa ha fatto sì che Parigi cambiasse a livello emotivo?
Ci sono molti più collettivi. Ci sono problematiche che sono tanto importanti a Parigi quanto a Roma. Penso che il tema del care, “prendersi cura”, e quello dell’Antropocene siano altrettanto rilevanti a Parigi come a Roma. Oggi viviamo in società post-industriali, tutte colpite e influenzate dalle stesse dinamiche. Penso che il problema dell’Antropocene, ad esempio, sia importante a Roma tanto quanto a Berlino o Parigi.
Durante la conferenza al Maxxi, ha parlato della fine della distanza - che io interpreto come fine della privacy e dell’intimità - come principale conseguenza dell’istantaneità, della globalizzazione, del sovrappopolamento e del cambiamento climatico. Ha detto che viviamo una saturazione dello spazio comune. Come spiega il fatto che, nonostante questa saturazione, si riescano ancora a creare collettivi – in fondo delle amicizie? Come può sopravvivere oggi la sfera affettiva, nonostante tutto?
È sempre più minacciata dalle condizioni di vita imposte a tutti gli esseri umani nel mondo occidentale. In Italia, in Francia, in Germania, in Spagna: sono tutte realtà in cui le cose non differiscono molto. È l’economia capitalista che genera valori che influenzano il mondo intero.
Non trova che la Francia sia più colpita dell’Italia dal capitalismo, a livello affettivo?
No, non lo penso. Non ho affatto questa impressione.
Quindi secondo Lei non c’è nulla che distingua la società italiana da quella francese a questo livello?
Ci sono molte cose che le distinguono culturalmente, ma non a questo livello. Sono entrambe economie capitaliste che puntano a standardizzare tutto. Poi sta a ciascuno rispondere, opporsi, trovare modi per sfuggire agli standard. Sono molto contento di essere in Italia perché, culturalmente, ovviamente, è molto diversa dalla Francia.
Cosa distingue le due culture?
Sarebbe una discussione molto lunga! La storia di questo paese non è la stessa della storia francese, e si sono create differenze nella cultura.
Il Cristianesimo è forse alla base di questa differenza relazionale.
Anche la Francia è un paese molto cristiano.
Ma si sente molto meno il peso del cristianesimo a Parigi che qui a Roma vicino al Vaticano.
È vero. È vero che in Francia c’è molto più ateismo dichiarato e che la separazione tra Chiesa e Stato, nel 1905, ha creato un contesto molto diverso rispetto all’Italia.
Qui l’ateismo resta un concetto piuttosto astratto, non ancora del tutto assimilato.
È vero, ma non si può dire che la Francia non sia un paese profondamente cattolico.
In Italia il legame familiare resta molto forte, il che conferisce un vissuto relazionale apparentemente più affettuoso.
È meno marcato in Francia perché, sin dall’inizio del XX secolo, il paese si è organizzato intorno alla famiglia mononucleare, mentre l’Italia è rimasta fino agli anni Ottanta-Novanta fortemente dominata da una struttura familiare polinucleare, accogliendo per esempio i nonni, con una visione più estesa della famiglia. Ma questi sono fatti sociologici. Quello che producono a livello artistico è un’altra questione.
Chi sono le persone della Sua famiglia allargata qui in Italia?
Persone, individui. Con cui ho condiviso momenti, una storia, e che mi piace ritrovare regolarmente.
Persone che fanno parte della Sua avventura relazionale?
Certo, anche.
Cosa è cambiato nella Sua teoria dall’uscita del Suo primo libro sull’arte relazionale fino alle Sue pubblicazioni più recenti sull’Antropocene?
C’è stato un cambiamento evidente. All’inizio degli anni Duemila, quando Paul Crutzen ha coniato il concetto di “Antropocene” e ha mostrato in maniera chiara l’impatto dell’industria umana sul clima, c’è stata una presa di coscienza generale. Questo si è tradotto, ad esempio, nel lavoro di artisti come Pierre Huyghe.
Lei cita spesso Pierre Huyghe.
Sì, perché abbiamo avuto un percorso simile.
È il suo alter ego?
Tendo a pensarlo, sì. Era veramente interessato alle relazioni interumane negli anni 1990-1995.
Non lo ha portato qui con sé stasera.
No, ma sarà presente nella mostra del Maxxi. Come me, anche Pierre Huyghe si è reso conto che non ci si poteva più limitare alla sfera interumana. Le relazioni includono anche il non-umano, ovvero: non possiamo più parlare di relazioni senza pensare ai legami che ci uniscono agli animali, ai minerali, alla vita batterica eccetera, alla vita in generale.
Ha persino detto di più: che oggi non si può più comprare nemmeno un semplice barattolo di Nutella senza essere consapevoli del suo impatto ambientale ovvero che contribuisce alla deforestazione in Indonesia, ad esempio.
Sì, l’effetto farfalla è diventato una realtà concreta.
Non si può più sfuggire a questa presa di coscienza, nemmeno negando l’impatto ecologico?
No, non si può più. E questo ha fatto evolvere l’estetica relazionale. Ho scritto molto su ciò che ho chiamato “l’estetica relazionale integrale”, che è l’insieme delle relazioni che abbiamo con il vivente. È animata da un’idea fondamentale, ossia che non ci sono relazioni tra un soggetto umano e degli oggetti, ma soltanto relazioni tra soggetti. Il vivente ha una “agentività”: tutti gli elementi viventi sono agenti della vita nella quale siamo immersi. Non possiamo più limitarci alla sola sfera delle relazioni tra esseri umani: dobbiamo integrare la totalità dei soggetti esistenti. Ora vediamo il mondo in modo completamente diverso.
Non trova che questo assomigli, in un certo senso, ai principi cattolici dell’amore universale?
No, il cattolicesimo si basa su un’idea esattamente opposta. Nella Genesi c’è la famosa frase secondo cui l’essere umano dominerà su tutta la Creazione. Animali, vegetali: tutto dovrebbe essere oggetto dell’uomo.
Eppure il messaggio di Gesù Cristo, si rivolgeva a tutti. Mi fa pensare anche al Cantico delle Creature di san Francesco.
Il messaggio di Cristo era rivolto solo agli esseri umani, assolutamente non al resto del vivente.
Quindi l’idea dell’amore cristiano era un po’ più limitata?
Molto limitata, ma era già qualcosa, si potrebbe dire.
Dunque ha evitato volutamente la parola “amore” nella sua teoria relazionale? Avrebbe potuto chiamarla estetica amorosa?
Ho evitato il termine “amore” perché è troppo abusato, troppo connotato cattolico. Il cattolicesimo è un’impresa di asservimento del vivente a favore dell’essere umano. È scritto chiaramente nella Genesi, non me lo sto inventando.
Bisogna evitare di parlare d’amore oggi?
Non evitarlo, ma nemmeno rivendicarlo come termine per un’estetica. Uso il termine “amore” nel contesto della permacultura.
Ci spieghi qual è il posto dell’amore nell’arte relazionale.
La permacultura è la ricostruzione di tutti i legami esistenti all’interno di un ecosistema. La nozione di philia, che in greco è una delle forme dell’amore, è onnipresente. È in questo modo che collego l’amore all’arte contemporanea. L’opera di un artista non è una serie di oggetti, è un ecosistema.
Significa che per creare un’opera d’arte bisogna per forza fare gruppo?
Un ecosistema non è un gruppo, ma un sistema che si autoalimenta e poi si densifica. E questa densificazione è proprio l’opera d’arte.
Quindi l’opera d’arte è l’insieme delle relazioni di un artista.
È la produzione di relazioni tra le diverse parti della sua opera.
Faccio fatica a capire secondo la Sua teoria come distinguere, prendiamo ad esempio un artista come Jeff Koons (una star con una sfera d’influenza esagerata) da un artista che ha un impatto reale, proporzionato e più autentico sul proprio entourage e sul proprio ambiente.
È forse proprio lì che un artista come Jeff Koons pecca! È lì che c’è un problema... comunque bisogna rifletterci, non ne sono certo. Però penso che ogni artista, almeno quelli che mi interessano, lavori per densificazione del proprio ecosistema, e non per semplice addizione. Questa densificazione è l’arricchimento di un ecosistema, in cui le cose si rispondono tra loro. In Picasso, le opere si rispondono tra loro, c’è una densificazione degli stessi temi. Non è un’addizione di temi, è un pensiero ecosistemico.
Chi sono oggi gli artisti come Picasso, che Lei ha potuto identificare? Sono tutti suoi amici?
No, non li conosco tutti. Non farò una lista, sarebbe troppo lunga. Ci sono molti artisti, ad esempio, che già lavoravano in questo modo prima ancora che li invitassi alla Biennale di Gwangju. Gli amici sono le persone con cui condividiamo una storia. I nostri amici non sono solo i nostri migliori amici, sono quelli che hanno visto le stesse cose che abbiamo visto noi, gli stessi film, le stesse mostre. Quelli sono i veri amici. Non è una questione di nomi propri, ma di principi, credo.
Lei pronuncia una frase, secondo me incisiva, ovvero che “l’affettivo fa parte dell’ecologia”. È possibile oggi un’estetica amorosa? Penso, ad esempio, ad artisti come Giosetta Fioroni, ancora in vita, per la quale è stato usato il concetto di “Pop sentimentale”, e che ha moltiplicato nelle sue opere simboli affettivi come il cuore, o altri legati all’infanzia o all’amore per gli animali domestici come il suo bassotto.
È un tema assolutamente positivo e interessante, non lo trascuro affatto. Ci sono molti artisti che hanno lavorato su questo, come Dorothy Iannone. Ma semplicemente, in relazione alla mia personale struttura filosofica, ho evitato di usare il termine “amore” perché è troppo legato al cattolicesimo.
Lei però ha usato spesso il termine “emozionale”, che però è ancora piuttosto distante dal “sentimentale”.
No, io non vedo alcuna differenza: l’emozione è un sentimento. Li trovo praticamente identici.
Per le neuroscienze il sentimento è tecnicamente più elaborato rispetto all’emozione che appartiene piuttosto al dominio della pulsione.
È solo una questione di grado: l’amore è più elaborato di un’emozione, ma è la stessa cosa.
Tra le altre cose, ha recentemente diretto una Biennale in Corea dopo quella di Istanbul. In quale parte del mondo ha percepito e prodotto di più questa sfera affettiva o relazionale?
Mi è piaciuta molto Gwangju, in Corea, ma non ci vivrei. Ho vissuto a Londra per tre anni e a New York negli anni Novanta, ma oggi New York è diventata un ghetto per ricchi. All’epoca in cui ci vivevo era molto più aperta e interessante, perché molti artisti abitavano a Manhattan. Amo molto Kyoto e potrei vivere a Roma.
Per inviare il commento devi
accedere
o
registrarti.
Non preoccuparti, il tuo commento sarà salvato e ripristinato dopo
l’accesso.