Leggere l'arte del presente senza gerarchie. Intervista a Maurizio Coccia


Un’intervista al curatore e direttore artistico di Palazzo Lucarini tra formazione, incontri fondamentali, pratica curatoriale e responsabilità etica. Un racconto trasversale che attraversa arte, umanità e visione del presente senza specialismi né gerarchie.

Qual è il senso del curare l’arte contemporanea oggi, inteso come pratica di connessione e di emersione del presente? In questa intervista con Gabriele Landi, Maurizio Coccia, Direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Palazzo Lucarini di Trevi (Perugia) e docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Perugia, riflette sul ruolo del curatore, rifiutando l’idea di una leadership autoritaria per definirsi piuttosto come un facilitatore di connessioni, attento alle stratificazioni del presente e ai processi di pensiero che si traducono in azioni artistiche. Centrale è il rapporto umano con gli artisti, fondato sull’empatia e sulla fiducia, così come una concezione “onnivora” dei linguaggi visivi, lontana da specialismi e gerarchie. L’intervista affronta anche il tema della responsabilità etica dell’intellettuale, il rapporto tra arte e politica, lo stato dell’arte contemporanea in Italia e l’esperienza della direzione condivisa di Palazzo Lucarini, restituendo il ritratto di una pratica curatoriale radicata nella realtà e aperta al dialogo.

Maurizio Coccia. Foto: Stefano Ventilii
Maurizio Coccia. Foto: Stefano Ventilii

GL. Come nasce il tuo interesse per l’arte e in particolar modo quello per l’arte contemporanea?

MC. È successo un po’ per caso. Io ho sempre subito il fascino delle materie umanistiche. Fin da tempi non sospetti. Crescendo, poi, mi sono focalizzato sulle espressioni visive della creatività. Non solo l’arte, ma anche l’architettura, il design e la grafica pubblicitaria. Nel frattempo lavorarvi Dopo la laurea, per una serie di coincidenze fortuite, sono entrato nel sistema artistico fino all’incontro determinante con Giancarlo Politi. E da lì, tutto è cambiato.

Che studi hai fatto?

Mi sono laureato in Pedagogia, all’Università di Parma. Al tempo non c’era una facoltà di Lettere e filosofia né una in Conservazione dei Beni culturali; quindi, per ragioni di massima approssimazione, ho impostato il mio piano di studi su tutte le discipline storico-artistiche disponibili. Alla fine, pertanto, credo di aver seguito un percorso trasversale tra le materie umanistiche - filosofia, sociologia, psicologia…, più tutto il repertorio delle materie caratterizzanti studiando la storia dell’arte sotto l’egida granitica del leggendario Arturo Carlo Quintavalle. Tutto questo ha fatto sì io diventassi uno storico dell’arte felicemente “meticcio”, ma senza eclettismi impropri.

Ci sono stati degli incontri importanti durante gli anni della tua formazione che hanno in qualche modo avuto un influsso sullo sviluppo del tuo lavoro?

Non vorrei sembrare retorico, ma a ogni nuovo incontro sento di aver acquisito qualcosa in più. Sono più carico di tensioni e stimoli. Ricordo che Edgar Morin una volta scrisse “… sono diventato tutto quello che ho incontrato.” Ecco, è una formula in cui mi riconosco. O meglio, è un atteggiamento osmotico incessante, che non posso – né voglio – modificare. Detto questo, sicuramente devo moltissimo a Giancarlo Politi. La sua generosità e il suo “pragmatismo romantico” mi hanno aiutato e influenzato notevolmente. Un altro incontro fondamentale fu quello con Getulio Alviani. Ciò che so, sugli aspetti tecnici e scientifici rispetto al montaggio delle mostre, lo devo a lui. Ricordo un’intensissima giornata trascorsa nell’allestimento di una grande mostra di artisti cinesi, durante la quale mise a dura prova la mia pazienza, ma mi trasmise un bagaglio unico di conoscenze e indicazioni – a volte folgoranti – sulla percezione dello spazio espositivo, che ancora oggi mi indirizzano. Devo poi aggiungere un altro episodio, non strettamente legato al mondo artistico, che però ha lasciato il segno profondissimo. Ero ancora all’università e un giorno, a Parma, incontrai Derek Walcott, che da lì a poco sarebbe diventato premio Nobel per la Letteratura. Portavo sempre con me, piegata nel portafoglio, una sua poesia. Gliela mostrai e gli chiesi l’autografo, scambiammo due parole, e lui mi salutò sorridendo. Ecco, quella sua disponibilità, l’enormità del suo genio rivestito di umiltà, mi ha fatto capire che i grandi, i veri Grandi, non hanno bisogno di proteggersi con l’arroganza o lo snobismo. Non devono dimostrare niente a nessuno.

Satya Forte, Non v’è luce nella ferita, Installazione site-specific, Palazzo Lucarini, 2023. Foto: Luigi Vetuschi
Satya Forte, Non v’è luce nella ferita, Installazione site-specific, Palazzo Lucarini, 2023. Foto: Luigi Vetuschi
Fabrizio Segaricci, Articolo Primo, Istallazione dell’opera sui ponteggi di Pazza Mazzini a Trevi, 2011
Fabrizio Segaricci, Articolo Primo, Istallazione dell’opera sui ponteggi di Pazza Mazzini a Trevi, 2011
Marco Brandizzi, Ascoltavo una musica rivoluzionaria, particolare della mostra a Palazzo Lucarini, 2022
Marco Brandizzi, Ascoltavo una musica rivoluzionaria, particolare della mostra a Palazzo Lucarini, 2022

Come intendi il tuo lavoro?

Non interpreto il ruolo di curatore come quello di leader nel processo ideativo e realizzativo delle mostre. Lo vedo piuttosto alla stregua di un geologo di fronte alla stratificazione del presente. Stimolo – ci provo, almeno – delle emersioni, propongo delle connessioni, evidenzio associazioni inedite. A volte ho intuizioni che cerco di condividere con gli artisti o i soggetti che a vario titolo mi sembrano idonei a diventare interlocutori attivi. Ma raramente perseguo un filone estetico o formale a priori. Probabilmente è un limite mio, ma prediligo – diciamo così, istintivamente – processi di pensiero trasversali, e ancorati alla realtà, che si materializzano in “azioni” artistiche. E sotto questa definizione ci può stare di tutto, dalle mostre ai talk ai convegni ai workshop.

Nella babele dei linguaggi visivi della contemporaneità c’è qualcosa che prediligi e che cosa ti attrae di questi linguaggi?

Tutto. Sul serio, sono culturalmente onnivoro. Da moltissimo tempo, infatti, non è più tempo per specialismi né ossessioni filologiche. Io non ho nessuna preferenza aprioristica. Nell’introduzione al catalogo della Biennale di Venezia del 2001, Harald Szeemann scrisse che aspirava a una storia dell’arte sotto il profilo dell’intensità. Così piacerebbe anche a me. Una narrazione enciclopedica, ma empirica, di ciò che ha energia e coerenza artistica. Il racconto del tempo in cui vivo, senza gerarchie imposte: alto e basso, pittura e cinema, performance e letteratura, filosofia e agonismo sportivo… Purtroppo, il rischio di dilettantismo è dietro l’angolo. Per questo, quindi, occorre molta attenzione e passione per restare fedeli alla precisione grammaticale dell’arte.

In che modo ti avvicini al lavoro di un’artista?

L’aspetto umano per me è centrale. Spesso si tratta di persone conosciute da un po’, di cui “mi fido”. Se dietro un’opera interessante non c’è un feedback di empatia, lascio perdere. Poi, può succedere di tutto, è ovvio. Ma questo è il primo grado di selezione. Difficilmente perlustro i social. Passo piuttosto attraverso le mostre e le indicazioni di colleghi o altri artisti. Naturalmente, c’è il bacino dell’accademia e il suo indotto. Mi piace confrontarmi con giovani artisti. Mi sorprende sempre e mi aiuta a crescere, ogni volta.

La direzione bicefala di Palazzo Lucarini (condivisa con Mara Predicatori) che dinamiche segue?

Conosco e stimo Mara Predicatori da oltre due decenni. Senza di lei, Palazzo Lucarini non sarebbe ciò che è diventato. Finora c’è stata una totale sintonia nella gestione della programmazione di Palazzo Lucarini, vivacemente arricchita proprio dalle rispettive idiosincrasie. I ruoli, tuttavia, in quanto complementari, sono diversi. Oltre che co-curatrice di moltissime mostre, Mara è responsabile del settore educativo, cui unisce compiti (e grande capacità) nei rapporti istituzionali. Per quanto mi riguarda, invece, nella veste di Direttore artistico svolgo attività di indirizzo e supervisione sul programma e le iniziative collaterali.

A seguire le domande di alcuni amici artisti che ho coinvolto in questa avventura. Franko B: Pensi che l’arte possa cambiare il mondo o è il mondo che cambia l’arte?

L’arte, secondo me, ha sempre accompagnato l’evoluzione dell’umanità. Almeno sul piano storico-artistico. Non credo, però, che abbia mai svolto un ruolo davvero attivo nel cambiamento. A meno che non ci si addentri nell’antropologia culturale. Ma a quel punto dovremmo intenderci sul termine “arte”. L’arte, però, rappresenta una sintesi del momento storico – in tutte le sue forme – che l’ha vista e stimolata a nascere. È più di un oggetto: è un’azione che si come nel mondo. E come tale, s’inscrive nella sterminata estensione delle possibilità. Penso che ci aiuti a vedere la realtà sotto una prospettiva diversa. In questo, se vogliamo, c’è un potenziale di cambiamento.

Franko B, Because Love, vista parziale della mostra a Palazzo Lucarini, 2016
Franko B, Because Love, vista parziale della mostra a Palazzo Lucarini, 2016
Taking Care, Ingresso del Padiglione Italia, a cura del studio Tam Associati - Biennale architettura 2016, Venezia
Taking Care, Ingresso del Padiglione Italia, a cura del studio Tam Associati - Biennale architettura 2016, Venezia
Silvia Camporesi, Il paese sommerso, il paese che emerge (2019), Under Glass, mostra online sui canali social di Palazzo Lucarini, 2020
Silvia Camporesi, Il paese sommerso, il paese che emerge (2019), Under Glass, mostra online sui canali social di Palazzo Lucarini, 2020

Mario Consiglio: Perché non hai mai espresso un parere sul genocidio in corso a Gaza?

Sui social, forse. Perché è un tipo di attivismo che non mi appartiene e in cui non mi riconosco. Come la maggior parte degli intellettuali che, nonostante tutto, sono politicamente impegnati. Ricordo Godard che diceva: “Non faccio film politici, ma faccio film politicamente”. Ho partecipato, invece, a manifestazioni pubbliche e cortei. Quando è stato il caso, durante le lezioni o nei dibattiti, ho sempre espresso con estrema chiarezza il disgusto e l’orrore per ciò che accade a Gaza.

Laura Patacchia: Cosa ne pensi della situazione che vive il mondo dell’arte oggi in Italia? Se dovessi scriverne un libro quale titolo daresti?

Non credo che sia peggio che in passato. Le energie ci sono e i social forniscono occasione per enorme visibilità. Riguardo alla qualità delle realizzazioni, se noi piangiamo, non vedo altri stati ridere spensieratamente. Ciò che ci manca, come sempre, è un serio e solido appoggio istituzionale che agevoli il lavoro artistico nei termini di produzione, conoscenza, diffusione. Non solo a livello internazionale, ma qui da noi: nelle scuole prima di tutto. Il titolo che vorrei al mio libro sarebbe, per ovvi motivi, una citazione dalla biografia di Jim Morrison: “Nessuno uscirà vivo di qui”. Ma ci sarebbero sicuramente problemi coi diritti d’autore… quindi, non saprei. Scherzi a parte, preferirei qualcosa che incitasse all’apertura e a uscire dalla condizione di autotutela e strategie relazionali che vedo dilagare, sopratutto tra i giovani talenti. Qualcosa, insomma, che avesse più a che fare con la generosità che non con la carriera.


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Gabriele Landi

L'autore di questo articolo: Gabriele Landi

Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.



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