Un artista non sa tutto del suo lavoro. La fotografia concettuale di Pierluigi Fresia


Un artista non sa tutto del suo lavoro, anzi spesso ciò che è più importante si cela dietro quello che l’artista non sa spiegare. È così per Pierluigi Fresia, classe 1962, fotografo concettuale che, in questa conversazione con Gabriele Landi, ci racconta le idee che sostengono la sua arte.

Pierluigi Fresia (Asti, 1962) vive e lavora a Pino Torinese (Torino). La sua ricerca artistica, sempre riconducibile all’ambito concettuale, si sviluppa attraverso diversi media – dalla pittura al video, dalla fotografia all’uso della parola – spesso combinati in chiave multimediale. Dal 1993 espone regolarmente in Italia e all’estero, con numerose mostre personali in spazi di rilievo come la Galleria Martano di Torino, la Galleria Milano, Vision QuesT 4rosso di Genova e Studio G7 di Bologna. Tra le più recenti: L’impotenza celeste dei pianeti (Firenze, 2025), Di sola andata (Torino, 2023), ANTOLOGICA (Innsbruck, 2021), La velocità della luce (Brescia, 2021). Le sue opere sono state presentate in importanti fiere internazionali d’arte contemporanea, tra cui ARCO Madrid, Artissima Torino, Artefiera Bologna, Arteverona, MIA e Miart Milano, Photo Basel e Fotografia Europea (2010, 2015). Ha partecipato inoltre alla Biennale di Scultura di Gubbio (2006) e alla Daegu Photo Biennale in Corea del Sud. Le sue opere fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private, tra cui la GAM di Torino, il MART di Rovereto e il MET di New York. Ha preso parte a numerose collettive in spazi istituzionali e gallerie, tra cui si ricordano Il tempo della comunanza (Saluzzo, 2024), The Family of the Man (Aosta, 2021) e Under The Lucky Star (Genova, 2012). In questa conversazione con Gabriele Landi, Pierluigi Fresia ci racconta le idee che sostengono la sua arte.

Pierluigi Fresia
Pierluigi Fresia

GL. Iniziamo dall’inizio, un inizio inconsapevole, che per molti coincide con l’infanzia.

PF. Spesso, in un modo o nell’altro, si ritorna sempre a quel momento. Certo, quando sei poco più che un bambino, non sai cosa sia l’arte, senti solo l’urgenza di fare. Io, a quell’età, avevo sempre una matita o un pennello in mano e dovevo fare qualcosa: dipingere, disegnare. Era un’urgenza di esprimermi, e quel canale mi sembrava il più naturale, quello più percorribile. Anzi, per certi aspetti, superava anche quello della parola. Non che fossi afasico, intendiamoci, però riuscivo a esprimere e risolvere le mie argomentazioni molto meglio col disegno e con la pittura. Anche se chiamarla pittura mi sembra una parola grossa, era comunque il modo di espressione che mi era più congeniale. Poi, che io sia effettivamente riuscito a esprimermi totalmente con questo mezzo, è un altro discorso. Però si comincia da lì, e poi pian piano ti rendi conto che è una cosa concreta. Non sei tu diverso dagli altri, è una cosa reale, come per chi ha orecchio per la musica o la facilità, che so, di ballare o fare sport. Certo, sono cresciuto in un piccolo paese, quindi non è stato tutto facilissimo. Non voglio ammantare di romanticismo questa parte della mia vita: la mia era una famiglia normale, i miei genitori non avevano studiato ma mi hanno sempre lasciato fare e non mi hanno mai ostacolato. Ecco, di questo sono molto grato ancora oggi.

In qualche modo, questa urgenza ha poi orientato anche le tue scelte scolastiche?

Assolutamente no. Anzi, quello è stato l’unico aspetto un po’ problematico. Vivevo in provincia di Asti e lì non c’era il Liceo Artistico. Nonostante i professori insistessero dicendo ai miei genitori: “Questo ragazzo deve fare il Liceo Artistico”, era impensabile oltre che impossibile che andassi a Torino tutti i giorni a tredici anni e mezzo. Quindi ho fatto un’altra scelta, però ho continuato per conto mio, senza arrendermi. Ho sempre studiato e fatto le mie cose. Mi sono iscritto, dopo le superiori, alla facoltà di Lettere, anche se non ho mai finito il corso di studi. Ho imparato a dipingere da ragazzino, da una pittrice del paese, di quelle che facevano i concorsi a premi. Anch’io ne ho fatti da bambino; mentre ti parlo, qui vicino a me in studio ho un medagliere pieno di medaglie vinte in quegli anni. Sono cose che ti incoraggiano, sì, ed era un modo per vedere quadri, sculture, insomma, opere fatte da artisti colmi di passione seppur dilettanti, cosa non scontata in un paesino del Monferrato nei primi anni Settanta. Così li vedevo appunto a queste mostre di dilettanti che si aprivano durante le feste di paese, con la giostra e tutto il resto; per il resto dell’anno c’erano gli affreschi nella chiesa parrocchiale. A casa mia non c’erano opere d’arte, tolta qualche stampa comprata per arredare. Poi ho iniziato a guardare i libri di mio fratello, che alle medie faceva educazione artistica, e così ho iniziato a informarmi, a leggere, dopo a prendere qualcosa in biblioteca, che per fortuna il paese offriva, monografie illustrate, libri di storia dell’arte. Insomma, è andata così.

Hai avuto un primo amore artistico? C’è qualcosa che ha acceso particolarmente la tua immaginazione o il tuo interesse, qualcosa che ricordi in particolare?

Mah, guarda, non saprei dirti con precisione. Andiamo talmente indietro nel tempo che è difficile individuare un punto d’inizio preciso. La mia era più una necessità fisica di usare le mani per fare qualcosa. All’inizio, disegnavo soprattutto il paesaggio che vedevo, il cane, il gatto, le cose che avevo sotto gli occhi. La cosa che mi dava più fastidio ed evitavo sopra ogni altra era il copiare. Avevo amici che copiavano disegni da altri o dai libri; questo mi irritava. Non perché pensassi di essere bravo, o forse nella mia ingenuità sì, in fondo i bambini sono presuntuosi, ma è giusto che lo siano perché devono pretendere il massimo da sé stessi, per entrare e fare i primi passi nel mondo di fuori. Però, a pensarci adesso, qualcosa di preciso lo ricordo... Mi ricordo che, tra le clienti di mia madre, che faceva la sarta, c’era una signora polacca, profuga (la guerra fredda era una realtà concreta), che in gioventù aveva studiato arte a Varsavia. Quando veniva dalla mamma per i suoi abiti, mi vedeva lì nell’angolo a disegnare e ricordo che diceva: “Ah, questo bambino ha la mano!”. A quel tempo, mia madre conosceva una pittrice dilettante, alla quale sono molto legato ed è ancora viva e si chiama Gioconda, un nome una garanzia! Faceva paesaggi, devo dire anche molto belli, si ispirava agli impressionisti e aveva un ottimo gusto nella scelta dei colori. Le sue erano ottime pitture di paesaggio, qualche natura morta; dunque, mia madre mi mandò da lei per imparare. Avevo otto, forse nove anni. È stata lei, Gioconda, a insegnarmi ad usare i colori a olio, che non conoscevo. I miei mi hanno comprato i colori a olio, la tavolozza e un cavalletto piccolo. Andavo quasi tutti i pomeriggi da lei a dipingere, mi facevo 5-6 km a piedi perché abitavo su una collina. Ogni tanto mi prendeva il pennello e mi aggiustava quello che facevo, e questo ammetto mi dava molto fastidio. Diceva: “No, ma questo fallo così”. Io ero timido e ammutolito, ricordo ancora la luce della stanza nel momento preciso in cui mi disse quella frase: sono impronte nell’anima che rimangono lì a tracciare un percorso. Sono rimasto in buoni rapporti con questa signora e le voglio bene, lei mi ha svelato i segreti del colore a olio, del come mescolarli, diluirli, stenderli e poi la fragranza della trementina, ricordi meravigliosi. Quel profumo è ancora presente adesso, bellissimo, ti fa entrare nel clima, ti fa sentire subito un pittore coi fiocchi. Eh, quello è stato l’inizio, che, come ora hai capito, era da pittore.

Pierluigi Fresia, Une seule nuit (2010)
Pierluigi Fresia, Une seule nuit (2010)
Pierluigi Fresia, L'inizio dello studio (2010)
Pierluigi Fresia, L’inizio dello studio (2010)
Pierluigi Fresia, Easy to understand (2010)
Pierluigi Fresia, Easy to understand (2010)
Pierluigi Fresia, You Have (2015)
Pierluigi Fresia, You Have (2015)
Pierluigi Fresia, Unknown photographer (2016)
Pierluigi Fresia, Unknown photographer (2016)
Pierluigi Fresia, Afasia (2017)
Pierluigi Fresia, Afasia (2017)
Pierluigi Fresia, L'obiettivo dell'eroe (2021)
Pierluigi Fresia, L’obiettivo dell’eroe (2021)
Pierluigi Fresia, Eco (2022)
Pierluigi Fresia, Eco (2022)
Pierluigi Fresia, Masterpieces are killers (2022)
Pierluigi Fresia, Masterpieces are killers (2022)

Mi hai già accennato a un tuo andirivieni tra pittura e disegno...

Il disegno credo sia uno dei modi espressivi più antichi e misteriosi dell’essere umano. È la capacità di lasciare un segno, che poi diventerà scrittura, messaggio o figura, non importa. Già il dito che tracciava sulla sabbia per l’uomo preistorico è stato l’inizio di un cambiamento, un grande cambiamento. È un gesto di consapevolezza, la presa di coscienza del proprio esistere: sei tu individuo che tracci quel segno, sei tu che lo crei e lo crei come vuoi che sia, rendendo visibile qualcosa che prima non c’era e che, grazie a quel gesto, si manifesta e manifesta te stesso.

Il disegno è presente anche nel tuo lavoro attuale, non è vero?

Sì, assolutamente. Anche nel mio lavoro attuale, dove utilizzo principalmente la fotografia, la composizione parte sempre da un’idea di disegno. È quello che definisce la disposizione spaziale necessaria per ottenere l’immagine che ho in mente. Prima ancora di scattare, devo visualizzare mentalmente ciò che voglio, considerando gli elementi che mi circondano. Non mi considero un fotografo nel senso stretto del termine. Non sono uno che fa street photography, alla Cartier-Bresson, per intenderci, alla ricerca dell’attimo decisivo – ammesso che non fosse poi tutto pianificato a priori, ma facciamo finta che sia così. Non sono uno che cattura l’istante perfetto, inaspettato, che capita all’improvviso, l’epifania inattesa. Questo tipo di approccio implica un’immersione totale nel flusso della vita, un’interazione diretta con la società e ciò che essa offre, trovando lì l’argomento e il materiale per lavorare. No, non è il mio stile. Anche perché spesso ci sono di mezzo le persone, e io non le fotografo. A volte le disegno o le dipingo, ma è diverso. Quindi, massimo rispetto per quel tipo di lavoro, davvero, ci sono cose bellissime che ammiro molto. Ma è un’altra cosa.

Prima alludevi al fatto che hai frequentato la facoltà di Lettere. Spesso, o meglio, direi sempre, nei tuoi lavori compare anche lo scritto. Come si crea un cortocircuito con l’immagine che c’è sotto o a fianco del testo?

Diciamo che si tratta di un’idea poetica, ma anche del risultato di un lungo processo. In realtà, quando inizio un lavoro, non c’è un legame predefinito tra il testo e l’immagine. È un lavoro molto più lungo e complesso di quanto si possa immaginare. Ad esempio, proprio poco fa, mentre aspettavo la tua chiamata, stavo lavorando su un’immagine e le stavo associando dei testi che avevo già pronti, non pensati specificamente per quell’immagine. A volte sono cose scritte due anni fa, altre due settimane fa, altre ancora il giorno prima. Poi inizio a collegare immagini e testi, inizia un nuovo lavoro di composizione, dove il testo, pur mantenendo il suo significato, deve trovare anche un suo riscontro spaziale rispetto all’immagine, al di là del contenuto. Successivamente, inizio un lavoro di analisi del testo in relazione all’immagine. Spesso mi sono reso conto che è facile, a livello inconscio, abbinare un testo a una particolare immagine e poi accorgersi che diventa pura e semplice didascalia; allora si ricomincia da capo. Ci sono dei nessi, che cerco di evitare, altrimenti tutto crolla. Il testo non è spiegazione, non è narrazione di qualcosa che senza l’apporto dell’immagine non si riuscirebbe a comprendere e viceversa. Sono invece due forme di linguaggio che nell’opera devono convivere, cooperare, ma rimanendo assolutamente ognuna nel proprio solco semantico e ontologico. Cerco di generare uno spaesamento che vorrei stimolasse una connessione tutta mentale e nuova in chi osserva, portandolo a trovare, lui stesso, un significato attraverso un percorso ermeneutico a me ignoto. Quindi, se i due enti – parola e immagine – non hanno collegamenti concettuali immediati e verificabili, l’osservatore si trova spinto da questo intralcio cognitivo a provare e riprovare al fine di trarne un qualche nesso che abbia una sua, almeno apparente, logica. Ora, ad esempio, ho davanti l’immagine di due alberi con una frase che ad essi ho allegato; non è detto che sia la versione definitiva, chissà. Una volta terminata, la sua reale completezza si avrà quando nella persona che la vede per la prima volta si inneschi, per le cause che prima ho citato, un inizio di storia, una narrazione della quale io sono totalmente escluso e inconsapevole. Questa idea che il mio lavoro agisca da innesco per storie che nascono, che io non conosco, frutto di due cose messe lì da me per caso o comunque per motivi miei e basta, mi piace e mi fa sentire un collaboratore di chi guarda. Chi guarda non è solo un osservatore passivo che assorbe tutto quello che gli viene messo davanti. E quindi, in sostanza, questo è lo scopo fondamentale e, secondo me, il senso principe di quello che deve essere l’arte: uno strumento, un invito al pensiero, al ragionamento. Finché c’è qualcosa che ci fa pensare, possiamo ritenerci salvi, liberi; quando smettiamo di pensare entriamo veramente in un tunnel senza uscita. Tutto in questi anni, dai media alla politica, sembra impegnato nello spingerci supinamente verso quel baratro.

Pierluigi Fresia, Il secondo, il millennio (2022)
Pierluigi Fresia, Il secondo, il millennio (2022)
Pierluigi Fresia, The celestial hunter (2023)
Pierluigi Fresia, The celestial hunter (2023)
Pierluigi Fresia, Pregò così forte (2023)
Pierluigi Fresia, Pregò così forte (2023)
Pierluigi Fresia, Qualsiasi cosa accada (2023)
Pierluigi Fresia, Qualsiasi cosa accada (2023)
Pierluigi Fresia, One dead and... (2023)
Pierluigi Fresia, One dead and... (2023)
Pierluigi Fresia, Furiosamente (2024)
Pierluigi Fresia, Furiosamente (2024)
Pierluigi Fresia, Infinito è pari o dispari (2024)
Pierluigi Fresia, Infinito è pari o dispari (2024)
Pierluigi Fresia, Le bruit de la mélancolie (2024)
Pierluigi Fresia, Le bruit de la mélancolie (2024)
Pierluigi Fresia, Per non sbagliare (2024)
Pierluigi Fresia, Per non sbagliare (2024)
Pierluigi Fresia, La nave (2024)
Pierluigi Fresia, La nave (2024)

C’è qualcosa in quello che dici che mi ricorda la famosa frase di Lautréamont, molto amata dai surrealisti: “Bello come l’incontro casuale fra una macchina da cucire ed un ombrello su di un tavolo operatorio”.

Assolutamente sì. Penso al surrealismo non tanto dal punto di vista dell’immagine, ma piuttosto del meccanismo. Nel mio caso, questo meccanismo non deve essere senza senso, puramente surreale e rimanere quindi chiuso in sé stesso. Mi interessa che lo spettatore trovi un proprio spazio all’interno del cortocircuito che si crea fra immagine e testo, portando questo cortocircuito a sé, per farlo diventare qualcosa di reale o, se non reale, almeno concepibile, che inneschi l’immaginazione. In questo modo si crea una sorta di “rapporto di forza” fra l’immagine e il testo, cioè rapporto di forza non da intendersi come braccio di ferro, ma un rapporto comunque che in qualche modo viene percepito anche se non leggibile nel processo che lo ha guidato, che poi ho capito che è una faccenda privata, personale che nasce probabilmente anche da un accumulo di immagini e di testi. Certo, le due cose vanno ad accumularsi ognuna in un contenitore a parte, quindi ci sono immagini che poi rimangono lì. Io fotografo e scrivo, ma non lo faccio mai contestualmente. Ad esempio, questa immagine dei due alberi l’ho scattata adesso, ma la frase che sto provando ad inserire ora ha seguito un altro percorso e proviene da un altro tempo. Diciamo che quando esco a fotografare, o anche in studio, entra in gioco quell’aspetto psicologico che fa sì che tu ami quell’immagine anziché un’altra. Questa è una cosa che succede a molti: c’è qualcosa che ti affascina e non sai perché. Sarà capitato anche a te, non so, arrivi in un posto, soprattutto per quanto riguarda il paesaggio, e senti che quel luogo ti parla. È come se quel posto possedesse una matrice nella quale tu puoi posare il tuo spirito, il tuo essere e le due cose combaciano. In quel momento e solo in quello è la verità; se poi lo vedi il pomeriggio o in un altro giorno, non funziona, non c’è più niente. Anche se non si sa, effettivamente, cosa sia andato perduto, credo che sia bello non saperlo. Probabilmente – almeno così si pensa – che ci sia qualcosa legato all’inconscio, all’infanzia, qualcosa che hai visto per la prima volta in quel determinato tipo di luce, ambiente e sensazione, allora si crea l’innesco. L’imprinting di alcune immagini alle quali tu devi sempre ritornare per far sì che le due cose vadano un po’ come la messa a fuoco a telemetro, dove due immagini uguali devono combaciare, sovrapporsi, essere una cosa sola, quella vera, per un attimo e poi di nuovo sparire nel tempo. A volte mi è capitato di passare innumerevoli volte davanti a qualcosa o in un luogo e poi accorgermi solo dopo tempo che c’era una cosa importante, pur non conoscendone il motivo.

Succede spesso anche a me di vedere cose in un posto che pensi di conoscere a menadito e un giorno per caso vedi qualcosa che non hai mai visto prima. Oppure le vedi perché percorri la stessa strada nel senso inverso. Quindi, vedendo cose diverse, pensi anche a cose diverse, che poi, se vuoi, è tutto collegato. Questo richiama uno dei protagonisti invisibili del tuo lavoro: il tempo.

Assolutamente. Non posso proprio prescindere dal tempo, non perché l’abbia deciso io, ma perché lo sento così. D’altronde, la nostra esistenza si basa interamente sulla temporalità delle cose, sulla loro finitezza e sulla loro epifania. Il tempo è uno dei motivi principali per cui ho scelto di usare il medium fotografico: è fatto di tempo e anche di luce. E a proposito di fotografia, la trovo incredibilmente falsa, molto più della pittura o del disegno. È il mezzo più ingannevole che esista. Torniamo a quei due alberi che ho davanti in questo momento: non li ho piantati io, non li ho cercati. Sono lì, da qualche parte in campagna. Io li ho fotografati, ma non saranno mai più esattamente così. Basta un colpo di vento o un cambiamento in quella nebbia sullo sfondo. È banale dire che la foto ‘cattura’: la foto non cattura nulla, la foto perde. Ho sempre paragonato lo scatto fotografico a quando Orfeo si gira indietro per vedere Euridice mentre escono dagli inferi: nel momento in cui la vede, la perde. Ed è lo stesso quando scatti una foto: hai perduto. Eppure, questo ‘perdere’ ha un suo fascino. È l’immagine che ti rimane – quel simulacro cartaceo, digitale o come vuoi chiamarlo – di qualcosa che non è più, o non è ancora, o forse tornerà a essere, chissà. Ma ogni volta che la guardo, quella cosa ’è’ di nuovo. Quindi, l’immagine entra a far parte del tuo ‘bagaglio’ personale, di quelle immagini archetipiche che hai dentro. In un certo senso, potrei quasi dire che sia una forma di nostalgia per ciò che ami ma che non riesci più a riconoscere, e allora lo ricrei per avere delle tracce, una sorta di alfabeto per dialogare e spiegare te stesso.

Tempo fa mi ricordo che ti ho chiesto di parlare del rapporto che ti lega al tuo studio, e tu mi avevi mandato una serie di immagini che in qualche modo mostravano qualcosa che ha molto a che fare con una specie di archivio, c’erano degli oggetti... L’idea dell’archivio o dell’archiviare è collegata a quello che mi stavi dicendo, non è vero?

Ma sì, forse più un archivio mentale che fisico, perché poi da quel punto di vista lì sono abbastanza disordinato; quindi, ’archivio’ è una bellissima parola che, nel mio caso, è molto disordinato. Però sì, da un certo punto di vista è un archivio anche quello, cioè qui ci sono immagini come in un archivio. Il fatto che io abbia archiviato centinaia e centinaia di fotografie, e pagine e pagine di testo, scritti, appunti, lo rende tale: questo è già archiviare per poi fare qualcosa, sempre qualcosa che deve venire. Quindi questo va bene, non sai per cosa, ma va bene, sicuramente ci sarà il momento. Poi effettivamente a volte capita che queste cose si riaffaccino, non so spiegarmi il perché, sono dei giochi tutti mentali. Per esempio, mi sono accorto che avevo fotografato un pezzo di stoffa blu che apparentemente non aveva nessun senso, poi di colpo dopo un mese mi ha ricordato Antonello da Messina, la Vergine Annunziata, e mi sono detto: “Ehi, guarda, quindi ma in quel blu, quella piega sulla stoffa blu, c’è qualcosa”. Non credo io abbia fotografato quella stoffa blu pensando ad Antonello da Messina, però la sua Vergine, quell’immagine, era ben presente nel mio inconscio, che l’ha recuperata facendo un confronto con lo scatto di quel misero pezzo di stoffa blu. Non voglio fare dei paragoni con Antonello da Messina, sarebbe un insulto alla sua arte meravigliosa, però quel legame con qualcosa di così importante, non so… ma è bellissimo.

Senti, la questione dei testi: sono spesso testi che hanno una caratteristica proprio poetica, in qualche modo evocano una dimensione lirica, mi sembra.

Sì, diciamo che non essendo descrittivi, non essendo narrativi, per forza di cose cadono lì.

Però in qualche modo quando tu prendi una serie di immagini dei tuoi lavori e li metti uno vicino all’altro, chi guarda è in qualche modo invitato a creare una sua narrazione.

Ah, certo, un racconto personale sì, anche se non è la cosa più importante, anzi, è una cosa a cui non penso mai. Però capisco che venga fuori, anche perché, vedendo una serie di miei lavori che includono testi – non tutti ce l’hanno, per carità, ma molti sì – siamo automaticamente portati a interpretarli e quindi leggerli come una serie di pagine; una pagina fa sempre parte di qualcosa di più ampio: un libro, un testo, un taccuino, qualcosa. Ecco che allora si cercano dei nessi tra una pagina e la seguente o la precedente, nessi che poi, di fatto, non ci sono, ma allo stesso tempo ci sono: tutto può essere collegato in qualche modo, non credi? Anche perché, quella che potremmo definire la tonalità – usando una metafora musicale – la decido io ed è quella del mio modo di lavorare e quindi quella tende un po’ a far sì, come nelle cose che fai tu, che si percepisca che sono tutte tue, sono parte di un tutto. A volte ho sentito io stesso, a cose fatte, dopo aver deciso quali e come disporre le opere alle pareti – cosa che lascio spesso e volentieri gestire da altri, siano essi galleristi o curatori – ecco ho percepito una pseudo storia, qualcosa del genere, del tutto inaspettata.

Pierluigi Fresia, Retorica (2024)
Pierluigi Fresia, Retorica (2024)
Pierluigi Fresia, Sempre (2024)
Pierluigi Fresia, Sempre (2024)
Pierluigi Fresia, Six Stones (2024)
Pierluigi Fresia, Six Stones (2024)
Pierluigi Fresia, La vita è un pomeriggio (2024)
Pierluigi Fresia, La vita è un pomeriggio (2024)
Pierluigi Fresia, L'ultimo accadimento (2025)
Pierluigi Fresia, L’ultimo accadimento (2025)
Pierluigi Fresia, Ovunque è l'ago (2025)
Pierluigi Fresia, Ovunque è l’ago (2025)
Pierluigi Fresia, Ma petite folie (2025)
Pierluigi Fresia, Ma petite folie (2025)
Pierluigi Fresia, La perfezione (2025)
Pierluigi Fresia, La perfezione (2025)
Pierluigi Fresia, Facili paiono le cose (2025)
Pierluigi Fresia, Facili paiono le cose (2025)

Un’atmosfera, un clima?

Sì, sembra che ci sia anche lì, perché poi a volte i testi hanno la persona temporale, la persona verbale che cambia, a volte sono in prima persona, altre in terza persona, in prima persona plurale... Insomma, si crea una specie di coralità, di dialogo a più voci. Ma questi sono aspetti sui quali sto ragionando proprio ora, mentre ne parliamo.

Sì, assolutamente e questo è sicuramente uno degli aspetti più interessanti delle interviste con gli artisti, che a volte anche parlando nascono delle idee.

E poi essendo anche tu artista sai bene che la narrazione e l’interpretazione del proprio lavoro è la cosa in assoluto più difficile, e penso ci sia una parte che si deve tralasciare, omettere.

Sì. Non bisogna raccontare tutto!

Anche perché nemmeno io so tutto del mio lavoro; c’è una parte che non conosco e penso sia, paradossalmente, la parte più importante di ciò che faccio. Mi è capitato a volte di ascoltare, non visto, qualcuno che parlava delle mie opere e tirava fuori dei ragionamenti e delle interpretazioni interessanti sui quali non mi ero mai soffermato. Quindi, se l’arte fa davvero pensare, può fare andare oltre a quello che semplicemente e visivamente rappresenta. È come quando inizi a fischiettare, a canticchiare e poi ne viene fuori un coro; alcuni, prima, canticchiano con te, poi tu lasci perdere e loro vanno avanti da soli con melodie inaspettate e sovente migliori del tema che le ha dato inizio.

Ti volevo chiedere anche una cosa: ti è mai capitato, per esempio, di usare più volte la stessa immagine, magari cambiando il testo o semplicemente cambiandone il viraggio o il formato?

Proprio la stessa immagine no, magari lo stesso soggetto, è successo un sacco di volte. Che poi siano state utilizzate per qualche mostra o pubblicazione non è detto, ci sono soggetti che ho fotografato spesso nel corso degli anni. Per esempio, c’è un maneggio che ho fotografato frequentemente. Questi stessi alberi di cui stavo parlando con te, sono già stati fotografati dalla parte opposta, penso una decina di anni fa. Spiegarti il perché mi risulta difficile, ma succede. Anche quel pezzo di stoffa di cui ti parlavo, l’ho già fotografato più volte in una chiesa in Liguria, dove vado e il prete ormai mi guarda male perché vado lì e fotografo gli angoli più reconditi della navata dove non c’è niente, praticamente.

Direi che ci sono delle situazioni propizie ad innescare delle dinamiche, che però non sono del tutto spiegabili, restano misteriose.

Misteriose sia per quanto riguarda i pensieri che per quanto riguarda la creatività, l’arte, quindi la sua creazione. Quando leggo le narrazioni dei bugiardini delle medicine o ascolto gli stessi artisti che spiegano per filo e per segno quello che hanno fatto, la progettualità che sta dietro ai loro lavori, cosa volevano e non volevano dire – e questo capita molto nelle nuove generazioni, non so se ti è capitato – sanno assolutamente tutto quello che fanno e perché lo fanno. Io non sono ammirato, anzi, sono infastidito. È come se ci fosse la necessità di profondersi in mille spiegazioni, vedo anche che c’è una grande progettualità proprio alla base: “Hai fatto questo, ho fatto quello”. Ora poi va molto di moda lavorare con certi ambiti, certi argomenti che vanno dal sociale all’ecologico a quello legato al genere; quindi, ci sono opere che sono dei trattati, ma che hanno perso tutto quello che è l’aspetto magico e misterioso dell’arte. Soprattutto, sono limitate dalla storia, dalla cronaca che dà ad esse una ragione d’esistere e le giustifica, anche nella loro mediocrità qualitativa. Spesso si può essere impegnati, si può fare politica ma si deve essere più grandi della facile contingenza; mi viene in mente quello che disse Giulio Paolini (che il legame tra arte e società è osceno), penso che sia l’arte a dover influenzare, anche se è difficilissimo, la società ma rimanendo se stessa e non il contrario. È una questione fondamentalmente di cultura a tutti i livelli, che manca e manca ancor più in molte (non tutte, sia chiaro, ma pur sempre troppe) istituzioni e nei loro vertici... ora mi taccio.

Certo. Non deve correre dietro alla società e ai problemi del sociale.

Deve mantenere una distanza e, semmai, intervenire in quanto innesco di pensiero, ragionamento. Il suo intervento deve essere metodo intrinseco...

Sì, esatto, se no si finisce in tutti altri territori, che con l’arte non c’entrano.

Tempo fa parlavo con una gallerista, una persona molto saggia, proprio di questi argomenti, e le chiedevo: “Ma senti, cosa dobbiamo fare? Cosa può fare un artista?” E lei mi ha risposto: “Deve continuare a fare l’artista, deve fare le sue cose”. E questo “fare le sue cose” e dopo che ci sia qualcuno che le osserva, qualcuno che su di esse si metta a riflettere, anche in modo critico se capita. E così ci ricolleghiamo al discorso di prima. Da lì, poi, può nascere qualcosa di buono per la società, ma solo perché tu stai facendo, creando motivi, cause di pensieri, riflessioni. L’arte deve essere una cosa a sé stante. Non deve prendere in prestito temi dall’attualità, pur facendone parte. Perché, se io lavoro sull’attualità come puro pretesto, dunque lontano dal vero impegno – cosa che molti fanno adesso – storicamente sono finito, perché tra sei mesi o sei giorni l’attualità sarà già un’altra. E così, il mio lavoro, il mio ‘finto impegno’, sarà totalmente incomprensibile, vuoto. Invece, l’Annunziata di Antonello da Messina, continua a raccontare da sempre, avrà sempre quel libro davanti, e io che osservo non so cosa stia leggendo o perché mi guardi. È lì che bisogna lavorare. Sì, è lì che c’è qualcosa che, rimanendo contemporanei, ci fa trascendere dal fango pesante del tempo quotidiano. Dobbiamo solo essere, essere veri, lo dobbiamo a noi stessi


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE

Gabriele Landi

L'autore di questo articolo: Gabriele Landi

Gabriele Landi (Schaerbeek, Belgio, 1971), è un artista che lavora da tempo su una raffinata ricerca che indaga le forme dell'astrazione geometrica, sempre però con richiami alla realtà che lo circonda. Si occupa inoltre di didattica dell'arte moderna e contemporanea. Ha creato un format, Parola d'Artista, attraverso il quale approfondisce, con interviste e focus, il lavoro di suoi colleghi artisti e di critici. Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Milano, vive e lavora in provincia di La Spezia.



Commenta l'articolo che hai appena letto






Per inviare il commento devi accedere o registrarti.
Non preoccuparti, il tuo commento sarà salvato e ripristinato dopo l’accesso.



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte