Al Mudec una mostra sulle presenze africane nell'arte tra il XVI e il XIX secolo


Dal 13 maggio al 18 settembre 2022, il Mudec di Milano ospita “La Voce delle Ombre. Presenze africane nell’arte dell’Italia settentrionale”, prima mostra che indaga questo tema nell’arte del nord italia tra il XVI e il XIX secolo.

Dal 13 maggio al 18 settembre 2022, a il Mudec - Museo delle Culture di Milano ospita la mostra antropologica La Voce delle Ombre. Presenze africane nell’arte dell’Italia settentrionale, una delle prime esposizioni in Italia sull’argomento. La mostra, a cura del personale scientifico del Mudec, indaga i modi della rappresentazione artistica di uomini e donne originarie del continente africano nel nord Italia fra XVI e XIX secolo, e si inserisce nel progetto di ricerca più ampio iniziato con il riallestimento della collezione permanente del museo. La mostra si configura come un primo tentativo di individuare modalità differenti di raffigurazione dell’altro, svelando canoni e cliché di questa tipologia di immagini e cercando di restituire a queste figure un’identità attraverso il recupero delle loro vicende umane e del ruolo che ricoprivano nella società dell’epoca. Attraverso l’esposizione di opere di diverso genere, provenienti da importanti istituzioni pubbliche e private, sarà dunque possibile riflettere sulla percezione e rappresentazione dell’alterità, distinguendo i personaggi storici da quelli mitici, gli stereotipi dalle persone reali.

Accostando le testimonianze documentarie, costituite anche dalle opere stesse presenti in mostra, agli studi del comitato scientifico (ampiamente documentati nel catalogo edito da Silvana Editoriale) è stato possibile comprendere la variabilità delle occasioni in cui le persone di origine africana giungevano in Nord Italia – in prevalenza attraverso la tratta del Mediterraneo – e con finalità – per lo più di servitù domestica – legate anche a ragioni extra economiche e di prestigio sociale. Il percorso espositivo si colloca nelle Sale Focus del museo e si dipana in sezioni, incentrate sulle diverse modalità di rappresentazione delle persone nere. L’allestimento, curato dallo studio Origoni Steiner, si configura attraverso un dualismo cromatico bianco/nero ed elementi grafici minimali, che aiutano a sottolineare il peso delle figure nere all’interno di ciascuna opera, accompagnando il visitatore nella lettura delle opere esposte.

Apre la mostra un documento proveniente dall’Archivio della Veneranda Fabbrica del Duomo, che attesta l’acquisto di uno schiavo nero di quattro anni, Dionisio, da parte del nobile Gaspare Ambrogio Visconti, nel 1486. È il testo stesso, con i suoi elementi intrinseci, a far comprendere al pubblico come la schiavitù, pur presente nel territorio milanese, non fosse a quel tempo così diffusa. La sezione introduttiva, Introduzione. Dare voce alle ombre, si focalizza sugli obiettivi della rassegna. Nata dalla ricerca per il riallestimento della collezione permanente del museo, la mostra intende aggiungere un tassello al dibattito contemporaneo sulla rappresentazione di persone africane in nord Italia e sullo schiavismo: un tema storico e iconografico sino ad oggi poco frequentato soprattutto nel nostro paese, nonostante la nutrita presenza di opere come quelle in mostra nelle raccolte artistiche anche solo lombarde. Dalle fonti si comprende la variabilità delle occasioni in cui le persone di origine africana arrivavano in nord Italia. La ‘via’ era soprattutto la tratta del Mediterraneo, fenomeno ben diffuso sin dal XIII secolo e che fornisce il ‘modello’ alla tratta atlantica; il destino, per lo più quello di servire in case nobiliari (diversamente dai lavori usuranti di altre zone d’Italia e del mondo). Tuttavia, troviamo anche persone che riuscirono ad affrancarsi dalla schiavitù e a raggiungere uno status speciale o un’indipendenza economica, specie se convertite al cristianesimo. La mostra vuole essere uno stimolo per indagare in profondità il fenomeno e capire quale fosse l’identità di queste persone. Giunte in Italia, spesso ribattezzate con nomi italiani che ne celavano l’origine, scomparivano dai documenti d’archivio per poi riapparire nei dipinti: a volte protagonisti di iconografie leggendarie, altre come ombre senza voce accanto ai loro signori, e infine come persone in carne ed ossa. A queste testimonianze sono stati accostati i lavori di Theophilus Imani, ricercatore visivo italiano di origine ghanese che, attraverso i suoi dittici, affianca dettagli di dipinti antichi ad opere fotografiche contemporanee, fornendo grazie al contrasto una diversa prospettiva sulle immagini storiche. Il suo lavoro, assieme a quello sulle fonti dei ricercatori i cui contributi sono raccolti nel catalogo della mostra, evidenzia gli stereotipi rimettendo al centro le persone.

La prima sezione, Ombre senza voce, approfondisce il tema della presenza di donne e uomini provenienti dal continente africano nell’Europa e nell’Italia cinquecentesca, che si deve alla maggiore mobilità tra differenti aree del mondo. Il commercio degli schiavi provenienti dall’Africa non si limita alla prevalente tratta atlantica ovvero alla deportazione verso le Americhe, ma avviene seppure in numeri più contenuti anche attraverso le rotte del Mediterraneo. Molti sono poi gli uomini, in prevalenza di origine nord-africana e turca, ad essere catturati durante gli scontri militari tra cristiani e ottomani. Nelle regioni italiane sono sfruttati soprattutto come lavoratori agricoli, rematori sulle galee e come servitori nelle case di nobili e alto-borghesi: in Lombardia e nelle regioni settentrionali prive di porti e di latifondi è quest’ultima la destinazione prevalente (anche una volta liberati dalla condizione di schiavitù), che si traduce in una lunga serie di dipinti in cui il ruolo della domestica e del domestico, a fianco del committente ritrattato, servono a rafforzare l’immagine trionfante di quest’ultimo. Il Ritratto di Laura Dianti con paggio di Tiziano Vecellio (olio su tela del 1522-1523) è ritenuto il prototipo di questa composizione e fu probabilmente frutto di una reale copia dal vero di entrambi i personaggi, dal momento che la presenza di africani alla corte di Ferrara è ben documentata, come testimonia in mostra il Ritratto di Giulia d’Este. A partire dalla seconda metà del Cinquecento, invece, l’abbinamento in pittura tra signori e servitori diventa così diffuso che risulta difficile stabilire se la raffigurazione di neri, nei ritratti di membri delle famiglie Erba Odescalchi, Clerici, Litta e Arconati (per fare soltanto qualche nome d’area lombarda), indichi una loro effettiva esistenza in quelle case o se invece siano semplici invenzioni compositive del pittore, volute dai committenti per esaltare le proprie ricchezze. Di fatto, non conosciamo l’identità di nessuna di queste persone, né tantomeno le loro storie. Persino in un caso singolare come quello del giovane ritratto due volte da Piccio a fianco del conte Manara (che gli dedicò persino un carme e una scultura), resta del tutto ignoto il nome.

Nella seconda sezione, Leggenda e tradizione, il pubblico trova opere che documentano come numerose figure originarie dell’Africa fossero inserite in epoca moderna nei dipinti per rimandare a episodi religiosi o leggendari, riferibili a luoghi lontani nello spazio e nel tempo, oppure semplicemente come elemento di esotismo. L’esempio più celebre è il re mago nero, Baldassarre, che alla fine del Medioevo assume le fattezze di un nobile africano come simbolo – assieme ai compagni arabo ed europeo – delle regioni del mondo conosciuto a cui si rivolgeva il messaggio di Cristo. Prima di allora i tre saggi, menzionati solo come ‘orientali’ nel Vangelo di Matteo, non avevano infatti caratterizzazioni evidenti. Un altro personaggio popolare è Abra, domestica di Giuditta e sua co-protagonista in alcuni capolavori di Mantegna, Veronese e Lotto. Rispetto all’eroina biblica che ha decapitato Oloferne, Abra non ha un ruolo attivo ma per gli artisti è funzionale a rappresentare i contrasti tra gli incarnati (bianco/nero) e la differenza di età (giovinezza/vecchiaia). Caratteri esotici e talvolta di prorompente sensualità (evidenti nella Sibilla egizia in mostra) si ritrovano in rappresentazioni artistiche di generiche figure di ‘more’ e ‘mori’, frequentemente avvicinabili a città dominate dallo sfarzo, come la Milano spagnola che diventa la capitale europea della produzione del lusso (e dove viene realizzato l’eccezionale cammeo di Annibale Fontana). L’arte sfrutta tali immagini in chiave propagandistica e ne offre una visione idealizzata, forte anche del cambiamento del concetto di ciò che è bello, che a partire dalla seconda metà del XVI secolo include anche il corpo nero. Al contrario, negli stessi decenni cronisti e letterati descrivono coloro che sono sottoposti a schiavitù come persone violente, ribelli e inaffidabili. Singolare è anche la visione promossa dalle stampe degli Habiti antichi, et moderni di tutto il mondo di Cesare Vecellio (1598), primo tentativo di catalogare un’ampia gamma di costumi regionali e internazionali, non priva però di connotazioni razziste.

Aegidius Sadeler II, da un’invenzione di Tiziano Vecellio, Ritratto di Laura Dianti con giovane servitore (1600-1627 circa; bulino su carta, 346 x 250 mm; Milano, Museo delle Culture, Biblioteca, Fondo Antico)
Aegidius Sadeler II, da un’invenzione di Tiziano Vecellio, Ritratto di Laura Dianti con giovane servitore (1600-1627 circa; bulino su carta, 346 x 250 mm; Milano, Museo delle Culture, Biblioteca, Fondo Antico)
Sante Peranda, Ritratto di Giulia d’Este (1609; olio su tela, 218,5 x 142 cm; Mantova, Museo di Palazzo Ducale, inv. statale 26)
Sante Peranda, Ritratto di Giulia d’Este (1609; olio su tela, 218,5 x 142 cm; Mantova, Museo di Palazzo Ducale, inv. statale 26)
Giovanni Pietro Gnocchi, Santa Cecilia incoronata da un angelo (1587; olio su tela, 141 x 101 cm; Milano, Collezione privata)
Giovanni Pietro Gnocchi, Santa Cecilia incoronata da un angelo (1587; olio su tela, 141 x 101 cm; Milano, Collezione privata)
Andrea Carnovali detto il Piccio, Ritratto del conte Giuseppe Manara con il suo servitore etiope (1842; olio su tela; Collezione privata)
Andrea Carnovali detto il Piccio, Ritratto del conte Giuseppe Manara con il suo servitore etiope (1842; olio su tela; Collezione privata)
Francesco Bertos, Allegoria dell’Africa (prima metà del XVIII secolo; marmo, 100 x 50 cm circa; Milano, Collezione privata)
Francesco Bertos, Allegoria dell’Africa (prima metà del XVIII secolo; marmo, 100 x 50 cm circa; Milano, Collezione privata)
Luigi Miradori detto il Genovesino, Adorazione dei Magi (1640 circa; olio su tela, 240 x 178 cm; Parma, Galleria Nazionale, inv. n. GN 223)
Luigi Miradori detto il Genovesino, Adorazione dei Magi (1640 circa; olio su tela, 240 x 178 cm; Parma, Galleria Nazionale, inv. n. GN 223)
Enea Vico, Ethiopissa in Enea Vico, Diversarum gentium nostrae aetatis habitus (Venezia 1558; volume a stampa, 210 x 157 mm; Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Pisetzky Vol. M 32_c. 27, aperto a p. B 204)
Enea Vico, Ethiopissa in Enea Vico, Diversarum gentium nostrae aetatis habitus (Venezia 1558; volume a stampa, 210 x 157 mm; Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli, Pisetzky Vol. M 32_c. 27, aperto a p. B 204)
Pittore del Nord Italia, Paggio con tre cani, una marmotta e una scimmia (fine XVII - inizio XVIII secolo; olio su tela, 114 x 200 cm; Milano, Villa Necchi Campiglio, inv. C 553)
Pittore del Nord Italia, Paggio con tre cani, una marmotta e una scimmia (fine XVII - inizio XVIII secolo; olio su tela, 114 x 200 cm; Milano, Villa Necchi Campiglio, inv. C 553)
Scultore veneziano, Busto di giovane moro (XVIII secolo; scagliola policroma, 76 x 59 x 29 cm; Milano, Collezione privata)
Scultore veneziano, Busto di giovane moro (XVIII secolo; scagliola policroma, 76 x 59 x 29 cm; Milano, Collezione privata)
Studio fotografico Colombo di Bergamo, Ritratto di Enrico Bramadio (1866 circa; fotografia all’albumina, 110 x 60 mm; Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Fondo iconografico, inv. D 211)
Studio fotografico Colombo di Bergamo, Ritratto di Enrico Bramadio (1866 circa; fotografia all’albumina, 110 x 60 mm; Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Fondo iconografico, inv. D 211)
Theophilus Imani. Echi e accordi, A destra Autoritratto, 2020, a sinistra Albrecht Dürer, Autoritratto con veste bordata di pelliccia (dettaglio), 1500
Theophilus Imani, Echi e accordi, A destra Autoritratto, 2020, a sinistra Albrecht Dürer, Autoritratto con veste bordata di pelliccia (dettaglio), 1500
Theophilus Imani, Echi e Accordi, a sinistra Justus Sustermans, Maria Maddalena d’Austria (moglie del duca Cosimo II de’ Medici) con suo figlio, il futuro Ferdinando II (dettaglio), 1622, a destra Kurt Markus, Billy Stafford, Y's for Living, Vicksburg, Mississippi, 1988
Theophilus Imani, Echi e Accordi, a sinistra Justus Sustermans, Maria Maddalena d’Austria (moglie del duca Cosimo II de’ Medici) con suo figlio, il futuro Ferdinando II (dettaglio), 1622, a destra Kurt Markus, Billy Stafford, Y’s for Living, Vicksburg, Mississippi, 1988

Si arriva dunque alla sezione terza, In carne e ossa, che affronta il tema del corpo nero finalmente protagonista. Nelle sculture di scuola veneta del XVII e XVIII secolo qui esposte l’origine iconografica del tema è nobile e risale fino ai busti di personaggi illustri dell’antichità; solo una linea sottile li divide dalla coeva produzione d’arredamento d’interni, dove invece i ’Mori’ erano raffigurati in catene a rappresentare la vittoria cristiana contro gli infedeli. La stessa variabilità si riscontra nella pittura coeva, dove accanto a capolavori come Il mendicante moro di Ceruti (olio su tela del 1730 circa, oggi in collezione privata italiana) si trovano, entrambi esposti in mostra, il Paggio con tre cani, una marmotta e una scimmia, una specie di rebus, e il moro albino raffigurato insieme a un pappagallo esotico, a ricordarci che lo stereotipo resta dietro l’angolo. Fra le ragioni per cui una persona nera guadagna il proprio posto al centro della rappresentazione, la religione gioca un ruolo importante: fra i pochissimi ad essere raffigurati con la stessa dignità dei bianchi va ricordato Muley Xeque, Don Filippo d’Austria, Infante d’Africa e Principe del Marocco, convertitosi al cristianesimo e stabilitosi a Vigevano, cui viene dedicata un’intera biografia nel 1795. Nello stesso periodo a Venezia, per uno schiavo convertito e liberato, Lazzaro Zen, veniva commissionato un quadro attribuito a Francesco Guardi. Anche combattere per un ideale condiviso può aiutare a diventare protagonisti: nel XIX secolo, durante l’epopea risorgimentale italiana, sale alla ribalta la figura di Andrea Aguyar, ex schiavo uruguaiano che segue Garibaldi in Italia, di cui viene proposto in mostra una duplice caratterizzazione: un ritratto ufficiale e un’incisione dove l’umorismo passa, ancora e sempre, attraverso la tipizzazione razzista del personaggio.

La mostra si chiude con una sezione a cura di Theophilus Imani, ricercatore visivo italiano di origine ghanese, che attraverso i dittici tratti dalla sua serie Echi e Accordi evidenzia i contrasti tra l’iconografia storica occidentale e la rappresentazione del corpo nero nella contemporaneità. Echi e Accordi è un progetto di oltre cinquecento dittici in cui opere classiche e immagini contemporaneee di afrodiscendenti sono accostate. Nella serie ogni dittico è una rima visuale, una corrispondenza dove le immagini si riflettono. In questo accordo significati latenti affiorano, pensieri colti nel momento in cui le immagini dialogano. Ma ancor prima di essere un dialogo, questa reciprocità è una traduzione; perché l’occhio trasmuta un testo visivo in un altro, preservando nella somiglianza l’effetto di differenza. “La relazione tra arte europea e arte afrodiscendente”, scrive Imani, “non è casuale. Echi e Accordi nasce nel mezzo, dall’incontro di due retroterra culturali: ghanese e italiano, africano ed europeo. Un terreno diasporico in cui la dualità “both/and” abbraccia punti di vista apparentemente contrastanti, ma essenzialmente simili. Uno spazio psichico dove le persone, cogliendo i significati che emergono dal dialogo, non sono sospinte verso ciò che non sanno, bensì verso ciò che non hanno ancora pensato. Seppur isolati dal contesto della serie, i dittici esposti in mostra non sono pensieri orfani. Sono l’intreccio di un atto narrativo che prosegue, assieme ad altre voci non presenti in sala, il percorso del corpo nero nella storia visuale del Paese. A proprio modo, ogni dittico interroga, esplora e attesta una dimensione dell’esperienza nera italiana, proponendo nuove chiavi di lettura di immagini note e meno note. Queste rime visuali non ci invitano solo a vedere, ci invitano a guardare. E come metafore ci ricordano questo: la nerezza non è vuota, non vive nell’ombra; ma si disvela, nella sua pienezza, all’occhio di coloro che sanno mettersi in ascolto”.

L’esposizione vuole essere un primo passo di un percorso di ricerca su un tema complesso, dalle molteplici implicazioni sociali. Come scrive la Direttrice del Mudec Marina Pugliese, “dar voce alle ombre vuol dire iniziare a risarcire le mancanze e tendere verso una articolazione tanto complessa quanto necessaria sia negli studi storico artistici sia, più in generale, nella percezione collettiva delle immagini”. La mostra, a ingresso libero, rimarrà aperta al pubblico fino al 18 settembre. Il catalogo dell’esposizione è edito da Silvana Editoriale. Per tutte le informazioni è possibile visitare il sito del Mudec.

Informazioni sulla mostra

Titolo mostraLa Voce delle Ombre. Presenze africane nell’arte dell’Italia settentrionale
CittàMilano
SedeMUDEC
DateDal 13/05/2022 al 18/09/2022
TemiArte antica

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