Il Cristo di Santi di Tito che è risorto due volte


La Resurrezione di Santi di Tito (Firenze, 1536 - 1603), capolavoro conservato nella basilica di Santa Croce a Firenze, è un'opera in cui il Cristo in realtà è... risorto due volte.

Sono due, in realtà, le resurrezioni che s’ammirano nel superbo capolavoro che Santi di Tito dipinse per l’altare Medici nella basilica di Santa Croce a Firenze, luogo dove la tavola è tuttora conservata. La prima è il soggetto della pala, è la resurrezione del Cristo potente che s’eleva col suo stendardo e sgomenta tutte le guardie del sepolcro. La seconda è invece la resurrezione materiale che l’opera conobbe dopo la terribile alluvione di Firenze del 1966: le acque dell’Arno entrarono impetuose anche in Santa Croce, sconvolgendo il patrimonio della basilica e provocando nell’edificio sacro dolorose devastazioni che in certi casi, si pensi per esempio al Crocifisso di Cimabue, sarebbero risultate irreparabili. La Resurrezione dovette subire un primo intervento urgente appena le acque si ritirarono e fu possibile mettere in salvo il patrimonio della chiesa, per poi essere più estesamente sistemata tra il 1968 e gli anni Settanta: l’umidità aveva però seriamente danneggiato il dipinto, e le sue condizioni di conservazione peggiorarono dopo poco, tanto che nel 2003 si rese necessario un nuovo restauro, durato tre anni, col fine di garantirne il mantenimento per il futuro.

L’ultimo restauro è stato anche in grado di farci rileggere l’opera così come dovevano vederla i contemporanei di Santi di Tito: ecco dunque la nuova resurrezione della pala dell’altare Medici, quella operata dalle restauratrici della Soprintendenza di Firenze. Una resurrezione che ha disvelato la vera natura della pala di Santi di Tito, ovvero la sua dimensione di gran capolavoro, e una resurrezione che ci ha fatto comprendere perché già nel Cinquecento fosse un’opera lodatissima dagl’intenditori del tempo. Il poeta Raffaello Borghini ne parlò nel Riposo, un dialogo sull’arte ch’è fondamentale per comprendere la pittura fiorentina del Cinquecento: il letterato spese parole fioritissime per la Resurrezione di Santi di Tito, ritenendola “delle migliori che habbia fatto”, “sì per l’osservazione della sacra istoria, sì per l’onestà e sì per le cose del pittor proprio, che vi sono bene accomodate”. Un’opera così eccelsa, che Borghini la paragonò a uno dei maggiori capolavori del secondo Cinquecento fiorentino, la Resurrezione dipinta dal Bronzino per la Santissima Annunziata.

Santi di Tito, Resurrezione (1574 circa; olio su tavola, 430 x 290 cm; Firenze, Basilica di Santa Croce)
Santi di Tito, Resurrezione (1574 circa; olio su tavola, 430 x 290 cm; Firenze, Basilica di Santa Croce)

Santi di Tito divide la sua pala in due registri ben distinti. In basso, c’è il mondo terreno: i soldati non riescono a sostenere l’emozione provata dinnanzi al miracolo, e svengono, cadono a terra, s’accasciano sopraffatti dalla prodigiosa visione. Uno di loro, quello con la barba fulva sulla destra, è uno dei quattro che ancora non hanno perso coscienza, e seppur a terra non riesce a distogliere lo sguardo dal Cristo risorto: mantiene una certa compostezza, ma non trattiene la meraviglia. Gli altri tre sono ancor più sbigottiti, li si direbbe spaventati, s’agitano e si contorcono in pose scomposte, par che vogliano fuggire ma anche loro non possono fare a meno d’osservare il Cristo trionfante. Quale tranquillità dimostrano invece le pie donne che stanno sopraggiungendo al sepolcro, e l’angelo che indica loro la tomba di Gesù, seduto nel mezzo della calca dei soldati con l’atteggiamento più sereno del mondo! Una calma che regna anche nel registro superiore, quello divino: angeli e cherubini assistono pregando all’uscita di Cristo dal sepolcro. C’è anche un angelo, a sinistra, che si rivolge a un suo compagno, come se gli stesse chiedendo un commento sul miracolo che Cristo sta compiendo. E questi, in un chiasmo da atleta greco, col corpo dalle proporzioni perfette, “il più bello tra i figli dell’uomo”, reca con sé il vessillo crucigero, simbolo del suo trionfo sulla morte, ed è il tramite tra il cielo e la terra.

Apparentemente è un’opera del tutto convenzionale, di semplice e agevole lettura, fedele ai principî della Controriforma, in grado d’osservare pienamente tutti i canoni della convenienza, come si conveniva a un’opera che doveva suscitare sentimenti pii nel fedele. Al contrario della Resurrezione del Bronzino, che Borghini critica nel Riposo per quell’angelo “tanto lascivo che è cosa disconvenevole”. Qui, al contrario, nessuna lascivia e nessun cedimento alla decorazione rischia di traviare il fedele, posto dinnanzi all’episodio evangelico nel suo svolgersi diacronico, dall’arrivo delle pie donne fino ad avvenuta resurrezione. La Chiesa del tempo voleva opere d’agevole lettura per il fedele, e Santi di Tito s’adegua al dettato ecclesiastico. Eppure, la sua Resurrezione è anche un’opera che si regge su di una composizione complessa e su riferimenti artistici densi e colti. Santi parte dalla Resurrezione del Bronzino, ch’è d’una ventina d’anni precedente, del 1552, mentre la pala dell’altare Medici venne eseguita attorno al 1574. L’originale bronzinesco viene però riletto alla luce delle fondamentali esperienze di Santi di Tito: “la frequentazione della bottega di Taddeo Zuccari e il recupero del tardo Raffaello negli anni del giovanile soggiorno romano”, ha scritto la studiosa Nadia Bastogi, “appaiono le esperienze determinanti per l’emancipazione dell’artista dalla tarda maniera fiorentina e per l’evoluzione rispetto alla pittura devota primocinquecentesca”. Bastogi, in particolare, sottolinea come Santi di Tito si rifaccia al Raffaello della Trasfigurazione nel comunicare lo slancio del bacino del Cristo, come ci siano affinità strutturali con la Conversione di Saulo di Taddeo Zuccari nella profondità spaziale e nel registro superiore, e come ci siano anche citazioni classiche, specie nei corpi dei soldati riversi a terra: corre alla mente l’esempio del Fauno Barberini. Lo stesso impianto compositivo, ha notato Marco Collareta, è una sintesi delle ricerche sulla movimentazione spaziale e luministica che Santi di Tito conduceva in quegli anni. Si osservi il ritmo che Santi di Tito ha impresso alla sua pala: qui, ha scritto ancora Bastogi, “le direttrici diagonali della composizione sono evidenziate dai gesti dei personaggi, come i due soldati che fuggono specularmente ai lati; ormai oltre il contrapposto manierista, essi creano una spazialità reale con espedienti di naturalistico illusionismo: il piede sollevato in primo piano, il gomito che fora il piano ideale della tavola, la mano in scorcio verso lo spettatore”.

E poi, le luci e i colori, mirabilmente recuperati dall’intervento dei primi anni Duemila, che ha risanato non solo il supporto, ma anche le alterazioni dei pigmenti che avevano offuscato la brillantezza delle cromie: e qui l’attenta e coinvolgente calibrazione dei lumi è il frutto d’una regia che si potrebbe dire attenta agli ‘effetti speciali’. La delicatezza della luce mattutina che accompagna l’arrivo delle pie donne viene così vinta dai bagliori emanati dal Cristo risorto, che con la sua luce inonda e rischiara di luce abbacinante, con forti effetti chiaroscurali, i soldati attoniti, mentre il corteo angelico che assiste alla resurrezione è avvolto da una delicata penombra. I colori, infine, guardano anch’essi al Bronzino: sono cromie tenui, pallide, preziose, raffinate. C’è però una sensibilità nuova che sembra farsi largo tra i muscoli di Cristo, tra le attitudini studiate dal vero dei soldati, tra le ombre che si posano su volti e corpi. Traspare, da questa Resurrezione di Santi di Tito, come un’esigenza palpitante di verisimiglianza, d’aderenza al naturale. Un’esigenza straordinariamente moderna, che apre al nuovo secolo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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