La poetica della scomparsa, da Rachel Whiteread a Francesca Woodman e oltre


Fino a quando un mito rimane visibile? E cosa succede quando qualcosa scompare? Quanta attenzione serve per vedere ciò che svanisce? Ci sono artisti, da Rachel Whiteread a Francesca Woodman e oltre, che hanno affrontato questo tema con la loro arte.

Aprile 2025. Coachella. Una leggenda appare sul palco e il tempo non si ferma. Durante una delle serate più attese del festival, Benson Boone (artista giovane, cresciuto in un sistema che privilegia l’accessibilità all’enfasi e il racconto continuo alla distanza), cantando Bohemian Rhapsody, introduce sul palco l’ex chitarrista dei Queen, Brian May. Non un ologramma, non una citazione nostalgica: è davvero lui, con la Red Special al collo, la postura familiare, il corpo esatto di una leggenda che ha attraversato epoche, rivoluzioni, lutti e rinascite. L’intento è quello di rendere omaggio e portare la storia a contatto con un presente che sembra averne perso il lessico. Ma qualcosa s’inceppa, l’apparizione avviene e il rito non si compie. Il pubblico, perlopiù giovanissimo, resta fermo. Non c’è boato, non c’è tensione emotiva, non c’è la sospensione che un tempo accompagnava l’ingresso di una figura mitica. C’è solamente una miriade di telefoni sollevati, una risposta automatica, quasi riflessa, che documenta ciò che non riesce a interpretare. La chitarra di May disegna le frasi finali di Bohemian Rhapsody con la consueta eleganza dissonante, mentre la voce di Boone lo accompagna con rispetto. Ma ogni gesto, ogni nota resta sospesa, come se le frequenze emotive dell’una e dell’altra generazione non riuscissero più ad allinearsi, a comprendersi.

Eppure non si tratta di nostalgia, né di superiorità generazionale. La distanza non è tra padri e figli, ma tra codici simbolici che non coincidono più, e in un tempo che cambia con una velocità difficilmente archiviabile, è possibile che i gesti fondativi di una generazione risultino invisibili all’altra, non tanto per rifiuto, quanto per una normale mutazione dei linguaggi. Si tratta di una grammatica del riconoscimento e, come ogni grammatica, funziona solo se qualcuno ne conosce la sintassi. Ma quando il mito non trova testimoni, quando il mito comincia a scomparire, allora non può più agire come tale e resta forma priva di funzione, superficie che non rimanda a nulla. Ed è proprio questa sospensione del senso, questa sopravvivenza muta dei segni, che l’arte visiva ha saputo esplorare intensamente tramite una poetica della scomparsa, anticipando spesso l’esperienza del gesto inascoltato, della forma che si rivolge a un destinatario ormai assente. È la persistenza del visibile non decifrato, di tutto ciò che resta quando la memoria esiste ancora, ma non può più essere attivata.

In tale contesto si muove da decenni il lavoro di Rachel Whiteread, artista britannica che lavora da sempre sull’idea di negativo. La sua pratica consiste nel realizzare calchi (solitamente in cemento, resina o gesso) degli spazi che gli oggetti contengono, come la superficie interna di un armadio, l’aria sotto una sedia, l’interno di una stanza. In questo modo è la materia solida a dare forma al vuoto, rendendolo oggetto visibile, tangibile e pieno

La sua opera più celebre è House del 1993. Per questo progetto, l’artista interviene su un edificio in disuso nel nord-est di Londra, un’abitazione destinata alla demolizione, e ne realizza il calco interno in cemento. Lavora direttamente all’interno degli spazi vuoti, gettando la malta direttamente nelle stanze, nelle scale, nei corridoi e rinforzando la struttura con un’armatura metallica. Per finire, rimuove pazientemente, mattone dopo mattone, l’involucro esterno della casa e ciò che emerge è la massa piena dell’assenza: il negativo compatto degli spazi abitati, la sagoma inerte di tutto ciò che è stato vissuto, ora reso impraticabile, intatto e alieno.

Sebbene fosse pensata fin dall’inizio come un’installazione temporanea, House suscitò reazioni contrastanti: molti visitatori si riversarono nel quartiere per vederla, trasformandola in un monumento effimero alla perdita urbana, ma tra i residenti e i membri dell’amministrazione locale prevalse la diffidenza. Per alcuni, infatti, era soltanto un peso e un paradosso insensato in un quartiere già di per sé fragile, e la scultura rimase in situ per appena ottanta giorni, venendo demolita prima della scadenza prevista. Eppure, in quel brevissimo intervallo, House s’impose come la più intensa testimonianza della memoria privata resa materia, un monumento alla presenza invisibile degli spazi quotidiani, alla loro resistenza e al loro inevitabile dissolversi nella perdita di significato.

Ma la sua opera forse più crudele e necessaria resta l’Holocaust Memorial, realizzata a Vienna nel 2000. Qui, Whiteread costruisce una biblioteca chiusa: un monolite in cemento, massiccio come un bunker, dove i dorsi dei libri rivolti verso l’interno risultano inaccessibili, invisibili, imprigionati. I bordi delle pagine non lette rivestono ogni lato della massiccia struttura, suggerendo volumi serrati, compressi in uno spazio senza uscita e, soprattutto, senza alcun accesso. Diviene, così, un corpo chiuso, opaco, che respinge lo sguardo e insieme lo trattiene. Secondo l’artista, quelle pagine mai sfogliate rappresentano le vite non vissute, le storie spezzate delle vittime dell’Olocausto. Sui margini inferiori del blocco, incisi nella pietra, compaiono i nomi dei campi di sterminio dove troppi, tra loro, trovarono la morte. Il monumento sorge sulla Judenplatz, accanto ai resti di una sinagoga medievale distrutta e a un museo dedicato alla storia dell’ebraismo viennese e si mostra, oggi, come un segno irrevocabile.

Anche questa volta la sua creazione, promossa dallo scrittore e architetto Simon Wiesenthal, non fu pacifica. Anzi, ci furono innumerevoli ritardi, tensioni politiche, aspri dibattiti sulla presenza di un segno così assoluto proprio lì, nel cuore della città e, per finire, la scoperta di resti archeologici durante gli scavi. Ma alla fine il monumento fu completato e inaugurato nell’ottobre del 2000 come vero e proprio atto di denuncia, era un ammonimento che Vienna doveva a se stessa. Su richiesta di Whiteread, il memoriale non è stato protetto da rivestimenti antigraffiti e a tal proposito l’artista dichiarò: “Se qualcuno ci spruzza sopra una svastica, possiamo provare a cancellarla, ma qualche svastica dipinta farebbe davvero riflettere la gente su ciò che sta accadendo nella loro società”. Simon Wiesenthal fu altrettanto chiaro: “Questo monumento non dovrebbe essere bello. Deve far male”.

E infatti fa male. House raccontava la perdita privata; il Memoriale di Vienna, invece, incarna la cancellazione collettiva obbligando la comunità a non dimenticare e si apre come spazio senza consolazione, uno spazio di vuoto visibile, dove la memoria si mostra nel suo massimo grado d’impossibilità.

Rachel Whiteread, House (1993; dimensioni ambientali; demolita). Foto: Sue Omerod © Rachel Whiteread
Rachel Whiteread, House (1993; dimensioni ambientali; demolita). Foto: Sue Omerod © Rachel Whiteread
Rachel Whiteread, Judenplatz Holocaust Memorial (2000; cemento e acciaio, 10 x 7 m; Vienna, Judenplatz). Foto: C.Stadler/Bwag
Rachel Whiteread, Judenplatz Holocaust Memorial (2000; cemento e acciaio, 10 x 7 m; Vienna, Judenplatz). Foto: C.Stadler/Bwag

A una poetica simile, seppur diametralmente opposta nella forma, appartiene il lavoro di Francesca Woodman, fotografa americana morta giovanissima (a ventiré anni non ancora compiuti, nel 1981), che ha fatto dell’autorappresentazione una strategia di scomparsa. Le sue fotografie, tutte realizzate tra i tredici e i ventidue anni, restituiscono corpi che si cancellano, figure che si sovrappongono ai muri, che si dissolvono tra tende leggere, che si confondono con le ombre delle stanze abbandonate o s’infrangono contro superfici opache.

Woodman non rappresenta il corpo, ma lo sottrae, lo nasconde, lo consegna a una continua erosione visiva. È una poetica dell’apparizione imperfetta e della sparizione annunciata, dove il soggetto c’è ma resta incessantemente sfuggente, irraggiungibile, come se anche la fotografia che è lo strumento per antonomasia della fissazione, si rifiutasse di fermarlo davvero.

I suoi autoritratti non possiedono alcuna volontà celebrativa e non parlano d’identità, ma proprio della sua incapacità a restare. Sono gesti disperati e lucidissimi al tempo stesso, corpi che cercano uno spazio per esistere anche nel momento della scomparsa.E così le sue immagini sembrano farsi la stessa domanda che oggi ci poniamo davanti ai miti, alle icone, alle memorie fragili del nostro tempo: fino a quando un corpo è ancora visibile? E quanta attenzione serve per vedere ciò che sta svanendo?

In Whiteread e Woodman, ciò che accomuna i loro lavori è la sospensione, la tensione costante verso uno sguardo che non arriva mai, la forma che si offre ma senza garanzia di lettura e il segno che resta, testardo e inflessibile, anche quando è stato privato della sua funzione originaria.

Francesca Woodman, Autoritratto a 13 anni, Antella, Italia (1972). © Woodman Family Foundation, su concessione di Woodman Family Foundation e Victoria Miro
Francesca Woodman, Autoritratto a 13 anni, Antella, Italia (1972; fotografia alla gelatina d’argento). © Woodman Family Foundation, su concessione di Woodman Family Foundation e Victoria Miro
Francesca Woodman, From Space2, Providence, Rhode Island (1976; Amsterdam, Foam Fotografiemuseum)
Francesca Woodman, From Space2, Providence, Rhode Island (1976; fotografia alla gelatina d’argento, 13,7 x 13,3 cm; Amsterdam, Foam Fotografiemuseum)
Francesca Woodman, House #4, Providence, Rhode Island (1976; fotografia alla gelatina d'argento, 14,6 x 14,6 cm). © George and Betty Woodman
Francesca Woodman, House #4, Providence, Rhode Island (1976; fotografia alla gelatina d’argento, 14,6 x 14,6 cm). © George and Betty Woodman

Ma c’è un’altra opera recente che sembra restituire, con dolcezza e determinazione, una possibilità differente. Questa volta non la celebrazione del mito né la sublimazione dell’assenza, ma una forma di memoria tangibile, corporea e imperfetta fatta di gesti minimi, ripetuti, condivisi. Si tratta di At Rest, creata da Selva Aparicio a Nieuwpoort, nel nord delle Fiandre. Realizzata nel 2023, nasce da una collaborazione diffusa e paziente con centinaia di abitanti della cittadina. Sono mani giovani e mani anziane, mani abituate al lavoro, alla cura, al gesto distratto del passare del tempo. Aparicio ha raccolto le loro impronte una ad una nei mercati, nelle case di riposo, nei circoli e le ha trasformate in 4.400 tessere di bronzo, fuse singolarmente, poi assemblate fino a comporre la superficie lucente di una panchina.

Un oggetto da abitare, da cui guardare il paesaggio. Si tratta di un silenzioso punto di sosta orientato verso il laghetto del Koolhofput, in uno dei luoghi in cui il fronte della Prima Guerra Mondiale aveva aperto una ferita nella terra. Abitare quest’opera non significa soltanto osservare, ma entrare in contatto con una moltitudine silenziosa. Le impronte avvolgono, proteggono, confondono. Si viene accolti da una trama di corpi non più presenti, ma ancora leggibili nel metallo. Il titolo stesso, “A riposo”, è insieme chiaro e stratificato: rimanda al gesto del sedersi, ma anche al comando militare, al tempo che cede, alla deposizione. È un’opera che non promette eternità, anzi: è costruita proprio perché il tempo la usuri. Le mani che l’hanno generata scompariranno, le intemperie consumeranno lentamente le linee, le venature si sfalderanno, i margini si confonderanno e sarà proprio questo, lo sgualcirsi progressivo della superficie, a renderla ancora più viva, più vera. Si tratta di una memoria che cambia con il paesaggio, che invecchia con chi la visita in cui il ricordo viene affidato solamente al tempo e al gesto di sedersi, guardare e restare. Anche solo per una manciata di secondi.

Selva Aparicio, At rest (2023-2024; bronzo, acciaio corten, cemento, 284 x 60 x 200 cm; Nieuwpoort, Koolhofput). Foto: Filip Claessens
Selva Aparicio, At rest (2023-2024; bronzo, acciaio corten, cemento, 284 x 60 x 200 cm; Nieuwpoort, Koolhofput). Foto: Filip Claessens
Selva Aparicio, At rest (2023-2024; bronzo, acciaio corten, cemento, 284 x 60 x 200 cm; Nieuwpoort, Koolhofput). Foto: Filip Claessens
Selva Aparicio, At rest (2023-2024; bronzo, acciaio corten, cemento, 284 x 60 x 200 cm; Nieuwpoort, Koolhofput). Foto: Filip Claessens
Selva Aparicio, At rest, dettaglio. Foto: Francesca Anita Gigli
Selva Aparicio, At rest, dettaglio. Foto: Francesca Anita Gigli
Selva Aparicio, At rest, dettaglio. Foto: Francesca Anita Gigli
Selva Aparicio, At rest, dettaglio. Foto: Francesca Anita Gigli

Eppure esiste anche una memoria che non accoglie, non consola e non protegge. È una memoria che archivia, che conserva senza comprendere, che trattiene i segni della presenza come resti anonimi. Si tratta di quella che percorre l’opera di Christian Boltanski, artista francese che ha costruito negli anni una delle più radicali riflessioni contemporanee sul tema della scomparsa, del lutto e dell’identità cancellata e inaccessibile. Lavora con ciò tutto ciò che resta, con oggetti comuni e apparentemente anonimi, navigando in un linguaggio povero, ma carico di intensità rituale. Le sue installazioni non raccontano nulla, ma testimoniano e lo fanno senza garanzie, senza assicurare che ciò che vediamo possa essere davvero restituito alla vita.

In opere come Les Archives, Boltanski espone file di scatole di latta che al loro interno presentano reperti fotografici, documenti, frammenti del proprio studio, poi sigillati e resi inaccessibili. Sono solo resti chiusi, reliquie inarticolate senza alcun nome o biografia da consultare. Un ammasso di tracce non più interpretabili, una sottrazione dell’ordine. I suoi archivi (da Les Archives de CB del 1965-1988, fino a La Vie impossible del 2001) registrano una volontà disperata di trattenere il passaggio degli uomini, pur sapendo che nessun gesto potrà più ricostruire il senso pieno di quei resti.

Con Personnes del 2010, in quella montagna di abiti inerti che ha viaggiato dal Grand Palais di Parigi all’Hangar Bicocca di Milano, Boltanski lavora ancora sulla spoliazione costruendo una geografia inaccessibile di abiti ammassati, strappati dalla vita, pescati casualmente.

“La fotografia, l’indumento o il cadavere di qualcuno sono praticamente la stessa cosa”, dirà: “c’era qualcuno lì, ora non c’è più”. Anche il visitatore, davanti a queste opere, non è spettatore privilegiato, ma testimone tardivo, poiché qui la memoria si fa gesto ossessivo, inutile e struggente. È una forma di resistenza fragile, priva di fede nella possibilità di trasmettere, ma ostinata nel continuare ad accumulare, a registrare, a non dimenticare.

Però negli ultimi anni questa tensione si fa sempre più lieve, più rarefatta e la materia si dissolve nel suono, nella vibrazione, nell’aria. Les Archives du cœur, per esempio, raccoglie battiti cardiaci umani, in cui le vite si ascoltano, si registrano e si perdono inesorabilmente.

In Animitas, invece, è il vento ad essere protagonista che, attraversando centinaia di campanelle disseminate nel deserto cileno di Atacama, crea un concerto di voci sottili e un ponte fragilissimo tra terra e cielo. Come se, oltre la storia, oltre i nomi, oltre i corpi, proprio di questo fossimo fatti in realtà. Di aria, di suono, di memoria che continua a fuggire dalle dita.

Christian Boltanski, Les archives de Christian Boltanski 1965-1988 (1989; metallo, lampade, fili elettrici, fotografie in bianco e nero e a colori, carta, 270 x 693 x 35,5 cm; Parigi, Centre Pompidou)
Christian Boltanski, Les archives de Christian Boltanski 1965-1988 (1989; metallo, lampade, fili elettrici, fotografie in bianco e nero e a colori, carta, 270 x 693 x 35,5 cm; Parigi, Centre Pompidou)
Mostra Personnes di Christian Boltanski all'Hangar Bicocca di Milano (2010)
Mostra Personnes di Christian Boltanski all’Hangar Bicocca di Milano (2010)
Christian Boltanski, Animitas - Talabre, San Pedro de Atacama, Chile (2014). © Fondation Louis Vuitton / Marc Domage
Christian Boltanski, Animitas - Talabre, San Pedro de Atacama, Chile (2014). © Fondation Louis Vuitton / Marc Domage

È una memoria senza mito quella che sopravvive quando non c’è più nessuno a interpretarla. D’altronde questo vale per ogni icona culturale, e la leggenda, oggi, non vive solo perché è più grande o più importante; vive se qualcuno decide di crederci ancora, con consapevolezza. E se quel gesto non accade, anche l’apparizione più carica di significato rimane sorda. Svanisce. Forse, oggi, la domanda da porsi non è perché i miti si svuotino, quanto piuttosto dove siamo noi, quando si presentano. Siamo ancora capaci di riconoscere qualcosa che non ci somiglia, che non ci parla con i nostri stessi codici, che non cerca consenso immediato? Alla fine forse la vera sfida non sta nel proteggere i miti del passato, ma nell’imparare a lasciarli accadere in modi nuovi sapendo che a volte, prima del boato, c’è il silenzio, che non tutto ciò che non viene accolto è perso e che anche una leggenda può apparire e sparire senza essere notata. E restare comunque.

Non per quello che ha rappresentato, ma per ciò che ancora può insegnare a chi, oggi, ha il compito più difficile: riconoscere ciò che non gli somiglia e tenerlo con sé, anche così. Anche se è scomodo, ingombrante e inaccessibile.


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Francesca Anita Gigli

L'autrice di questo articolo: Francesca Anita Gigli

Francesca Anita Gigli, nata nel 1995, è giornalista e content creator. Collabora con Finestre sull’Arte dal 2022, realizzando articoli per l’edizione online e cartacea. È autrice e voce di Oltre la tela, podcast realizzato con Cubo Unipol, e di Intelligenza Reale, prodotto da Gli Ascoltabili. Dal 2021 porta avanti Likeitalians, progetto attraverso cui racconta l’arte sui social, collaborando con istituzioni e realtà culturali come Palazzo Martinengo, Silvana Editoriale e Ares Torino. Oltre all’attività online, organizza eventi culturali e laboratori didattici nelle scuole. Ha partecipato come speaker a talk divulgativi per enti pubblici, tra cui il Fermento Festival di Urgnano e più volte all’Università di Foggia. È docente di Social Media Marketing e linguaggi dell’arte contemporanea per la grafica.



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