La pittura di paesaggio rappresenta uno dei soggetti più sentiti dal movimento macchiaiolo, che sul genere ci ha lasciato dei brani di grandissima intensità in grado di testimoniare quel nuovo approccio che la compagine toscana, fautrice di un rinato realismo, seppe infondere all’arte del suo secolo. “Non avrai altra scuola che il vero e la natura”, ammoniva i suoi allievi Giovanni Fattori, che di quel movimento seppe essere uno dei protagonisti più importanti. Del resto, proprio il gruppo degli artisti che faceva riferimento al Caffè Michelangiolo di Firenze aveva proposto nel paesaggio, e in particolare quello naturale scarsamente antropizzato, il proprio inno, capace di imporsi come soggetto autonomo, senza renderlo subalterno a narrazioni o relegato sullo sfondo di scene aneddotiche.
Non a caso, benché questi pittori avessero preso il loro avvio nel capoluogo toscano, unica città della regione capace, a quei tempi, di garantire una certa effervescenza culturale, elessero a propri luoghi di ritiro e di produttività mete rurali o incorrotte, dove l’incontro con la natura subiva meno interferenze. Sul silenzio delle colline senesi iniziò a formarsi quel manipolo di artisti che già si muoveva prima della “macchia” vera e propria e che si radunava intorno al pittore ungherese Andrea Markò, e a cui partecipò anche il livornese Serafino De Tivoli, che dei macchiaioli fu una delle personalità più preponderanti, soprattutto in un primo momento. Nella scuola di Castiglioncello, paese poco distante da Livorno, si radunò invece una parte di questi artisti che nella comunione tra sole, mare, scogliere e verde trovavano un campionario inesauribile, mentre a questo preferirono più il quieto trascorrere della vita domestica nelle campagne fiorentine gli artisti della scuola di Piagentina.
Ma nelle tele e nelle tavole quasi sempre a sviluppo longitudinale finirono per essere eternati anche altri innumerevoli scorci della Toscana in cui, eccezion fatta per la città di Firenze e poco altro, fu soprattutto il tema agreste a dominare, tanto nelle vedute della Maremma quanto anche in quelle elbane o del litorale livornese di Antignano. Tra le località della sterminata mappatura macchiaiola figurano anche le zone della provincia di Pisa, benché senz’altro meno studi si siano soffermati a indagare tale aspetto. Non dissimile all’attitudine mostrata per le altre località, l’attenzione per le terre pisane fu soprattutto concentrata su quei paesaggi autentici e spontanei ancora scarsamente urbanizzati che la vasta provincia offriva. In particolare, una vasta produzione trovava interesse per quei territori silenziosi, dove il verde degli alberi si dirada per lasciar scorrere placido il fiume Arno.
Tra i più affezionati frequentatori della zona si annovera Giovanni Costa, detto Nino, pittore romano che ebbe il merito di far abbandonare a Giovanni Fattori l’approccio accademico in pittura in favore di un più libero naturalismo. Il pittore romano rimase ammaliato da Bocca d’Arno, il nome con cui è identificata la foce del fiume toscano, tanto da eleggere la località sua casa fin dai primi anni della seconda metà dell’Ottocento, e catalizzando con la sua presenza personaggi di spicco del mondo artistico e letterario italiano e anglosassone. Dalle sue memorie si ricava un’immagine nitida dell’affezione che aveva per questi luoghi: “La costa del Mar Pisano fu il luogo di campagna dove più a lungo io abbia dimorato e dove in maggior copia trovassi soggetti alla mia pittura. La luce, gli acquitrini, i magnifici alberi con lo sfondo del mare e delle grandiose Apuane e dei Monti Pisani, fanno di questo uno dei siti più belli e pittoreschi del mondo. [...] A Bocca d’Arno prima ancora che si costruisse una sola casa io andai ad abitarvi e dipingervi”. Suggestiva è l’opera Il Fortino di Bocca d’Arno dipinta intorno al 1885, soggetto tra i più amati e che aveva già conosciuto negli anni della sua giovinezza trascorsi in Toscana e dipinto nel 1855.
Di grande intensità è ancora l’opera Il fiume morto al Combo di Pisa. Paesaggio con fiume, dove rappresenta il fiume Morto, un corso d’acqua a pochi chilometri dalla foce del Serchio, che canalizza le acque di una vasta area compresa tra l’Arno, il Serchio e il monte Pisano, ma che, data la scarsa pendenza, tendeva nel passato a impaludarsi tra i canneti e boschi. “Dipinsi il bozzetto del mio grande quadro Fiume Morto, nel quale figura un tratto di questo gran fosso che [...] scorre fra i pini e i lecci con tanta lentezza da sembra, la sua, acqua morta. Fra mezzo agli alberi forma il fondo di questo quadro, violaceo il monte pisano”. Di questa opera è nota anche una piccola tavoletta, un freschissimo studio realizzato en plein air, nient’affatto lontano dalle temperie della scuola di Barbizon, che fu scelto dall’autore per l’esposizione internazionale di Wolverhampton del 1902. Nella rielaborazione sul grande formato il Costa rende la scena più tersa e meno brillante, una scena nella quale aleggia un’atmosfera quasi malinconica. Si tratta di una pittura che abbonda di trasparenze e sensibilità cromatica, e che con piglio squisitamente romantico registra variazioni di atmosfera e di luce.
Poco distante si sviluppa il Gombo, località sempre sulla costa di San Rossore, tra le prime ad aver avuto uno sviluppo balneare, e in seguito privatizzata da Casa Savoia, che volle farla propria costruendovi un elegante chalet. Il Gombo diviene soggetto di una cristallina veduta di un altro degli artisti che, seppur in una zona geografica diversa d’Italia, quella ligure, contribuirono al rinnovamento antiaccademico e naturalista, Ernesto Rayper, capostipite di quella che è nota come “scuola grigia” o “dei grigi”. Rayper dipinse la spiaggia del Gombo nel 1864, con le capanne di falasco usate da pescatori e bagnanti, quando ancora l’arenile era stato dato in concessione alla famiglia Ceccherini per le bagnature pubbliche e ancora non era stata interdetta dalla casa regnante.
Meno limpida è la veduta con le palafitte dello stabilimento balneare del Gombo resa nel dipinto di Emilio Donnini, in bilico tra un’impostazione romantica del paesaggio e una trascrizione più realista, tipica di quegli artisti che furono vicini alla famiglia Markò. L’anno successivo il pittore la espose alla Mostra della Società Promotrice di Belle Arti del 1865, dove fu acquistata per 300 lire dallo sfortunato principe Oddone di Savoia.
Il tratto di fiume Arno che scorre nella tenuta di San Rossore è stato dipinto anche da Serafino De Tivoli, pittore per cui fu coniata la definizione di “babbo della macchia”, che fu in buoni rapporti con Nino Costa. Nel 1857 espose a Firenze cinque dipinti ambientati lungo le sponde dell’Arno pisano. Di questi, L’Arno a San Rossore parrebbe una composizione in presa diretta del paesaggio, epurata da quegli accenti lirici invece cari al Costa e mostra una tavolozza luminosa, giocata sui verdi, gli azzurri e il bianco e una pennellata materica.
Diversa ancora è la lettura che Giovanni Fattori offre nella sua tavoletta nota come Laghetto a San Rossore o San Rossore - Riflessi. La veduta si stringe su una porzione dello specchio d’acqua e delle poche fronde degli alberi che la adombrano, mentre dietro si apre una radura la cui profondità è accennata solo attraverso la modulazione del colore e dei gradenti luministici, offrendo un’impressione vividissima del paesaggio. Il maestro livornese nella campagna pisana ambienterà altri grandi capolavori come Cavalli bradi nella pineta di Tombolo e Tombolo.
Alla natura selvaggia fluviale e litoranea preferì piuttosto l’agreste entroterra un altro dei padri del movimento macchiaiolo, Silvestro Lega, di cui sono note alcune opere che hanno per soggetto la placida e rustica vita del paese di Crespina, dove il pittore di Modigliana risiedette nel 1886, ospitato da Angiolo Tommasi, la cui famiglia aveva una villa in tale località. Durante il soggiorno realizzò alcune opere come La Chiesa di Crespina, dipinto che già mostra quella maniera concitata che il critico Mario Tinti individuava come l’ultimo periodo dell’artista. La scena, impostata su una certa essenzialità formale e costruita attraverso colori magri impastati e concepiti con grande sintesi, fa emergere di quando in quando il supporto della tela, di cui il colore è funzionale per la resa.
Meno ricca è la produzione di opere che ha per protagonista il centro storico della città di Pisa, che invece tutt’altra fortuna iconografica ha avuto nei pittori di altre epoche, sia del passato che delle generazioni immediatamente successive ai Macchiaioli. Si tratta comunque di un’attitudine frequente nella geografia della compagine toscana, generalmente poco interessata all’urbanistiche cittadine, se si esclude gli scorci di Firenze e poco altro.
Un certo interesse però fu catalizzato dalle architetture del gotico Camposanto di Piazza dei Miracoli, la cui mole traforata da finestre con bifore è soggetto di un attento dipinto di Giuseppe Abbati, che nel 4 luglio 1864 era ospite di Diego Martelli, che a Pisa aveva diverse proprietà. Anche Odoardo Borrani e Vincenzo Cabianca si confrontarono con il medesimo tema.
Decisamente più generosa e abbondante di riferimenti alle architetture, chiese e strade della città di Pisa è l’opera dei fratelli Gioli, Francesco e Luigi. Nati entrambi in una frazione di Casciana, paese nel contado pisano, i due pittori hanno fermato continuamente la loro attenzione tanto sul tema rurale, quanto sulle vedute cittadine.
Francesco, i cui esordi si pongono a stretto contatto con la corrente dei Macchiaioli, avrebbe in seguito, come del resto il fratello, sperimentato modelli, che per intenti e resa si distaccano dalla tradizione toscana, accogliendo innovazioni d’oltralpe. I due fratelli sarebbero così diventati riferimento per quella generazione di artisti conosciuta come “postmacchiaioli”, pittori per i quali non venne meno l’interesse per il paesaggio ma con intenzioni e attenzioni differenti.
Per saperne di più su Pisa: https://www.turismo.pisa.it/
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.