Le Tre Grazie di Antonio Canova: bellezza e sensualità


Le Tre Grazie di Antonio Canova, una delle opere più famose del maestro neoclassico, sono assurte a simbolo di bellezza sensualità. Ecco come nacque il capolavoro.

Simbolo di grazia, bellezza e sensualità, il gruppo scultoreo delle Tre Grazie di Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822) è considerato tra i più raffinati capolavori dell’arte di tutti i tempi. Le tre figure femminili nude uniscono in un abbraccio i loro corpi esili e tonici, si guardano negli occhi, s’accarezzano dolcemente, s’abbandonano quasi l’una all’altra, facendo trasparire agli occhi dell’osservatore movenze lascive. Un unico drappo, che prima avvolge il gomito della giovane a destra e che la stessa sostiene poi con la mano sinistra sfiorando con le dita un seno della figura centrale, copre le nudità a tutte e tre. È un trio armonioso nel suo insieme; pare che il marmo levigato di cui sono fatte le tre figure prenda vita davanti a chi le osserva, attento a cogliere ogni minimo dettaglio della maestria del grande scultore. Pare veder muovere le loro affusolate dita sulla liscia e morbida pelle, i delicati volti avvicinarsi, e vederle stringersi amorevolmente l’una all’altra. Tutte e tre simili nella corporatura e nell’acconciatura tipica dell’epoca, la figura femminile al centro è frontale, abbraccia entrambe le sue compagne e inclina lievemente la testa verso la figura a sinistra, che la invita a farlo con una dolce carezza; quest’ultima volge dolcemente il suo sguardo verso la figura centrale, con una mano le sfiora il viso, l’altra la appoggia alla spalla della terza fanciulla. Questa, a sua volta, è posta di fronte alla giovane a sinistra e, mentre la osserva e sorride, sfiora il seno di quella centrale e le appoggia l’altra mano sulla spalla. Si sorreggono tutte su una gamba, tenendo l’altra semipiegata e poggiando solo le dita a terra, o dietro o incrociata alla gamba di sostegno, e sono disposte attorno a un altare sacrificale sul quale è posta una ghirlanda floreale.

La prima e più famosa versione della scultura, realizzata tra il 1813 e il 1816, è oggi conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, mentre una seconda versione con piccole differenze è custodita a Londra, al Victoria & Albert Museum. Prima di delineare la storia di entrambe le versioni, è bene tuttavia precisare chi erano le tre Grazie. Figlie di Zeus e della ninfa Eurinome, erano divinità legate al culto della natura e della vegetazione, ma soprattutto erano le dee che donavano grazia, bellezza e gioia alla natura, agli dei e ai mortali. Danzavano, presiedevano ai banchetti e accompagnavano solitamente Afrodite ed Eros, divinità della bellezza e dell’amore, e con le Muse danzavano al suono della lira di Apollo per gli dei. È il poeta greco Esiodo a ricordare i nomi delle tre Grazie nella sua Teogonia: Aglaia, Eufrosine e Talia. Queste erano in grado di offrire un particolare dono all’umanità: rispettivamente, lo splendore, la gioia e la prosperità. Si pensi ad esempio alla loro significativa presenza nella Primavera di Botticelli, dove le tre fanciulle danzano in maniera armoniosa coperte solo da veli trasparenti tra il dio Mercurio e la figura centrale da sempre identificata con Venere, accompagnata da Cupido che scocca una freccia; il tutto in un’ambientazione naturale con alberi da frutto e un prato fiorito. Ed è proprio Giorgio Vasari che nel descrivere il dipinto di Botticelli parla di una “Venere che le grazie la fioriscono, dinotando la primavera”, dunque come dee legate alla natura e alle quali si deve così tanta bellezza, gioia e prosperità alla natura e alle divinità.

Antonio Canova, Le tre Grazie (1813-1816; marmo, 182 x 103 x 46 cm; San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, inv. 506)
Antonio Canova, Le tre Grazie (1813-1816; marmo, 182 x 103 x 46 cm; San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, inv. 506)
Antonio Canova, Le tre Grazie (1814-1817; marmo, 173 x 97,2 x 57 cm; Londra, Victoria & Albert Museum)
Antonio Canova, Le tre Grazie (1814-1817; marmo, 173 x 97,2 x 57 cm; Londra, Victoria & Albert Museum)
Antonio Canova, Le tre Grazie (Victoria & Albert Museum), dettaglio
Antonio Canova, Le tre Grazie (Victoria & Albert Museum), dettaglio

È da notare tuttavia come nella Primavera di Botticelli o ad esempio ne Le Tre Grazie di Raffaello del Museo Condé di Chantilly le tre Grazie siano disposte, come da iconografia dell’antichità classica, con la figura centrale girata di spalle e le altre due prese di profilo o rivolte verso l’osservatore. Canova sceglie invece di raffigurare le tre fanciulle in modo innovativo, tutte rivolte frontalmente, nessuna delle tre volge le spalle all’osservatore e tutte si guardano reciprocamente con trasporto. La giovane al centro e quella a sinistra sembrano guardarsi con aria sognante, mentre di quella a destra cogliamo la partecipazione. Pur sempre rispondendo ai canoni della bellezza ideale che caratterizzavano l’estetica del Neoclassicismo teorizzato dal tedesco Johann Joachim Winckelmann, secondo il quale il bello ideale si riassumeva nella formula “nobile semplicità e quieta grandezza”, quindi nella ricerca razionale di forme lontane da virtuosismi ma caratterizzate dall’eleganza e dalla grazia dell’arte classica, le tre Grazie di Canova sono tutt’altro che prive di sentimento umano, ma al contrario trasmettono nell’osservatore un forte coinvolgimento emotivo: una sensualità al limite della lascivia, come ebbe a scrivere il re Ludovico di Baviera dopo aver osservato le Grazie dello scultore veneto, e che per questo motivo non le preferì. A colpirlo positivamente furono invece le Grazie di Bertel Thorvaldsen (Copenaghen, 1770 – 1844), più caste rispetto a quelle del suo “rivale”. Il gruppo scultoreo dell’artista danese, realizzato tra il 1817 e il 1819 e oggi custodito al Thorvaldsens Museum di Copenaghen, viene spesso posto a confronto con quello di Canova, perché, pur essendo entrambe opere neoclassiche, vi è una sostanziale differenza tra le due: le Grazie di Thorvaldsen, in pieno rispetto dell’estetica neoclassica, non fanno trasparire alcun sentimento; pur abbracciandosi, guardandosi e sfiorandosi (la giovane a destra tocca con un dito il mento di quella centrale) non traspare alcun intento erotico. Il loro sguardo è fisso, i volti sono impassibili. Poco più che bambine, a differenza di quelle di Canova che sono invece ben formate e avvenenti, sembrano tre adolescenti intente in un gioco innocente. Thorvaldsen aggiunge inoltre alle tre Grazie, ai loro piedi, sulla sinistra, un Cupido che suona la cetra, probabilmente per riempire lo spazio tra le gambe delle giovani, mentre sulla destra pone una colonnina; nel gruppo canoviano invece le gambe delle fanciulle si sfiorano, suggerendo una certa sensualità. Le Grazie di Thorvaldsen e di Canova rappresentano quindi due modi opposti d’intendere la bellezza: umana e sensuale quella di Canova, divina e casta quella di Thorvaldsen.

Le tre Grazie, ricavate da un unico blocco di marmo e a grandezza naturale, vennero commissionate a Canova da Giuseppina di Beauharnais, prima moglie divorziata di Napoleone Bonaparte. È probabile che la proposta di lavorare a un gruppo scultoreo che raffigurasse le tre Grazie giunse allo scultore in una lettera spedita l’11 giugno 1812 dal segretario dell’ex imperatrice, J.M.Deschamps, a cui Canova rispose chiedendo tempo per riflettere; tuttavia da diversi bozzetti e disegni sembra che lo scultore si sia messo quasi subito a lavorare su questo tema. Secondo la ricostruzione di Massimiliano Pavan, nel 1812 il pittore e collezionista Giuseppe Bossi aveva scritto a Canova: “Ho sentito vociferare che tu debba fare per questa Signora [la Beauharnais] un gruppo delle tre Grazie”. Lei in realtà non fece in tempo a vedere l’opera finita perché scomparve nel maggio 1814, e neppure un disegno del gruppo, e per questo lo scultore si diceva già dispiaciuto nel 1813, quando Leopoldo Cicognara volle andare a Parigi per portare a Napoleone il primo volume della sua Storia della Scultura. A Cicognara scrisse anche Ugo Foscolo, anticipando: “A voi oratore delle Grazie, manderò tra non molto il Carme delle Grazie”, che il poeta dedicò a Canova.

Antonio Canova, Le tre Grazie (1813; gesso, 170 x 100 x 65 cm; Possagno, Museo Gypsotheca Antonio Canova, inv. 237)
Antonio Canova, Le tre Grazie (1813; gesso, 170 x 100 x 65 cm; Possagno, Museo Gypsotheca Antonio Canova, inv. 237)
Antonio Canova, Le tre Grazie (gesso), dettaglio
Antonio Canova, Le tre Grazie (gesso), dettaglio
Bertel Thorvaldsen, Le Grazie con Cupido (1820-1823, dal modello del 1817-1819; marmo, 172,7 x 119,5 x 65,3 cm; Copenaghen, Thorvaldsens Museum, inv. A894)
Bertel Thorvaldsen, Le Grazie con Cupido (1820-1823, dal modello del 1817-1819; marmo, 172,7 x 119,5 x 65,3 cm; Copenaghen, Thorvaldsens Museum, inv. A894)

Dopo la morte della madre Giuseppina, seguì la committenza il figlio Eugenio de Beauharnais, ma passò un lungo periodo di tempo prima che Canova ricevesse un pagamento. Lo scultore dovette attendere il marzo 1817 per ottenere la somma pattuita, ovvero quando Eugenio de Beauharnais diventò duca von Leuchtenberg sposando la figlia del re di Baviera, e al contempo chiese a Canova l’autorizzazione all’esportazione del gruppo scultoreo da Roma. Venne quindi trasferito a Monaco di Baviera, dove rimase fino alla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento. All’Ermitage di San Pietroburgo vi giunse nel 1901 con la sua vendita da parte dei discendenti del figlio di Eugenio, il duca Massimiliano von Leuchtenberg, e di sua moglie Marija, figlia dello zar russo Nicola I. La coppia si era stabilita a San Pietroburgo e dopo la morte di Massimiliano, a metà degli anni Cinquanta, la collezione di famiglia era stata trasferita in Russia e collocata a Palazzo Mariinskij. Il gesso originale è invece conservato nella Gypsotheca di Possagno e reca l’iscrizione “Incominciato in giugno finito in agosto 1813”.

Esiste inoltre una seconda versione delle tre Grazie, oggi custodita al Victoria & Albert Museum di Londra e realizzata tra il 1815 e il 1818. Questa gli venne commissionata da John Russell, sesto duca di Bedford, il quale dopo aver visitato lo studio dello scultore a Roma ed essendo rimasto affascinato dall’opera a cui Canova stava ancora lavorando, desiderava acquistare l’opera finita. Anche Eugenio de Beauharnais voleva acquistare la scultura commissionata da sua madre, quindi lo scultore si offrì di realizzare per il duca di Bedford una replica della prima versione con modifiche. Dopo aver accettato la proposta, il duca scrisse a Canova che non aveva mai visto nulla nella scultura antica o moderna che gli avesse dato più piacere, e che nonostante le modifiche sperava che venisse preservata la vera grazia che contraddistingueva l’opera. Per questa seconda versione venne scelto un marmo bianco anziché venato, l’altare rettangolare sul retro venne sostituito da una colonna circolare con base e capitello dorico, e alla figura centrale venne ingrossata leggermente la vita. Terminata la scultura, fu consegnata nella residenza di campagna del duca, Woburn Abbey; estremamente entusiasta della nuova acquisizione, il duca di Bedford rimase colpito dalla morbidezza delle tre Grazie, “quell’aspetto di viva morbidezza dato alla superficie del marmo, che sembra voler cedere al tocco”. Nella dimora, la scultura venne collocata nel Tempio delle Grazie, una rotonda illuminata dall’alto progettata appositamente dall’architetto Jeffrey Wyatville. Lo stesso Canova, durante una visita che fece a Woburn Abbey nel 1815, prima che questo nuovo spazio venisse costruito, avrebbe consigliato la posizione e l’illuminazione corrette da utilizzare per la sua opera. Questa venne posta su un antico piedistallo in marmo che permetteva all’osservatore di ammirare la scultura da più punti di vista.

Scriveva Ugo Foscolo nel suo carme incompiuto Le Grazie: “Al vago rito / vieni, o Canova, e agl’inni. [...] Forse (o ch’io spero!) artefice di Numi,/ nuovo meco darai spirto alle Grazie / ch’or di tua man sorgon dal marmo”. E così lo scultore veneto ha dato vita a uno dei più grandi capolavori del Neoclassicismo.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, sono co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. Sono nata a Carrara nel 1987 e mi sono laureata a Pisa. Sono responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.

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