La Maestà di Simone Martini nel Palazzo Pubblico di Siena: un capolavoro religioso ma soprattutto civile


La “Maestà” di Simone Martini, il capolavoro che decora una delle pareti della Sala del Mappamondo nel Palazzo Pubblico di Siena, è un alto esempio dei valori civili dell'antica Repubblica Senese, ed è anche una straordinaria e innovativa opera d'arte.

Sulla parete settentrionale della Sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena si estende per 110 metri quadri uno dei capolavori della pittura senese, realizzato, a partire presumibilmente dal 1312, da Simone Martini (Siena, 1284 circa – Avignone, 1344). Si tratta della Maestà, opera commissionata al pittore senese dal Governo dei Nove, espressione dei grandi mercanti, banchieri e grandi imprenditori cittadini, che rimase al potere dal 1287 al 1355. Nella sala in cui venivano dipinte le conquiste territoriali senesi tramite la rappresentazione dei castelli assoggettati, viene scelto di raffigurare un preciso soggetto religioso ben presente nell’immaginario collettivo a Siena, in quanto dal 1311 era presente sull’altare maggiore del Duomo la splendida Maestà di Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 – 1318/1319). Stesso soggetto, ma due realizzazioni con motivazioni e intenti ben diversi. Se la tavola di Duccio è una squisita icona neobizantina, di pura devozione alla Vergine, e rappresenta una situazione che non appartiene a questo mondo, nell’opera martiniana si può cogliere da subito l’intenzione più profana e la volontà di cercare un contatto diretto con l’osservatore, coinvolgendolo in maniera accattivante. Infatti, a questa raffigurazione corredata da precise iscrizioni in volgare composte da un poeta aggiornato sulle novità linguistiche della Commedia dantesca, venne affidato un messaggio etico-politico che doveva essere chiaramente comprensibile per quanti si riunivano in quella sala durante il Consiglio Generale.

Bisogna ricordare che la città si era votata alla Vergine in occasione della battaglia di Montaperti del 4 settembre 1260, vinta dall’esercito ghibellino, il cui contingente senese era guidato da Provenzano Salvani, contro la guelfa Firenze.

“Chi entrava nella sala non si trovava di fronte alla fissa immagine di un distante, irraggiungibile paradiso, quale lo si sarebbe potuto vedere illustrato su una tavola d’altare, ma quasi alla rappresentazione di un evento, seppur eccezionale, alla reale rappresentazione di una scena di corte”: così scrive lo storico dell’arte Alessandro Bagnoli nel volume edito in seguito all’importante restauro degli anni Novanta, di cui fu il direttore. Fu quella l’occasione per formulare inedite osservazioni che hanno contribuito a comprendere in maniera approfondita diversi aspetti fino a quel momento poco chiari o per nulla considerati, mostrando come il restauro sia un incredibile e fondamentale momento conoscitivo di un’opera d’arte.

Simone Martini, Maestà (1312-1315; affresco e applicazioni di materiali varî, 763 x 970 cm; Siena, Palazzo Pubblico)
Simone Martini, Maestà (1312-1315; affresco e applicazioni di materiali varî, 763 x 970 cm; Siena, Palazzo Pubblico)


Palazzo Pubblico, la parete della Sala del Mappamondo che ospita la Maestà di Simone Martini
Palazzo Pubblico, la parete della Sala del Mappamondo che ospita la Maestà di Simone Martini

Non bisogna cadere nell’errore di considerare l’opera soltanto per la parte in cui vengono rappresentati la Vergine con il Bambino, gli arcangeli, gli angeli e i santi. La Maestà fu infatti concepita in maniera unitaria dalla cornice in alto fino alla balza decorata a finti marmi in basso.

Nei medaglioni della cornice si possono riconoscere il Salvatore benedicente (in alto, centrale), patriarchi e profeti (in alto e sui lati), gli evangelisti (negli angoli) e i dottori della Chiesa (in basso); inoltre, nella zona inferiore in posizione centrale, è presente una figura bicipite che rappresenta la Lex Vetus e la Lex Nova (sulle tavole in pietra che la figura regge sono infatti riportati i dieci comandamenti e i sette sacramenti). Si riconoscono poi molti simboli di Siena: il sigillo della città, il sigillo del Capitano del Popolo, la moneta, la lupa senese, la Balzana senese (bianca e nera) e il leone rampante del popolo. Inoltre, nella decorazione del baldacchino vengono inseriti gli stemmi degli Angiò e della casa reale di Francia, oltre a quelli cittadini, a indicare la fede guelfa della Siena dei Nove e le sue alleanze.

La Vergine con il Bambino seduta in trono appare come una regina dell’epoca e ai suoi lati trova spazio la sua corte celeste formata da santi, arcangeli e angeli. Inginocchiati davanti al trono ci sono due angeli che offrono bacili di fiori (con atteggiamento che ricorda quelli di Giotto nella Maestà di Ognissanti) e i quattro santi patroni della città di Siena: sant’Ansano, san Savino, san Crescenzio e san Vittore.

Questa raffigurazione è inserita all’interno di una cornice concepita con grande illusionismo architettonico, tanto da avere l’impressione dello spessore tangibile del muro sbalzato oltre il quale si svolge la scena. Il punto di vista della composizione è centralizzato. Le mensolette architettoniche, di ispirazione giottesca, che caratterizzano la cornice convergono verso il centro e quella centrale è rappresentata perfettamente frontale.

Il grande baldacchino conferisce un forte senso di profondità alla raffigurazione, dimostrando grande coerenza nei confronti della razionalità giottesca. Sulle aste Simone rappresenta piccoli stemmi araldici scorciati per restituire il senso della rotondità. Il tendaggio cade in maniera disinvolta. In questo percorso di rielaborazione dell’illusionismo giottesco occupa un posto d’onore la grande balza a specchiature marmoree dipinte nella zona inferiore della parete, che vede come riferimenti il Giotto padovano e della cappella della Maddalena ad Assisi.

La Vergine con il Bambino
La Vergine con il Bambino


Il gruppo di angeli e santi a destra della Vergine. Partendo dal basso, prima fila: sant'Ansano, san Savino, un angelo. Seconda fila: san Paolo, san Michele, san Giovanni Evangelista. Terza fila: Uriel, santa Maria Maddalena, sant'Orsola. Quarta fila: san Bartolomeo, san Matteo, san Giacomo minore.
Il gruppo di angeli e santi a destra della Vergine. Partendo dal basso, prima fila: sant’Ansano, san Savino, un angelo. Seconda fila: san Paolo, san Michele arcangelo, san Giovanni Evangelista. Terza fila: l’arcangelo Uriel, santa Maria Maddalena, sant’Orsola. Quarta fila: san Bartolomeo, san Matteo, san Giacomo minore.


Il gruppo di angeli e santi a sinistra della Vergine. Partendo dal basso, prima fila: un angelo, san Crescenzio, san Vittore. Seconda fila: san Giovanni Battista, san Gabriele arcangelo, san Pietro. Terza fila: santa Caterina, sant'Agnese, san Raffaele arcangelo. Quarta fila: san Giacomo Maggiore, sant'Andrea, san Simone.
Il gruppo di angeli e santi a sinistra della Vergine. Partendo dal basso, prima fila: un angelo, san Crescenzio, san Vittore. Seconda fila: san Giovanni Battista, san Gabriele arcangelo, san Pietro. Terza fila: santa Caterina, sant’Agnese, san Raffaele arcangelo. Quarta fila: san Giacomo Maggiore, sant’Andrea, san Simone.


Il Salvatore benedicente
Il Salvatore benedicente


Lex nova e lex vetus
Lex nova e lex vetus


La balzana senese
La balzana senese


Sant'Ansano e san Savino
Sant’Ansano e san Savino


San Crescenzio e san Vittore
San Crescenzio e san Vittore


Il baldacchino
Il baldacchino

La luce è studiata per provenire da destra, proprio dove si trovano fisicamente le aperture all’interno della sala.

Anche la disposizione delle figure all’interno dello spazio e la solidità dei loro volumi dimostrano la consapevolezza giottesca di Simone. Alcuni di questi personaggi sacri sono addirittura raffigurati dietro le aste del baldacchino e talvolta si ‘impallano’ tra di loro, mostrando così un’inedita libertà spaziale. I volti sono raffigurati frontali, di profilo o di tre quarti e tra di loro si crea un gioco di sguardi e di relazioni. Proprio osservando alcuni di questi volti, si coglie l’omaggio alla cultura figurativa fino a quel momento predominante nel panorama della pittura a Siena, quella duccesca. I caratteri stilistici di Duccio sono ben riscontrabili in volti come quelli della Maddalena e della sant’Agnese o in quelli degli arcangeli Gabriele e Michele. Questi volti regalano altri splendidi dettagli: nel volto raffigurato dietro l’asta del baldacchino, sulla destra, si dischiude un sorriso e si intravedono i denti. Anche in questo caso Simone raccoglie la sperimentazione giottesca, riprendendo il sorriso del Bambino nel tondo in controfacciata nella Basilica Superiore di Assisi.

La volontà di Simone Martini in quest’opera è quella di creare una rappresentazione credibile e che riesca a cogliere i vari aspetti della realtà delle cose. Per ottenere ciò non si limita a nuove soluzioni formali, ma trova espedienti inediti (almeno in Italia) per la pittura murale. La superficie si rivela infatti decorata non soltanto attraverso la tradizionale stesura pittorica, ma anche tramite l’inserimento di materiali e tecniche non consuete per la pittura murale.

La Vergine con il Bambino è seduta su un trono che ricorda le forme dell’architettura gotica d’Oltralpe, elaborando un disegno che va oltre a qualsiasi realizzazione architettonica contemporanea in Italia. Questo trono sembra un grande reliquiario architettonico, aggiornato sulle produzioni orafe del tempo. Quello tra Simone e gli orafi è un rapporto stretto e quest’opera ne è un chiaro esempio. Il pittore, infatti, non si limita soltanto a riprodurre modelli ispirati all’oreficeria contemporanea attraverso il mezzo pittorico, ma si avvale dell’utilizzo di alcune tecniche proprie dell’arte suntuaria. Si può osservare l’utilizzo di punzoni in diverse zone della superficie, come ad esempio nella cornice e soprattutto nelle aureole. Infatti i santi nella parte destra della Maestà, i patriarchi, i profeti, san Giovanni e san Marco hanno l’aureola in rilievo e raggiata, secondo il modello introdotto ad Assisi, mentre a partire dalla sant’Orsola Simone utilizza dei punzoni per decorare la superficie dei nimbi, rendendoli elaborati e preziosi. Gli orafi senesi rappresentarono un avamposto per la diffusione della ‘via gotica’ oltremontana in Italia, a partire da Guccio di Mannaia. I medaglioni della cornice nella parte superiore, con un disegno marcato, linee incisive a creare barbe e capelli mossi dai caratteri leonini, trovano un fecondo confronto con le figurine che Guccio aveva raffigurato nel calice per il papa Niccolò IV. All’epoca dell’esecuzione della Maestà, orafi come Tondino di Guerrino, Andrea Riguardi e Duccio di Donato erano ancora portatori a Siena di quella cultura figurativa.

Nell’ottica di raggiungere una mimesi naturalistica dell’opera, Simone decide di non limitarsi a imitare la realtà attraverso il mezzo pittorico, ma inserisce all’interno del dipinto i veri materiali che avrebbe dovuto rappresentare. Così per il fermaglio della Vergine Simone utilizza un vero cristallo di rocca cabochon ancorato al muro tramite un cassone metallico, per il cartiglio del Bambino utilizza un vero foglio di carta, nella struttura del trono inserisce dei vetri églomisés e per realizzare la spada di san Paolo applica una lamina metallica (oggi perduta). I precedenti di questo polimaterismo vanno ricercati in alcuni episodi della tradizione artistica oltremontana.

Sant'Orsola
Sant’Orsola


Confronto tra la sant'Agnese di Simone Martini e la sant'Agnese della Maestà di Duccio di Buoninsegna
Confronto tra la sant’Agnese di Simone Martini e la sant’Agnese della Maestà di Duccio di Buoninsegna


Il Bambino con in mano il cartiglio
Il Bambino con in mano il cartiglio


San Paolo
San Paolo


Guccio di Mannaia, San Paolo, particolare del calice di Niccolò IV (Assisi; Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco)
Guccio di Mannaia, San Paolo, particolare del calice di Niccolò IV (Assisi; Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco)

Anche attraverso il mezzo pittorico raggiunge esiti di grande naturalismo. Nel san Pietro la volontà di inseguire il reale porta Simone a dipingere la ricrescita sulla testa del santo. San Taddeo invece viene raffigurato con le iridi azzurre: ci troviamo di fronte a uno dei primi casi di occhi cerulei nella pittura italiana.

Grazie a un’iscrizione conosciamo il termine dei lavori della Maestà: MILLE TRECENTO QUINDICI VOL<GEA>/ E DELIA AVEA OGNI BEL FIORE SPINTO/ E IUNIO GIÀ GRIDAVA: “I MI RIVOL<LO>”, da interpretare come indicazione della metà di giugno del 1315. Tuttavia l’opera non è stata eseguita in maniera continuativa e bisogna individuare un intervallo di tempo durante il quale Simone ha smesso di lavorare nella Sala del Mappamondo. Si può infatti individuare all’altezza delle cosce degli angeli inginocchiati e dei santi patroni un’interruzione dell’intonaco. Oltre a questo dato fisico, è l’osservazione dei caratteri stilistici che ci conferma che è successo qualcosa nel percorso di Simone. Nella zona inferiore del dipinto, infatti, la pittura si fa più morbida, più soffusa rispetto agli impasti cromatici e alle stesure della zona superiore. Prendiamo ad esempio la raffigurazione di alcuni elementi vegetali della cornice: quelli della parte superiore restituiscono alla vista una sensazione quasi metallica, mentre quelli nella zona inferiore sono di un’incredibile accuratezza naturalistica, in particolar modo sembra di poter percepire la morbidezza dei fiori dei cardi selvatici. Anche nella gestione dello spazio ci sono importanti novità. Nei tondi raffiguranti i dottori della Chiesa le figure non rimangono entro il limite della propria cornice, come avviene nelle figure della fascia alta, ma si prendono la libertà di uscire, di occupare lo ‘spazio oltre’. Ad esempio, la tiara del san Gregorio esce fuori dal limite del tondo così come il segnalibro e i fermagli della copertina del libro appoggiato sulla cornice. La sensazione è quella di osservare una figura affacciata ad un oblò. Qual è il motivo questo cambiamento stilistico? La risposta è ancora una volta da ricercare nel cantiere di Assisi. Infatti, durante i lavori per la Maestà, Simone riceve, dal cardinale Gentile Partino da Montefiore, la prestigiosa commissione di decorare la cappella di San Martino nella Basilica Inferiore. In questo modo il pittore senese si confrontò con gli esiti più moderni della pittura di Giotto, elaborandoli già nella cappella assisiate. Tornando a Siena, riporta le nuove idee nel completamento della Maestà.

San Pietro
San Pietro


San Gregorio
San Gregorio


Giotto, San Francesco appare a Gregorio IX (1295-1299 circa; affresco, 230 x 270 cm; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)
Giotto, San Francesco appare a Gregorio IX (1295-1299 circa; affresco, 230 x 270 cm; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)

Il messaggio etico-politico affidato a questa raffigurazione viene reso esplicito attraverso un corredo di iscrizioni. Nella striscia dipinta simulando il porfido si legge: “Responsio Virginis ad dicta santorum / Diletti miei, ponete nelle menti / che li devoti vostri preghi onesti / come vorrete voi farò contenti. / Ma se i potenti a’ debil’ fien molesti, / gravando loro o con vergogne o danni, / le vostre orazion non sono per questi/ né per qualunque la mia terra inganni”.

È in queste parole della Vergine che si trova il cuore del messaggio. È infatti un’esortazione al buongoverno, a una corretta amministrazione della giustizia attraverso l’osservanza delle leggi vigenti. Questo si collega al cartiglio del Bambino, in quanto vi sono riportate le parole attribuite al saggio e giusto re Salomone in apertura del Libro della Sapienza “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”. La dichiarazione della Vergine risulta anche come autolegittimazione del Governo dei Nove e di difesa nei confronti delle insidie che correvano in città nei confronti di quella amministrazione.

Anche l’altra iscrizione, in maiuscole gotiche in foglie d’oro su fondo nero, che corre sul gradino tra i due angeli inginocchiati, è pronunciata dalla Vergine: “Li angelichi fiorecti, rose e gigli, / onde s’adorna lo celeste prato, / non mi dilettan più che i buon consigli. / Ma talor veggio chi per proprio stato / disprezza me e la mia terra inganna, / e quando parla peggio è più lodato. / Guardi ciascun cui questo dir condan[n]na!”.

Questa iscrizione risale al 1321, quando viene chiesto a Simone Martini di intervenire nuovamente sulla sua Maestà. La motivazione di questa ‘raconciatura’ è da ricercarsi nella necessità della committenza di rafforzarne il messaggio. Nel 1318, infatti, si verifica uno degli eventi più insidiosi per la sua stabilità nella storia del governo novesco, conosciuto con il nome di “rivolta dei carnaioli”, i proprietari degli allevamenti di bestiame e commercianti della carne, ma che coinvolse anche altre categorie potenti, come giudici e notai, e famiglie magnatizie: tutti questi soggetti erano accomunati dall’esclusione dal poter accedere alla carica di governo. La congiura fallisce. Questi nuovi versi, composta da sette endecasillabi in volgare rimato, contengono un importante concetto, quello della subordinazione dell’interesse privato rispetto a quello comune. È un nuovo messaggio molto chiaro e potente. La Vergine gradisce i fiori che le vengono offerti dagli angeli così come i buoni consigli, o più in generale, l’onesta azione politica che si compiva davanti a lei durante il Consiglio Generale. Allo stesso tempo vede che non tutti si comportano lealmente verso le istituzioni per interesse privato, disprezzando in questo modo lei e la terra che protegge, e più agiscono e parlano male più il loro consenso aumenta. Conclude sottolineando di tenere bene a mente le sue parole che condannano quanti si comportano in quel modo. Un monito che attraversa i secoli e ci sembra ancora assolutamente attuale.

Prima parte dell'iscrizione
Prima parte dell’iscrizione


Seconda parte dell'iscrizione
Seconda parte dell’iscrizione

L’inserimento di questo nuovo messaggio della Vergine ha comportato la necessità di apportare anche alcune modifiche stilistiche. La nuova iscrizione, infatti, è stata inserita al posto dei dicta sanctorum che dunque avevano bisogno di una nuova collocazione. Simone pensadi aggiungere dei cartigli tenuti in mano dai santi patroni (purtroppo questi elementi, realizzati nel 1321 a secco, non sono più leggibili in quanto la pittura è caduta, facendo così venire meno il dialogo con la Vergine). Per sant’Ansano, san Savino e san Vittore riesce a innestare i cartigli nella versione terminata nel 1315, mentre per il san Crescenzio ritiene di dover effettuare una modifica. Ridipinge così parte della mano sinistra e quella destra. Per una motivazione di coerenza stilistica ridipinge anche il volto del santo. In questo modo si innesca una reazione a catena che porta a modificare anche il volto di sant’Ansano, nell’iconografia raffigurato come santo gemello di Crescenzio, e per una questione di omogeneità stilistica modifica i volti e le mani dei personaggi al centro della raffigurazione, che con l’inserimento della nuova scritta sul gradino del trono, risaltano ancora di più: la Vergine, il Bambino, gli angeli offerenti e le sante principesse Orsola e Caterina. Viene ridipinta anche la mano con cui san Paolo impugna la spada. Per le modifiche, Simone interviene in maniera chirurgica, tagliando l’intonaco precedente e stendendone un nuovo strato su cui realizzare la nuova figurazione. Sono volti dall’incarnato più chiaro e luminoso, più freddi rispetto a quelli del resto della composizione, le linee sono diventate più sottili e taglienti. L’umanità che aveva raffigurato precedentemente stava diventando sempre più eletta e sofisticata.

Tramite la riproduzione del sigillo del Comune e quello del Capitano del Popolo, posti ai lati della striscia di porfido che contiene il termine temporale della Maestà, probabilmente in origine accompagnata dall’indicazione della committenza, si conferisce valore documentario a quest’opera. Nella zona sottostante è presente, in forma lacunosa, la firma del pittore “S<E L>A MAN DI SYMONE…”. Simone Martini raccoglie diverse tradizioni figurative e sviluppa una propria, straordinaria via artistica per quest’opera in cui un tema sacro viene adattato alle necessità di propaganda del governo senese.


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Francesca Interguglielmi

L'autrice di questo articolo: Francesca Interguglielmi

Storica dell'arte, laureata in Arte Medievale presso l'Università degli Studi di Siena. Attualmente si sta formando in didattica museale presso l'Università degli Studi Roma Tre.



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